274°-KUANDA RACCONTA AL FRATELLO QUANTO HA APPRESO SUI MONKI

Era trascorso poco più di un mese che eravamo prigionieri dei Monki, allorquando una mattina due di loro si presentarono alla nostra cella ed obbligarono solo me a seguirli. Io non opposi alcuna resistenza e gli andai dietro rassegnato ad ogni malasorte che mi sarebbe potuta derivare dalla nuova destinazione. Oramai, avendo perduto tutti i miei parenti più stretti, la vita per me non aveva più alcun significato, essendo naufragata nel nulla. Procedendo così fra quei corridoi dalle pareti ben levigate e dipinte, il mio pensiero era rivolto più a mia sorella che non ad altro. Mia sorella Kuanda, sebbene fossimo quasi coetanei, mi aveva cresciuto da piccolo con tale amorevolezza, che neppure mia madre e mio padre non sarebbero riusciti a fare di meglio. Perciò penavo in modo indicibile, all'idea che la poveretta potesse aver subito qualche brutalità da parte di quegli esseri spregevoli, senza che nessuno fosse potuto intervenire in suo soccorso.

Avevamo già percorso vari anditi illuminati, quando i miei accompagnatori si arrestarono davanti ad una porta, la quale faceva da ingresso ad un locale. Allora uno di loro l'aprì e mi ci spinse dentro quasi con la forza, anche se non proprio con un vero strattone. Ma una volta oltrepassata la soglia di essa, ebbi la gradita sorpresa di trovarvi nell'interno la mia dolce sorella. Ella era in trepida attesa di incontrarmi e di abbracciarmi con il suo grande affetto di sempre. In un primo momento, le parole non trovarono spazio in quel nostro commovente incontro. Comunque, esso era da considerarsi inatteso soltanto per me, poiché mia sorella ne era già al corrente e mi stava appunto aspettando. Così, in un attimo, la circostanza ci inondò di una emozione inesprimibile, dalla quale subito fummo entrambi spinti a gettarci l'uno nelle braccia dell'altra. Noi piangevamo per la contentezza, fremevamo, sospiravamo, tenendoci in un abbraccio che si protrasse per lungo tempo e che avremmo desiderato che fosse durato una eternità. Non volevamo disgiungerci più, essendo timorosi che qualcuno potesse ancora separarci. Alla fine, quando venne a cessare fra di noi l'intenso stato emotivo iniziale, Kuanda, accarezzandomi dolcemente il viso, mi dichiarò:

«Fratello caro, non puoi immaginare quanto io sia stata in pena per te, in tutto questo tempo che ci hanno tenuti separati! Ma voglio sperare che nessuno ti abbia fatto oggetto di un suo torto oppure ti abbia arrecato del male! Se ciò fosse accaduto, il dispiacere in me sarebbe stato difficilmente sopportabile. Tu lo sai che, come nel passato, tengo moltissimo a te e non tollererei vederti soffrire neppure un poco!»

«Sorella mia, invece né io né gli altri Moian, che sono nella mia stessa cella, siamo stati maltrattati da parte di qualcuno. Ho solamente sofferto, al pensiero che quei lucertoloni ti avessero fatto cose che non oso neppure immaginare. Ho solo temuto che ti avessero uccisa, la qual cosa non mi avrebbe più permesso di rivederti! Ma adesso parlami di te, rispondendo alle mie tante domande, se ti fa piacere! Perché quegli esseri mostruosi hanno voluto separarti da noi? Ti hanno forse usato violenza quei malfattori? Voglia il cielo che essa non ci sia stata su di te! Una ventina di giorni fa sei dei nostri guerrieri sono stati condotti via dalla nostra cella e non abbiamo più sentito parlare di loro. Tu sapresti dirmi qualcosa in merito a tali guerrieri e perché sono stati prelevati e portati via dalla cella? In caso affermativo, vorrei che tu me ne parlassi, se ciò non ti rechi disturbo o qualche sofferenza interiore. Secondo me, potrebbe anche essere così! Non è forse vero che qualcosa del genere potrebbe essere accaduto?»

«Tungo, ero già venuta a conoscenza del prelevamento dei nostri sei uomini; ma ti confesso che avrei fatto volentieri a meno di avere loro notizie! Comunque, per quanto riguarda me, puoi stare tranquillo che non ho subito alcun tipo di violenza da parte di nessuno dei nostri catturatori alieni, almeno fisicamente intesa. Ritenendomi essi la personificazione in terra della loro dea Luna, vengo trattata da tutti meglio di una regina di una grande città. Devi sapere che si chiamano Monki gli strani esseri che ci hanno prima fatti prigionieri e poi ci hanno costretti a seguirli in questa loro dimora. Il loro nome mi è stato riferito da Luppon, che è un personaggio influente presso questi alieni, siccome presiede alle loro varie funzioni religiose. Egli è un Monko autorevole, fratello mio, ed è secondo soltanto al loro capo, il cui nome è Bukot.»

