279°-IVEONTE E TIONTEO LIBERANO GUDRA DAI SURCOS

Nel frattempo, dopo il vile tradimento dei Surcos, cos’era avvenuto nel villaggio dei Moian e come stavano attualmente procedendo le cose per Gudra, l’ex capo dei Moian? In verità, ogni cosa andava avanti a meraviglia per i soli traditori Trasco ed Onco. Il primo dettava le proprie leggi inique a suo piacimento al popolo moianese e maltrattava con varie sevizie chi gli si opponeva. Ma colui che stava peggio di tutti era il capo moianese, essendo egli costretto a subirne di tutti i colori dal capo dei Surcos. Ci conviene, però, riprendere i vari fatti dall’inizio e seguirli nel loro intero svolgimento. Ebbene, dopo avere impartito ai suoi guerrieri l’ordine di arrendersi, il capo dei Moian aveva atteso con una certa insofferenza il disgustoso incontro con i suoi due acerrimi nemici. Quando poi esso malauguratamente per lui era avvenuto, era stato Onco, l’antipatico capo surcosino, ad esclamargli per primo:

«Credevi di cavartela, usurpatore Gudra, dopo tutte le offese che ci hai arrecate e le tante minacce che ci hai fatte? Invece da oggi, come te ne accorgerai molto presto, non potrai più fare il gradasso con nessuno, dal momento che penseremo noi a raddrizzarti per sempre le ossa e ad azzittirti nel modo che più ci farà piacere! Come vedi, i nodi vengono sempre al pettine, il qual fatto tra poco non risulterà più a tuo favore, come puoi iniziare ad immaginarti! Te lo affermo e te lo prometto!»

Dopo, rivolgendosi a Trasco, che mostrava un’indole più odiosa di lui, con piena soddisfazione gli aveva domandato:

«Non ne sei convinto pure tu, amico mio, che dividi con me tanto le gioie quanto le sofferenze, quasi fossimo due gemelli capaci di avvertire le medesime sensazioni, sia quelle buone che quelle cattive?»

«Senza meno, Onco, la sua vita futura sarà quella che tu gli hai già prospettata. Comunque, ciò avverrà, subito dopo che nel villaggio lo scettro del comando sarà passato dalle sue mani alle mie e tutti i suoi abitanti saranno obbligati ad obbedirmi per legge!»

«Io non ho mai fatto il millantatore, come voi asserite, esseri miserabili!» Gudra era intervenuto a difendersi «La mania di fare gli spacconi, come sapete, è una vostra peculiare prerogativa, in special modo quando siete spalleggiati da un esercito! Sappiate che siete riusciti ad avere partita vinta contro il mio popolo, solo perché siete ricorsi ad un abietto inganno. Esso non fa di certo onore alla razza umana, specialmente a voi due, che siete due vermi schifosi! Mio fratello si è comportato da autentico sciacallo, pur di entrare in possesso di ciò che mai gli sarebbe appartenuto, senza ricorrere all’infamia! Ma gli individui come voi, essendo privi di ogni dignità umana, ignorano che il tradimento e l’inganno sono propri di persone vigliacche e prive di onore! Nessuno ve lo ha mai detto, durante tutti gli anni della vostra trascorsa esistenza?»

Avendo trovato molto tagliente il linguaggio di Gudra, poiché secondo lui egli era stato assai offensivo nei loro confronti, Onco subito aveva ordinato ai suoi guerrieri:

«Legate ed imbavagliate questo viscido serpente! Così smetterà per sempre di punzecchiare gli altri con le sue velenose calunnie! Da ora in poi, per lui non dovranno esserci più né il piacevole comando sul suo popolo né una vita facile. Difatti è nostra intenzione trasformargliela in una vera geenna, ad iniziare da domani, quando sarà tradotto nel mio villaggio!»