«Sono contento, sorella, del bel trattamento che ti hanno riservato i taciturni Monki; però dubito che sia andata altrettanto bene ai sei Moian che sono stati tolti dalla nostra cella per un loro scopo, che non siamo riusciti ad immaginare. Tu già me ne hai dato atto, quando poco fa hai dichiarato che per te sarebbe stato meglio, se non avessi mai saputo niente dei nostri sei guerrieri. Perché, dunque, non mi parli di ciò che è accaduto a quegli sventurati? Il tuo volto mi palesa che sai molte cose terribili sul loro conto. Ammettilo, Kuanda, che è esattamente come ho pensato!»

«Sì, non ti sei sbagliato, Tungo, fratello mio! Vedo che, pure nell'attuale grave situazione, la perspicacia continua ad albergare in te. Essa, come al solito, ti fa penetrare i recessi dell'animo umano e ti permette di leggere senza difficoltà nell'altrui coscienza. Ebbene, i miei occhi sono stati testimoni di fatti orripilanti, che non avrei mai immaginato che potessero essere commessi da qualcuno! Tra poco, pur di accontentarti secondo i desideri che mi hai espressi, ti dirò come i nostri conterranei sono stati barbaramente trucidati dai Monki. Prima, però, non ti interessa apprendere ciò che mi è successo, dopo che sono stata separata da voi altri Moian?»

«Certamente, Kuanda, che voglio conoscere innanzitutto ciò che ti ha riguardato in prima persona! Per questo inizia pure a raccontarmi le cose che ti sono accadute, dopo che ci hanno divisi.»

Al mio invito, mia sorella si diede a farmi il resoconto di quanto le era avvenuto, dopo che l'avevano separata dal resto del nostro gruppo. Allora io, drizzando bene le orecchie, mi misi a seguire il suo racconto a volte con interesse, altre volte con apprensione, altre ancora con alquanta indignazione. Ma non potevo fare altrimenti, mentre mi davo all’ascolto!

«Tungo, dopo che mi ebbero portata via da voi, i quattro Monchi mi condussero in questo locale, dove poi mi raggiunse un altro di loro. Egli, che aveva un aspetto direi bonario, con mia grande sorpresa incominciò a parlarmi nella nostra lingua, anche se il suo timbro di voce era simile a quello di un ventriloquo. L’alieno iniziò a riferirmi che il suo nome era Luppon e che egli e tutti gli altri della sua specie vivevano in questo posto da circa mezzo secolo. Essi rappresentavano gli ultimi discendenti del popolo dei Monki, i quali un tempo erano stati persone come noi ed erano vissuti sulla Luna. A differenza degli esseri umani, i Monki avevano un metabolismo che li rendeva tre volte più longevi di noi. Erano stati loro stessi a modificarlo e a perfezionarlo nel loro organismo, mediante l’assunzione di pozioni magiche, che essi medesimi tempo addietro erano stati in grado di preparare. Così, dopo avermi parlato a lungo del suo popolo e delle tante magie che aveva saputo operare in passato quando vivevano sulla Luna, si diede a parlarmi del loro gruppo.»

«In verità, sorella, ci ho capito ben poco, in merito ad alcune cose che mi hai dette; ma sono sicuro che, parlandomi delle loro attività attuali, mi sentirò più interessato ad ascoltarle e riuscirò pure a comprenderci qualcosa. Perciò vai avanti nel tuo racconto!»

«Fra le altre cose, fratello, Luppon mi spiegò perché quelli come lui catturano gli esseri umani che si inoltrano in questa Foresta della Paura. Ma all'inizio della loro vita terrestre, essi facevano prigionieri solo gli animali di questa zona. In seguito, ossia a tre anni dal loro arrivo sulla Terra, venuti a conoscenza dell'esistenza degli uomini nei loro dintorni, li prescelsero per i loro esperimenti, dal momento che essi erano più indicati per certi aspetti. In quell’occasione, venni anche a sapere che nei loro vasi sanguigni circola sangue freddo, come in tutti i rettili del nostro pianeta. Tale fenomeno è cominciato a verificarsi, da quando il loro corpo ha subito una orribile metamorfosi, la quale ebbe inizio dopo avere abbandonato la Luna. Secondo il loro capo Bukot, se i Monki riuscissero a rendere caldo il loro sangue, anche il loro corpo ridiventerebbe come era all'origine, ossia con un aspetto identico al nostro. Inoltre, le loro giovani coppie smetterebbero di essere sterili e potrebbero ricominciare a procreare regolarmente.»

«Se invece un fatto del genere non dovesse verificarsi, sorella?»

«La loro stirpe andrebbe irrimediabilmente incontro all’estinzione totale entro mezzo secolo. Ecco perché i Seleniti da anni tentano di arrivare a tale risultato, mediante un procedimento terrificante, il quale richiede tutta una tecnica diabolicamente studiata. Essa, a sua volta, per essere portata avanti, ha bisogno di molte vite umane, ragion per cui i Monki sono obbligati a ricorrere alla cattura di esseri come noi, se vogliono sopravvivere e tentare di ritornare ad essere come prima. Le persone catturate vengono fatte morire dissanguate, senza alcuna pietà e tra sofferenze inaudite. Tale fatto avviene attraverso un travaso di sangue dai corpi delle vittime umane a quelli dei Monki, i quali si sottopongono un'ora al mese a tale trasfusione salvavita. Si tratta di un penoso stillicidio di sangue che, attraverso una cannula, esce da un vaso sanguigno di un uomo, che è uno di quelli catturati, e si riversa in un'arteria di un Monko. Così egli se ne fa una scorta.»

«Quindi, Kuanda, è questa la fine che i Monki assegnano a quelle persone che si trovano a transitare per questi paraggi, dopo averle catturati. Quei maledetti fanno morire i malcapitati per dissanguamento!»

«Certo, fratello! Comunque, perché questa operazione di travaso risulti poi veramente efficace, non si può prescindere dalle seguenti due condizioni: 1) la trasfusione deve essere effettuata sotto l'influsso benefico della luna piena; 2) ad essa deve seguire un triduo di danze sfrenate. I frenetici movimenti del corpo che ne conseguono, secondo loro, hanno lo scopo di consentire al sangue umano di mescolarsi bene con il loro. In questo modo, è favorita un'assimilazione più rapida e più efficiente del sangue importato da parte del loro organismo. Dunque, considerato l'obiettivo che essi si sono proposti di raggiungere e vista la preziosità che il nostro sangue viene a rappresentare per loro, si può desumere quanto debba essere spietata la caccia che i Monki danno alla nostra specie. Essi spesso cacciano l'uomo al di là della Foresta della Paura, ossia tendono agguati anche a quanti si trovano a percorrere la strada maestra. La quale fiancheggia tortuosamente il lato occidentale della foresta e ricollega parecchi villaggi, tra i quali c’è pure il nostro.»

«Secondo me, sorella, questi Monki avranno ucciso già una caterva di persone: vero? Tu ti sei fatta una idea del loro numero esagerato?»

«Pensa, Tungo, che, in trecentododici che essi sono, metà di sesso maschile e l'altra metà di sesso femminile, i Monki, già dopo mezzo secolo che si sono insediati al centro di questa foresta, devono essere considerati responsabili della morte di oltre quattordicimila esseri umani! E tu hai visto, fratello mio, quanto sia facile per loro aver ragione di coloro che se li ritrovano sul loro cammino! Quindi, la loro forza non sta nel loro numero, bensì nelle loro armi straordinarie. Le quali riescono a tramortire le persone a distanza e in modo silenzioso, catturandole con facilità. A tale riguardo, devi sapere che gli alieni possono colpire gli avversari in due modi: a morte, indirizzando contro i nemici il raggio rosso delle loro armi; oppure con il tramortimento, investendoli con il loro raggio verde.»

Una volta ascoltato il triste racconto di mia sorella, le domandai:

«Allora, sorella, pure gli altri guerrieri moianesi, prima o poi, subiranno la stessa sorte! Non è forse così? Ma di me cosa ne sarà? Sono destinato anch'io a fare la loro stessa fine? Tu non puoi fare niente per noi, come loro dea? Eppure la tua posizione attuale dovrebbe permetterti di fare qualcosa a nostro favore! Oppure mi sbaglio, a pensarla così?»

«Non pretendere troppo dalla buona sorte, Tungo, perché essa è già stata prodiga verso noi due! Gli altri Moian erano stati destinati a morire nel modo che adesso conosci, prima ancora che venissero acciuffati. Perciò chi è scampato al precedente plenilunio morirà molto presto, cioè in una delle altre lune piene che seguiranno. Pure noi due, prima che fossimo catturati, eravamo stati condannati alla stessa sorte atroce; invece ci siamo sottratti ad essa, grazie all'intervento del nostro benefattore Luppon. Egli, dopo la nostra cattura, riuscì a convincere gli altri Monki che io ero la personificazione della loro dea Luna e che la mia presenza ai loro riti trasfusionali avrebbe accelerato il processo della loro ambita umanazione.»

«Ma Luppon aveva detto sul serio o per finta, sorella, nel riferire un fatto del genere agli altri esseri della sua stessa specie? Secondo me, sarà stata la tua bellezza a farglielo inventare! Dimmi che questa è la verità!»