Era stato così che per il saggio e giusto capo moianese era iniziato un mese di torture, le quali erano da intendersi sia fisiche che psicologiche. Perciò avrebbero messo a dura prova il suo organismo e il suo indomito spirito. Per prima cosa, Gudra era stato tradotto al villaggio dei Surcos, dove era stato rinchiuso dentro una cella sotterranea, dopo essere stata scavata appositamente per rinchiudervi lui. In tale ambiente angusto, il quale era anche buio e malsano, egli era stato sempre tenuto legato mani e piedi, appunto per non consentirgli alcun movimento. Si trattava di una sorta di buca incassata nel terreno, la quale era profonda sei metri, lunga quattro e larga tre. Essa, dopo essere divenuta la sua cella, veniva anche piantonata incessantemente da tre guerrieri Surcos.

Ogni giorno, all'ora di pranzo, Gudra, dopo essere stato slegato ai piedi ed imbavagliato, era stato condotto davanti ad Onco, dove gli erano state legate di nuovo le caviglie ed era stato costretto a stare ginocchioni. Invece il capo dei Surcos sedeva davanti ad una tavola imbandita con sopra varie leccornie. Tra le altre cose, vi si scorgevano la tenera cacciagione rosolata allo spiedo, uno squisito vino abboccato e parecchia frutta profumata dal sapore zuccheroso. Mentre pranzava, di tanto in tanto, il capo dei Surcos gli lanciava qualche osso, gridandogli: "Questo è per te, cane rognoso!" Ma anche dopo aver bevuto un boccale di vino, egli era solito riempirlo di nuovo e consegnarlo al suo attendente, dicendogli: "Pure il cane deve dissetarsi; perciò fallo bere!" Egli allora, dopo averlo ritirato dalla mano del suo capo, andava a versarlo sulla testa del prigioniero, dicendogli: “E non dire che esso non è buono!”

Tale canzonatura continuava anche durante la consumazione della frutta. Dopo averla sbucciata e mangiata avidamente, Onco si dava a dirgli: "Già, anche il nostro gradito ospite ha diritto ad una porzione di frutta!" Mentre gli si esprimeva in quel modo, gli lanciava contro soltanto le bucce, i noccioli e i torsoli. Invece, alla fine di ogni pasto serale, dopo essersi rimpinzato per bene, egli si alzava da tavola. Mentre poi passava davanti a Gudra, gli asseriva con sussiego: "Vedo che anche oggi ti sei abbuffato a crepapelle! Perciò ti suggerirei di essere più temperante nel mangiare e nel bere vino, se vuoi conservare la linea e tenerti in ottima forma. Così eviterai di apparirmi un maiale, quale ora sei diventato per il troppo cibo!" Dopo aver pronunciato quelle sarcastiche parole, il manigoldo se ne usciva dalla sua tenda pienamente soddisfatto. Allora lo sventurato Gudra veniva segregato ancora nella sua lurida cella, perché gli si desse da mangiare. Per pasto, gli si dava il pastone che nel villaggio si era abituati a prepararlo per i maiali. Esso veniva servito al poveretto nel medesimo trogolo di legno nel quale in precedenza avevano mangiato gli animali citati nel loro porcile.

Ecco come veniva trattato l'infelice Gudra, dopo essere stato privato dello scettro del comando ed esautorato dal fratello, il quale era ricorso alla complicità di Onco per raggiungere un simile obiettivo. Perciò, da quel momento terribile, la sua vita era diventata un continuo supplizio, a cui doveva sottostare, senza poter opporre la minima resistenza. Con l'uso del bavaglio, i suoi due infami nemici gli proibivano perfino di reagire verbalmente, ogni volta che si davano a punzecchiarlo con le loro frasi ingiuriose oppure lo dileggiavano con epiteti spregiativi e con gesti assai plateali. Ma più che le pene fisiche, le quali erano da considerarsi pure inumane e degne delle persone che gliele infliggevano, erano quelle di natura psicologica a farlo soffrire di più, siccome esse venivano a torturare lo sventurato in modo incredibile. Le pesanti umiliazioni, che quotidianamente egli era obbligato a subire, superavano ogni limite. Inoltre, mettevano a dura prova la sua sopportazione, fino a fargli rimpiangere di essere nato e a spingerlo spesso a desiderare la morte. A quel loro atteggiamento, l'intera sua interiorità si metteva ad agitarsi come un mare in burrasca. Per cui il grido della sua coscienza si palesava più forte dell'urlio della tormenta; mentre lo schianto della sua anima si dimostrava così rovinoso, da far temere il peggio. Invece la sua razionalità sembrava vacillare in allucinazioni spaventose e l'intera sua personalità si rivelava prossima a naufragare nel mare della follia. Nel suo cuore, infine, venivano a furoreggiare la rabbia e l'odio, che egli avrebbe voluto far scatenare concretamente contro i responsabili di quella sua orrenda situazione.

Gudra, comunque, non disperava; secondo lui, un giorno si sarebbe liberato dal giogo, che gli era stato ingiustamente imposto dal fratello Trasco e dal suo amico Onco. Così si sarebbe vendicato di ogni affronto ricevuto e di ogni torto patito per mano di quelli che si erano comportati vigliaccamente nei suoi riguardi, rivelandosi due sordide canaglie della peggiore specie. In quella sua sventura, anziché a sé stesso, la sua mente era rivolta prima di tutto ai suoi due figli adolescenti. Era per loro che Gudra soffriva di più, da quando era stato messo al corrente che i guerrieri che li scortavano, pur di sfuggire ai loro inseguitori e salvarsi, si erano avventurati nella Foresta della Paura. Egli si era andato chiedendo, come continuava a farlo tuttora, se fossero ancora vivi o se una sorte orribile li avesse già travolti in modo impietoso. Restando poi nel dubbio, l'ex capo dei Moian non riusciva a darsi pace, si tormentava terribilmente ed avrebbe voluto stare insieme con loro per difenderli da tutti i pericoli che si nascondevano in tale foresta malfamata. Ma non essendogli possibile una cosa del genere, egli impazziva dalla disperazione, imprecava contro il germano e contro il capo dei Surcos, poiché erano gli unici responsabili delle rischiose peripezie, a cui i figli stavano andando incontro. Erano queste le tremende ore che lo sconsolato Gudra adesso si ritrovava a vivere ogni giorno nella sua squallida ed umida cella, mostrandosi totalmente impotente a fare qualcosa per sé e per i suoi due amati figlioli. Per sua fortuna, per lui i giorni di sofferenza e di mortificazione oramai stavano volgendo al termine. Infatti, qualcuno si affrettava a liberarlo dai suoi tracotanti nemici, facendogli riacquistare la serenità, la gioia e i suoi perduti poteri di capotribù.


Per il disgraziato capo moianese, il sole stava sorgendo per la cinquantasettesima volta, da quando l'infame fratello lo aveva spodestato e gli aveva usurpato lo scettro del comando, allorché Iveonte fece dare la sveglia nel suo accampamento. Si assistette allora ad una mobilitazione generale dei suoi uomini, i quali incominciarono a prepararsi con solerzia per l'imminente partenza. Anche Kuanda e il fratello Tungo, una volta svegli, cercavano di dare il loro contributo in quel fervere di preparativi. Perciò, come gli altri, non smettevano di attivarsi qua e là, dando una mano a chi ne aveva più bisogno. Scorgendoli così attivamente impegnati, Tionteo, il quale a quell'ora stava raggiungendo l'amico, li sottrasse alla loro fatica e li invitò a seguirlo. Dopo che tutti e tre furono nella tenda dell'eroe, il Terdibano si affrettò a rendergli noto:

«Nel nostro campo, Iveonte, le diverse operazioni che riguardano la ripartenza sono giunte quasi al termine. In questo momento, gli uomini stanno aggiustando le some sulle bestie. Perciò, quando avranno ultimato anche quest'altro loro lavoro, essi saranno bell’e pronti per ripartire. Si attenderà solamente il tuo ordine per partire!»

«Bene, Tionteo!» gli rispose Iveonte «Allora subito dopo si potrà riprendere il cammino. Ma questa volta, non appena saremo usciti da questa foresta, ci muoveremo verso il villaggio dei Surcos!»