«Come hai supposto, sagace fratello, egli aveva dichiarato il falso sul mio conto agli altri Monki. Aveva voluto ingannarli appositamente, perché si era infatuato di me, subito dopo avermi incontrata. Per cui gli dispiaceva vedermi affrontare un martirio così orribile. Quando avvenne il nostro primo incontro, Luppon mi fece intendere che aveva un debole per me, dimostrandomi una certa amorevolezza quasi paterna. Essa, in un certo senso, mi incoraggiò ad avere fiducia in lui e mi indusse perfino a sperare per il tuo bene, mio caro Tungo! Perciò sii contento di ciò ti si dà e non pretendere altro dalla sorte!»

«Dunque, Kuanda,» la interruppi di nuovo «tu dovrai ancora presenziare l'uccisione dei nostri guerrieri, come è già avvenuto la prima volta! Mi immagino l’orrore e il ribrezzo che provasti allora, cioè durante la loro odiosa funzione religiosa! Sono certo che avresti fatto a meno di presenziare un simile ignobile spettacolo. Ma tanto la tua opposizione non sarebbe servita a niente e avresti corso il rischio di essere uccisa!»

«Certamente, fratello! Prefigurandomi le cose terribili che sarebbero avvenute, cercai di oppormi ad essere presente a tanta crudeltà; però dovetti piegarmi alla proposta di Luppon, dal momento che erano in gioco la mia vita e quella tua. L'autorevole Monko, vista la mia assoluta indisponibilità ad accettare la parte di dea propiziatrice, per farmi decidere in tal senso, volle parlarmi francamente. Egli mi fece presente che un rifiuto da parte mia equivaleva ad un mio suicidio, nonché mi avrebbe precluso ogni possibilità di rivederti vivo. Inoltre, giustificò tutto ciò con il fatto che, avendomi presentata agli altri Monki come loro dea propiziatrice, non potevo rifiutarmi di assecondarlo; ma dovevo lasciarmi supinamente investire di una tale deità. Invece, ricusandomi di sostenere quella parte, per me non ci sarebbe stato via di scampo ed avrei seguito i miei compagni nella loro tragica sorte. In verità, anche lui ci avrebbe rimesso, poiché avrebbe perduto molto del credito che godeva presso i Monki. Grazie al quale, aveva potuto abbindolarli tutti e sottrarre me poveretta alle loro brutali trasfusioni. In quella occasione, mi promise anche che dopo si sarebbe adoperato presso il suo capo Bukot, affinché acconsentisse a risparmiarti e a farmi incontrare con te almeno ogni tanto. Spinta allora dal grandissimo desiderio di rivederti e di riabbracciarti, alla fine, anche se malvolentieri, accettai in pieno la proposta del nostro benefattore.»

«D'altronde, Kuanda, non avevi altra scelta nella tremenda vicenda, che ti era capitata. Come hai asserito un attimo fa, i nostri guerrieri sarebbero stati uccisi ugualmente, anche nel caso che ti fossi rifiutata di presenziare il loro cruento rito. A questo punto, giacché ci sei, perché non mi parli pure di come si svolse l'intera efferata cerimonia religiosa, a cui dovesti assistere, pur mostrando un atteggiamento sprezzante?»

«Adesso ti accontento subito, Tungo. La prima sera si presentarono a me Luppon e due Monke. Queste ultime, dopo che mi si furono avvicinate, manifestandomi molta riverenza, prima mi denudarono completamente e mi cosparsero il corpo di acuti aromi; dopo mi cinsero la chioma con una ghirlanda di roselline rosse. Terminate tali operazioni, con gesti bene evidenti, esse mi invitarono a seguirle; ma io non mi opposi al loro invito e stetti loro dietro come un cane segue il suo padrone. Ciò, perché avevo colto un cenno di Luppon, con il quale egli mi invitava ad assecondarle. Una volta superati tre corridori, giungemmo in una immensa sala ovale dove erano radunati la totalità dei Monki. Il mio ingresso fu accolto, da parte di tutti i presenti, con un ululato prolungato, il quale durò quasi tre minuti. Mentre essi continuavano ad emettere tale verso, fui condotta dalle mie due accompagnatrici presso un trono. Il quale era situato sopra un basamento rettangolare alto tre metri e vi si perveniva mediante una scala a chiocciola di ferro battuto, che era addossata alla parte retrostante del basamento. Una volta sopra di esso, le due Monke mi invitarono ad assidermi sul trono centrale, essendo la loro dea; invece loro due si collocarono ai miei lati, mettendosi carponi, in segno di grande venerazione, quasi fossero state due mie schiave.»

«Quindi, sorella, nella grande sala ovale i Monki ci stavano proprio tutti, a cominciare dal loro capo e dal tuo protettore! Ma tu riuscivi a scorgerli dal primo all'ultimo durante la cerimonia?»

«Senz’altro, fratello! Bukot e Luppon sedevano sopra altri due troni. Questi, però, erano posti sopra un basamento quadrato alto appena mezzo metro ed erano situati ai lati di quello mio. Precisamente, quello di Luppon era alla mia sinistra, mentre quello di Bukot era alla mia destra. I tre troni in questione si trovavano di fronte alla porta d'ingresso, la quale era situata in fondo alla sala, considerata quest’ultima nel senso della lunghezza. Essi erano separati dall'unica navata che presentava una balaustrata di granito. Ad ogni modo, dal mio trono riuscivo a tenere sott'occhio l'intera sala, la quale era oblunga ed aveva la volta a forma di cupola. Ma quell'ambiente ben presto mi avrebbe messa di fronte ad uno spettacolo assai vomitevole. Quanto ai restanti Monki, essi erano disposti sui due lati della navata ed attendevano impazienti che il rito prendesse l'avvio, essendo ansiosi di sottoporsi alla trasfusione di sangue, che essi reputavano miracolosa.»

«Sorella, i nostri guerrieri e le altre vittime dove erano in quel preciso momento? Vorrei apprendere anche questo particolare.»

«Essi, fratello, erano stati sistemati insieme, proprio di fronte ai tre troni e risultavano disposti su tre file longitudinali, ciascuna situata in direzione di un trono. Insieme con i nostri guerrieri, c'erano altri diciotto uomini appartenenti ad altre tribù. I poveretti si scorgevano in una postura abbastanza scomoda, la quale di sicuro doveva arrecargli degli enormi disagi. Pensa che ogni sventurato era tenuto sospeso in posizione prona tra quattro pilastrini metallici placcati d'oro: essi formavano un anello nella loro parte terminale. Quelli anteriori erano alti un metro; invece quelli posteriori, che erano distanti dai primi tre metri, avevano un'altezza di due metri. Inoltre, le coppie di colonnine, sia quelle alte che quelle basse, distavano fra di loro un metro e mezzo.»

«Sorella, se devo esserti sincero, finora ho compreso ben poco della loro posizione; ma tu vai avanti lo stesso a farmi il resoconto dell'intera funzione religiosa, poiché ci tengo moltissimo a conoscerla!»

«Tungo, adesso ti parlo del modo barbaro in cui ognuna delle vittime restava sospesa ed immobilizzata in mezzo a tali pilastrini. Come riferito sopra, il suo corpo era tenuto teso da quattro corde molto resistenti, le quali gli tenevano legati strettamente i polsi e le caviglie. Ma a ciascuna di esse, la quale prima veniva fatta passare attraverso l'anello di una colonnina, era stata legata pure una sfera di metallo di circa cinquanta chili. Ecco perché il peso di tutte e quattro le sfere riusciva benissimo a tenere il corpo della vittima sollevato da terra e in posizione rigidamente allungata, essendo esso legato agli altri capi delle corde. Così, a causa della forte tensione esercitata dai quattro canapi su di esso, ogni corpo restava in posizione inclinata e con il capo situato nella parte più bassa. Dunque, potevo immaginarmi a quale sforzo tremendo venissero sottoposte le sue fibre muscolari e nervose, intanto che la sua massa corporea veniva straziata dal diabolico espediente escogitato dagli alieni!»

«Me lo raffiguro anch'io, Kuanda, e provo pietà per i tanti iellati, anche se per loro la pietà non ha più senso, essendo già morti da tempo! Adesso, però, sei pregata di andare avanti con la tua descrizione dei raccapriccianti episodi del loro dissanguamento!»

«Riprendendo la scena, Tungo, anche la sua testa andava incontro ad una sofferenza non di poco conto, poiché essa era tenuta tesa da un lungo filo resistente, il quale la stringeva fortemente all’altezza della fronte, formando un nodo proprio dietro la nuca. Invece i suoi due capi liberi, di uguale lunghezza, passando per sotto le ascelle, formavano un altro nodo sopra il petto. In quel modo, il suo mento era costretto a restare il più distante possibile dal torace; invece la sua regione occipitale veniva premuta fortemente contro la parte superiore della regione dorsale. Ma siccome la vittima era tenuta in quella posizione obbligata, per forza di cose, il suo volto si presentava rivolto verso il rispettivo trono. Esso non si mostrava affatto sereno ed allegro, poiché vi si leggeva la disperazione più folle e più nera, anche se non poteva essere estrinsecata con urla di dolore. Difatti la bocca, l’unico organo del corpo in grado di farlo, restava tappata con una sorta di tampone, che faceva da zaffo occludente, per la quale ragione rimaneva letteralmente muta.»

«Mi immagino, sorella, quale pena doveva scorgersi sui volti di quei disgraziati e quanto doveva tormentarsi il tuo cuore, di fronte a tale spettacolo disumano! Esso, in quel momento, poteva soltanto renderti una donna massimamente infelice e disperata: nevvero?»