«Perché ci andiamo, Iveonte?» gli obiettò la terrorizzata ragazza «Dovresti sapere che in quel luogo i guerrieri surcosini ci faranno prigionieri. Inoltre, il loro capo Onco si affretterà a consegnarmi a mio zio Trasco, per cui sarò obbligata a sposarlo contro la mia volontà e quella di mio padre! Non mi dire che desideri proprio questo, invincibile guerriero!»

«Kuanda, quando saremo nel loro villaggio,» le precisò Iveonte «dovranno essere i Surcos e il loro capo a preoccuparsi per la loro sorte. Sappi che è mia intenzione punirli per tutto il male che essi hanno arrecato alla tua famiglia e al tuo popolo! Tuo zio Trasco e il suo amico Onco dovranno pentirsi amaramente dei loro tantissimi misfatti! Mi sono spiegato adesso? Quindi, puoi restartene tranquilla, senza pensare a cose assurde, come hai fatto poco fa. In un certo senso, mi hai offeso, senza accorgertene!»

«Iveonte, hai forse dimenticato che hai meno di un centinaio di uomini al tuo seguito; mentre i guerrieri Surcos saranno non meno di tre migliaia? È di questa realtà che dovresti prendere atto, prodigo eroe, prima di portarci tutti quanti alla rovina e di comportarti da vero comandante scriteriato! Inoltre, il mio linguaggio non ha inteso offenderti in qualche modo!»

«Credi, ragazza, che un simile numero di Surcos possa impressionarmi e destarmi qualche preoccupazione? Per questo quanto hai pensato dovrà essere l'ultimo dei tuoi pensieri. Invece ti esorto unicamente a convincerti che tra poco tuo padre, ammesso che sia ancora vivo, sarà di nuovo libero. Al contrario, i due malfattori, che si sono resi colpevoli delle vostre sventure, nei prossimi giorni saranno puniti esemplarmente da me! Hai forse già dimenticato come ho ridotto i Monki nella loro sala delle trasfusioni? Se lo hai scordato, mi dovrò meravigliare di te in senso negativo!»

«Se te lo dice, Iveonte, sorella mia,» intervenne nel discorso anche Tungo «ti toccherà credergli, dato che nessuna cosa gli è impossibile. Non ti ha forse già dimostrato l’incomparabile suo valore nel combattimento contro i Monki, riuscendo perfino a non farsi colpire dalle loro armi prodigiose? Tu stessa mi hai raccontato che egli ti aveva strabiliata moltissimo, nello scorgerlo mentre compiva una grande strage dei lucertoloni!»

«Hai proprio ragione, fratello, per cui devo chiedere scusa al nostro benefattore Iveonte. Per un attimo, ho pensato a lui come ad una persona qualunque e non come ad un eroe straordinario! Perciò egli mi deve perdonare per la momentanea mancanza di fiducia, che ho avuto nei suoi confronti. Ma gli giuro che in avvenire non mi capiterà mai più di recargli un torto simile, poiché egli assolutamente non lo merita!»

«Certo che ti perdono, graziosa Kuanda!» Iveonte tranquillizzò la ragazza «Adesso, però, il tempo che ci resta dovrà essere utilizzato da noi solo per dare l'avvio alla nostra nuova partenza da questo luogo. Così facendo, raggiungeremo in un tempo minore coloro che hanno cagionato una infinità di guai a voi, al vostro genitore e all'intero popolo dei Moian!»

Per la precisione, quali azioni belliche Iveonte e Tionteo avevano pianificato il giorno prima, in merito al loro intervento contro i Surcos? L'impatto con i nemici sarebbe avvenuto alla luce del sole o nottetempo, per qualche motivo particolare? Ebbene, il piano da loro due progettato prevedeva azioni sia diurne che notturne. Quanto a queste ultime, esse avrebbero dovuto fornirgli ragguagli certi sul padre dei due ragazzi, a cominciare dall'individuazione del suo luogo di prigionia, se egli vi fosse risultato ancora vivo e vi fosse tenuto come recluso in maniera disumana. Le azioni in pieno giorno, invece, sarebbero state di diretto contatto con entrambi i popoli. In un primo momento, perciò, avrebbero dovuto spingere i Moian alla rivolta popolare e alla riscossa, facendoli ribellare al despota Trasco. In un secondo momento, invece, si sarebbero dati da fare per punire i due vigliacchi, che erano i responsabili della loro pessima situazione. Ma se vogliamo essere obiettivi, forse non conviene cercare di averne una descrizione dettagliata in anteprima. Infatti, si prova più soddisfazione a seguire le varie azioni in diretta, ossia durante il loro svolgimento, che non apprenderle in anticipo, attraverso una loro approssimazione.