«È come tu dici, fratello mio! I poveretti esprimevano qualcosa di terrificante, considerato che le altre parti del corpo erano state poste nell'impossibilità di mostrare la sofferenza che le martoriava! Esse non potevano contorcersi o darsi ad altre reazioni fisiche riferibili al dolore. Per questo, a causa della preponderante immobilità a cui erano state sottoposte le diverse membra degli sfortunati, succedeva che il loro esacerbante dolore finiva per concentrarsi interamente sui loro volti. Il qual fatto, però, avveniva in una maniera così spaventosa, da non potersi descrivere con parole. Comunque, quella era da considerarsi soltanto un'agonia iniziale, poiché la stessa sarebbe durata per circa una mezzora. Infatti, il peggio doveva ancora arrivare per i nostri miserabili conterranei e per i loro compagni di sventura. Il loro vero supplizio ci sarebbe stato durante la cerimonia, la cui durata sarebbe stata di un’ora intera.»

«Allora, sorella mia, sèguita a raccontarmi ogni cosa nei minimi particolari, poiché voglio rendermi conto fin dove riesce a spingersi la crudeltà degli alieni Monki. Tale fatto mi interessa sul serio, sebbene esso mi procuri parecchio sdegno e molta afflizione!»

Volendo soddisfare il mio nuovo desiderio, Kuanda si diede a narrarmi la parte restante dei supplizi imposti dai Monki agli esseri umani, allo scopo di salvaguardare la loro esistenza.

«Devi sapere, caro Tungo, che le trasfusioni risultano un procedimento molto complesso e vedono ventiquattro Seleniani per volta venire sottoposti alla delicata pratica terapeutica. Durante la quale, ognuno di loro riceve dal suo donatore coatto un litro di sangue. Ogni Monko viene a trovarsi supino proprio sotto una delle vittime, dove un vaso sanguigno del suo braccio destro riceve il sangue da un vaso sanguigno dell’omologo braccio di essa. Ma il liquido ematico del donatore non finisce direttamente nell’apparato circolatorio del ricevente. Esso passa attraverso un apparecchio complicato, il quale serve sia a misurare la quantità di sangue occorrente sia a renderlo compatibile con quello di chi lo riceve. Le singole trasfusioni durano circa cinque minuti, dopo il quale tempo altri ventiquattro Monki, rimpiazzando il gruppo precedente, si fanno trasfondere il sangue allo stesso modo degli altri loro simili. Perciò occorrono tredici trasfusioni collettive, affinché tutti i Monki vengano a ricevere la loro prevista razione di sangue. Quando esse vengono a cessare, i corpi delle vittime divengono prima esangui e poi esanimi, per cui termina così anche il loro calvario.»

«Kuanda, presumo che le vittime, almeno per quanto riguarda la parte trasfusionale, soffrano molto poco, mentre vengono sottoposte ad essa e sono costretti a fare da donatori.»

«Al contrario, Tungo, il loro dolore è enorme! In realtà, l'atroce sofferenza fisica, alla quale essi vanno incontro, non è provocata dalla trasfusione in sé, siccome una sottile cannula in un braccio non può dar luogo assolutamente ad essa. Lo dimostra il fatto che i Monki, pur tenendosi anch’essi inserito in uno degli arti superiori la stessa cannula, non si dolgono in alcun modo. Secondo me, è il liquido che i Monki iniettano nel solo braccio dei donatori a scombussolare l’intero loro organismo. Sembra proprio che esso, una volta immesso nel loro circolo sanguigno, ne renda il contenuto infuocato e bruciante, fino a procurare al corpo un dolore terebrante. Per cui l’urente sensazione dolorifica, dopo essersi appropriata dell’intero organismo della vittima, dà ad esso l’impressione che una moltitudine di piranhas stia dilaniando i vari organi interni del suo corpo. La quale tortura fisica si ripercuote in tutto il suo essere come un cataclisma psichico e spirituale. Per la quale ragione, esso non consente alcun rimedio, intanto che si dà ad esplodere e ad esprimersi nelle sue variabili dolorose.»

«Me le immagino abbastanza, sorella; però vai avanti ugualmente a farmene la cronaca, nella quale riesci molto bene!»

«Tungo, ritorno a dirti che, non potendo il corpo contorcersi e dare sfogo in qualche modo al suo supplizio fisico, tutta la pena del disgraziato viene ad accumularsi sul suo volto. In quel momento, esso dà una visione di sé talmente orribile, da sbigottire chiunque venga costretto a guardarlo! Soltanto la confortevole morte arreca finalmente alle ventiquattro vittime il riposo che si meritano, liberandoli una volta per sempre da quel loro strazio incredibilmente penoso. A questo punto, te ne sei fatta una idea?»

«Come potrei non avermela fatta, Kuanda? Invece, dopo le ignobili trasfusioni, che cosa avviene nell'ampia sala ovale? Anche questo vorrei apprendere in modo dettagliato.»