Perché Iveonte intendeva pervenire prima al villaggio dei Surcos e dopo a quello dei Moian? Non era forse nelle sue intenzioni liberare innanzitutto Gudra, rimettendolo a capo del suo popolo, e successivamente marciare con esso contro i guerrieri di Onco? Certo che il piano del nostro eroe prevedeva appunto questo! Ma egli era convinto che l'ex capo dei Moian non si trovava nel suo villaggio, ad evitare che la sua presenza in esso incoraggiasse i suoi ex sudditi a liberarlo e a ribellarsi a Trasco. Per questo la prigione del padre dei ragazzi doveva trovarsi obbligatoriamente nel villaggio surcosino, dove sarebbe stato più difficile liberarlo e sottrarlo ai Surcos. Ad ogni modo, ci vollero una decina di giorni, prima che il convoglio capitanato dai due giovani amici giungesse a destinazione. Esso pervenne nelle prossimità del villaggio nella serata del decimo giorno, senza che nessuno dei Surcos si accorgesse del suo arrivo. Allora Iveonte, dopo avere individuato il luogo più adatto per insediarsi in esso, ordinò ai suoi uomini di piantarvi l'accampamento. Quando essi vi si sistemarono nel modo migliore, diede disposizione di distribuire il rancio serale.

A notte inoltrata, invece, guidati dall’adolescente Tungo, Iveonte e Tionteo raggiunsero il villaggio surcosino, dove ogni cosa sembrava avvolta da un velo di silenzio. In ciascuna sua contrada, non si scorgeva neppure un'anima viva; invece nel cielo era visibile una luna che era in fase calante. Essa, però, di tanto in tanto, veniva nascosta da qualche grossa nuvola di passaggio, facendo così diventare la notte di un buio pesto. Mentre si muovevano con circospezione per le varie vie del villaggio, ad un certo punto, i tre visitatori notturni avvistarono in lontananza due sagome umane che, restando sempre nello stesso posto, si muovevano con un lento andirivieni. Allora, avanzando con la silenziosità dei felini, essi vollero avvicinarsi di più a loro, volendo distinguerle meglio nell'oscurità della notte. Quando infine furono distanti da tali persone una ventina di metri, gli stessi si resero conto che con loro c'era anche un terzo uomo. Il quale, però, se la dormiva disteso per terra, essendo forse il suo turno di darsi al sospirato sonno.

A quel punto, Tionteo domandò all'amico:

«Adesso cosa si fa, Iveonte? Ho l'impressione che quelli stiano sorvegliando qualcuno! Non sembra pure a te? Altrimenti cosa ci farebbero essi in quel posto, soli e nel pieno della notte? Comunque, nello stesso luogo non si scorge il loro prigioniero!»

«Certo che è così, amico mio! Per come ci si presentano le cose, ci conviene prima fare fuori le due sentinelle sveglie e poi costringere la terza, che per il momento se la dorme, a cantare con le buone oppure con le cattive. Così verremo a sapere se essa sa qualcosa sull'ex capo dei Moian! Sono convinto che ne è al corrente!»