«In essa, fratello mio, accade quanto ti farò conoscere nel sèguito del mio racconto. Ebbene, dopo essere avvenuto il travaso di sangue dagli uni agli altri corpi, la sala viene subito sgomberata dalle salme delle vittime dissanguate. Allo sgombero dei cadaveri, eseguito dai Monki addetti a tale operazione, segue il rito tribale delle danze, a cui partecipano tutti i Seleniani, compresi il loro capo e Luppon. Esse sono accompagnate da una incessante sequela di rulli di tamburi, i quali si vanno esprimendo con ritmi sempre più accentuati e frenetici. Si tratta di balli fuori del comune, nei quali i corpi dei partecipanti assumono moti impetuosi ed incandescenti; nonché si agitano vorticosamente, si sbizzarriscono in arabeschi multiformi e spericolati, fino a rasentare la soglia dell’impossibile. Ti sembra quasi di scorgere, nei loro corpi ignudi, lo scatenamento di forme istintuali primigenie. Essi vanno manifestando in modo parossistico l’ancestrale forza bruta, la quale in quella circostanza li sovrasta in maniera particolare.»

Dopo che la mia dolce Kuanda ebbe soddisfatto la mia insaziabile curiosità, narrandomi ogni cosa sui Monki e sulle ragioni che li spingevano a cacciare gli esseri umani, decisi di dare un nuovo argomento al nostro discorso. Perciò le feci la seguente domanda:

«Sorella, noi due un giorno riusciremo a liberarci dai Monki? Tu cosa ne pensi, a questo riguardo?»

«Non so cosa risponderti, Tungo, in merito a quanto mi chiedi. Sono soltanto convinta che, con le sole nostre forze, non ci sarà mai permesso di scappare da questo posto infame. Oramai anche gli altri nostri guerrieri sono destinati alla sorte che noi due conosciamo; mentre per te non si sa ancora quale futuro ci sarà. Comunque, ti prometto che ne parlerò con il mio amico Luppon e vedrò che cosa potrò ottenere da lui per il solo tuo bene. Nel nuovo incontro, gli domanderò se egli potrà fare qualcosa per aiutarti a fuggire da questo posto.»

«Ti ringrazio, Kuanda, per quanto hai intenzione di fare a mio favore. Ma quando mi riporteranno nella cella dove sono relegati i restanti nostri guerrieri, quale atteggiamento dovrò assumere nei loro confronti? Dovrò rivelare ai poveretti la verità sul triste destino che li attende oppure no? Per favore, dimmi tu, sorella mia, come dovrò comportarmi nei loro confronti, dal momento che dopo mi sentirò a disagio a parlare con loro!»

«Sarà meglio non dirgli niente, fratello, sulla tragica sorte già assegnata a tutti loro dai Monki. Invece ti limiterai a riferirgli che mi hai incontrata, che sto bene e che non hai saputo niente degli altri Moian portati via dai Monki! In questo modo, essi non ti faranno altre domande intente a scoprire la loro futura sorte. Intesi?»

«Essendo d’accordo con te, sorella, mi atterrò al tuo savio suggerimento. Anch’io sono dell’idea che è meglio non avvelenare l’esistenza dei nostri conterranei prima del tempo. In attesa che si compia il loro tremendo destino, ci conviene lasciarli vivere nell’ignoranza di ciò che li attende. Almeno così essi si terranno relativamente calmi ed eviteranno di avvelenarsi il sangue, assai prima del loro doloroso decesso!»

Poco dopo si presentò Luppon in compagnia di altri due Monki. Mentre il primo si fermò a parlare con Kuanda, i suoi accompagnatori si affrettarono a ricondurmi presso la mia cella, dove stavano ad aspettarmi i pochi guerrieri di mio padre che erano rimasti. In riferimento alle loro domande, tenendo fede alla promessa fatta a mia sorella, mi limitai a dare soltanto risposte generiche oppure evasive. In quel modo, evitai di tradirmi con loro, senza farmi sfuggire cose che era più conveniente tenergli nascoste, senza palesargliele ed avvelenargli la restante parte di esistenza.

Nella notte che seguì, però, non riuscii a dormire sonni tranquilli, poiché nella mia mente si andarono accavallando i pensieri più tremebondi; inoltre, fui soggiogato da incubi spaventosi. In un primo momento, mi ritrovai legato ad un palo, il quale stava in mezzo ad una sala che aveva le pareti tinteggiate di rosso. Mi danzavano intorno una turba di Monki, che si muovevano come autentici ossessi. Ogni tanto qualcuno di loro mi si avvicinava, mi pizzicava a sangue e si dava poi a leccare il mio vermiglio liquido, mentre sgorgava dalla mia ferita. In seguito scorsi me stesso senza né mani né piedi, per cui rimasi inorridito davanti ai miei arti monchi. Pure in quest’altra visione spettrale, non mancò la danza rituale degli odiosi Monki. Questa volta essi mi apparvero inverosimilmente esagitati nei loro frenetici movimenti, per cui li andavano esprimendo attraverso coreografie tribali, le quali evidenziavano una intensa carica emozionale. Vivendo così quegli orripilanti spettacoli come vere realtà angoscianti, mi lasciai sorprendere da un terrore folle, che venne a scombussolarmi l’esistenza, come non mi era mai capitato prima. Mi ritrovai anche con la coscienza sottosopra, poiché essa non riusciva più a connettere tanto nel campo del reale quanto in quello dell’irreale. Per il quale motivo, ogni cosa si diede a turbinarmi nel cervello come un mero paradosso. Ma esso, naturalmente, mi si poteva soltanto presentare orribile ed inestricabile quanto mai.

A questo punto, miei generosi salvatori, è opportuno riportarvi il colloquio che c'era stato prima tra mia sorella e il Monko suo protettore, ossia quello che ebbi ad apprendere da lei il giorno dopo. Sono sicuro che vi farà piacere ascoltarlo, come era avvenuto per gli altri fatti da me narrati. Ebbene, rimasta sola con lui, Kuanda aveva iniziato a dirgli:

«Voglio sapere, Luppon, quante possibilità ci sono perché a mio fratello venga risparmiata la tortura del prelievo di sangue. Io non reggerei alla sua morte ed impazzirei dal dolore. Anzi, non è escluso che potrei anche suicidarmi, nel caso che egli morisse durante il rito! Tienilo bene a mente! Allora cosa puoi rispondermi a tale riguardo?»

«Per il momento, dolce Kuanda,» l’aveva rassicurata l’autorevole Monko «non si intravede per lui una fine del genere. Grazie a te, egli, almeno a breve scadenza, non correrà un simile rischio; ma non posso garantirti con certezza che ciò non gli accadrà neppure nel remoto futuro. E poi il suicidio non ti pare una parola un po’ grossa? Una ragazza affascinante come te dovrebbe solamente pensare a godersi la vita! E tu questo farai senz’altro, per tenerti attaccata alla tua vita!»

«Se il mio povero fratello dovesse essere ucciso dalla tua gente, Luppon, non credo che potrei più godermi la vita, come affermi. L’esistenza mi risulterebbe una continua tribolazione, la quale mi verrebbe meno esclusivamente con la mia morte e il trasferimento del mio spirito nell’oltretomba. Perciò devi adoperarti con tutto te stesso per la sua fuga da questo luogo, se è vero che ci tieni a me e faresti qualunque cosa per rendermi felice! Questo è il momento di dimostrarmelo, amico mio!»

«Certo che ci tengo a te, Kuanda! Ma devi sapere che a volte, pur volendo un bene da morire ad una persona, non possiamo prodigarci per essa come vorremmo. Alcune difficoltà oggettive vengono a frapporsi tra un nostro desiderio e la nostra voglia di renderlo realizzato. In questo nostro rifugio, la sorveglianza è massima e mi sarebbe difficilissimo predisporre la fuga di un prigioniero, in questo caso di Tungo. Se mi scoprissero, verrei condannato alla pena capitale e, quello che più mi dispiacerebbe, anche tu andresti incontro a guai molto seri! Per adesso, dunque, ti chiedo di soprassedere alla fuga del tuo germano e di ritornare sul delicato argomento, quando il pericolo per tuo fratello diverrà davvero reale!»

«Non sono d'accordo con te, Luppon; bisognerà permettere a mio fratello di fuggire, quando non si presenta ancora per lui alcuna concreta minaccia di morte. In seguito le cose potrebbero ingarbugliarsi di più e potrebbe esserci una sorveglianza più rigida. Tu stesso potresti trovarti nella condizione di non poterti più muovere liberamente per preparare e portare a buon fine la sua fuga dalla tua gente. Perciò pensaci bene!»

«In un certo senso, pure ciò è vero, Kuanda. Mi hai ricordato quel vecchio detto degli esseri umani, che asserisce: "Chi ha tempo non aspetti tempo!" Dunque, accogliendo il saggio consiglio che da esso ci proviene, ti garantisco che già da domani mi darò ad elaborare un piano, che possa consentire a tuo fratello di fuggire dalla nostra dimora senza alcun rischio.»

Dopo che il loro breve colloquio aveva avuto termine, Luppon e mia sorella si erano lasciati da grandi amici, come lo erano diventati da poco. Ma c'era da far presente che, mentre il primo appariva in un certo senso preoccupato; la seconda si mostrava con la speranza che le sorrideva negli occhi, essendosi finalmente convinta che il Monko avrebbe fatto di tutto e di più, pur di appagare il suo grandissimo desiderio.