Poco dopo, i guerrieri Surcos che stavano in piedi, essendo stati stecchiti dalle frecce dei due giovani amici, crollarono per terra con un leggero tonfo, il quale destò il loro compagno mezzo addormentato. Costui, però, ebbe appena il tempo di chiedersi che cosa stesse succedendo, allorché si vide addosso due persone sconosciute. Delle quali, l'una, che era Tionteo, gli rasentava la gola con la punta della sua spada; mentre l’altra, che era Iveonte, all’istante passò ad intimargli:

«Dimmi subito dove tenete segregato Gudra, se non vuoi che ordini al mio amico ti squarciarti la gola! Se poi ti fa piacere tenere la bocca cucita e morire, sono cavoli tuoi! Allora hai stabilito cosa intendi fare, perché noi possiamo comportarci di conseguenza nei tuoi confronti?»

«Se invece mi rifiutassi di parlare e dessi l'allarme,» lo contraddisse il Surcos «sai dirmi come ve la cavereste voi? A mio parere, niente affatto bene: non è forse vero?»

«Questo è affare nostro, se non ti dispiace, malaccorto uomo. Nel frattempo tu saresti bell’e spacciato e non potresti renderti conto proprio di nulla, neppure dell’arrivo di quei tuoi conterranei che fossero intenzionati a darti manforte! Stanne certo!»

«Allora uccidetemi pure, poiché non vi dirò un bel niente! Intesi?»

All’improvviso, come se provenisse da sottoterra, si udì una voce cupa, che urlava: "Sono qui! Sono qui sotto! Visto che siete miei amici, sbrigatevi a liberarmi!" Nello stesso tempo, il guerriero surcosino tentò di dare l'allarme; ma egli fu sgozzato senza indugio da Tionteo con un bel taglio netto alla gola, prima che egli potesse pronunciare una sola sillaba e rendere esecutiva la sua minaccia. Subito dopo, invece, insieme con l'adolescente Tungo, Iveonte e l'amico si misero a cercare il passaggio che conduceva alla cella del recluso. Ma fu il carcerato stesso ad aiutarli a trovarlo, facilitandogli il compito. In quel modo, egli permise agli sconosciuti di liberarlo più celermente e di trarlo fuori dalla buia cella. Nel trovarsi davanti il figlio Tungo, l'uomo, che adesso si presentava parecchio smagrito e con una barba incolta, se lo abbracciò con tutto l'affetto possibile e ne gioì a non finire. Iveonte, però, anche se con dispiacere, intervenne ad interrompere le loro effusioni di gioia. Per questo, rivolgendosi allo spodestato capo dei Moian, gli fece presente:

«Adesso bisogna filare alla svelta, Gudra! Soltanto dopo che saremo fuori del villaggio, voi due potrete rallegrarvi e rivolgervi tutte le domande che riterrete più opportune. Comunque, capo dei Moian, questa notte non si dormirà per niente; ma si riprenderà senza indugio il cammino, puntando direttamente sul tuo villaggio. Ma prima badiamo ad occultare i cadaveri dei tre Surcos, gettandoli dentro la cella e ricoprendola con lo stesso materiale. Così facendo, ritarderemo la loro scoperta da parte della gente del villaggio, quando domani mattina essa si sveglierà!»

Una volta buttati i tre corpi senza vita nel locale seminterrato, Iveonte e Tionteo, insieme con Tungo e suo padre, fecero ritorno al loro accampamento. Dopo che vi furono giunti, venne dato l'ordine di rimettersi in cammino alla volta del villaggio moianese. Nel campo, naturalmente, anche l'abbraccio di Gudra con la figlia Kuanda fu molto caloroso ed emozionante. Il poveretto non credeva ai suoi occhi, mentre la felicità gli trionfava sul volto nella maniera più sentita ed incontenibile. Anche se all'inizio rincrebbe molto ai Lutros svegliarsi, dopo appena un'ora che si erano messi a dormire, alla fine compresero la necessità del provvedimento preso da Iveonte e l'accettarono senza alcuna contrarietà. Perciò si adoperarono alacremente, perché i preparativi per la partenza fossero terminati prima possibile. Agendo in quel modo, dopo neanche mezzora di darsi da fare, il convoglio era già in marcia verso la nuova meta stabilita da Iveonte. Così, alle prime seriche luci dell'alba, quando erano rimaste solo scarse stelle ad occhieggiare nel cielo di occidente, fu avvistato il villaggio dei Moian, il quale era ancora immerso in un sonno profondo. A quell'ora del mattino, l'abbaio insistente di un cane randagio si mostrava l'unica cosa vivente nelle sue strade deserte, dove non si scorgeva in giro neppure un essere vivo. Nei pressi del villaggio, Gudra si espresse al suo liberatore in questo modo:

«I miei due figli, Iveonte, lungo l'intero tragitto, non hanno fatto altro che parlarmi di te, descrivendoti come un guerriero imbattibile ed un insuperabile eroe. Secondo quanto hai fatto per loro, sono convinto che essi non hanno esagerato a considerarti come ti ho riferito. Intanto approfitto per ringraziarti di vero cuore ed esprimerti la mia somma gratitudine, per averli strappati ad una morte certa! Inoltre, ti sono riconoscente per avermi liberato da una annosa e dura prigionia, la quale stava demolendo la mia persona in senso sia fisico che psicologico. Ma adesso scusami, valoroso guerriero, se mi permetto di chiederti perché mai hai voluto che pervenissimo al mio villaggio. Probabilmente ci sarà un buon motivo, che non riesco ancora a comprendere nel modo più assoluto. Se esso davvero esiste nelle tue intenzioni, potrei conoscerlo anch’io?»

«Se non lo hai ancora capito, Gudra, te lo rivelo io. Sono intenzionato a punire tuo fratello Trasco e a permetterti di ritornare ad essere il legittimo capo dei Moian. Non sei contento di questo mio proposito, il quale dovrebbe risultarti bellissimo?»

«Mi dici allora, Iveonte, come intendi agire in questa impresa che, a mio parere, si presenta del tutto utopistica? Come puoi pretendere di ottenere quanto ti proponi con un numero così esiguo di uomini? Vorrei che tu me lo spiegassi in modo convincente, se ciò non ti reca alcun disturbo! Ma ti ringrazio ugualmente per quanto intendi fare a mio favore, anche se lo ritengo una impresa del tutto irrealizzabile!»

«Non preoccuparti di ciò, Gudra! Sappi che non mi permetto di fare progetti, se prima non sono in possesso dei vari elementi conoscitivi che mi occorrono. Per averli, quindi, ho bisogno di parlare con una persona autorevole del villaggio, la quale mi chiarisca la sua odierna situazione. Tu me ne sai indicare qualcuna, di cui possiamo fidarci ciecamente, poiché giammai essa oserebbe tradirci? In caso affermativo, senza indugio andremo a trovarla per riceverne le informazioni che mi interessano.»

«Mio suocero Bulius, se è ancora vivente, è la persona che fa al caso nostro, Iveonte. Egli è anche lo stregone del villaggio e nessuno meglio di lui potrà ragguagliarti sugli ultimi sviluppi, i quali hanno riguardato la tribù dei Moian. Così approfitterò per riabbracciarlo con affetto e con calore. Non sai quanto desidero farlo!»

«Se me lo garantisci tu, Gudra, vuol dire che ci rivolgeremo a tuo suocero ed attingeremo da lui le notizie che ci necessitano, prima di agire contro Trasco. In questo modo, potrai anche rivederlo e rivivere con lui i tanti momenti trascorsi insieme. Ma prevedo che alcuni dei ricordi più recenti potranno condurti soltanto a scavare in alcune profonde ferite del cuore, non essendosi esse ancora rimarginate totalmente!»

Le ultime parole di Iveonte vennero ad intristire Gudra. Egli, ad un tratto, si chiuse in una cupa malinconia, siccome nella sua mente riaffiorò il ricordo della dolce sua moglie Tilce, la quale era venuta a mancargli nella stessa notte dell'ignobile tradimento. Ma gli richiamò alla memoria anche quello della madre Dulca, la quale si era sacrificata per lui. Allora, a causa della loro morte immeritata, il dolore si ripresentò forte e lancinante nel suo animo, dove prima aveva trionfato la gioia che gli era derivata dai suoi due figli ritrovati in piena salute. Così la sua esistenza ricominciò a stillare attimi di grande pena e di profonda ambascia.