273°-TUNGO NARRA DELLA SUA FAMIGLIA E DI SÉ STESSO

Prima di tutto, voglio che voi sappiate che il nome di mio padre è Gudra; mentre quello di mia madre, che ora vive tra i defunti, era Tilce. Io appartengo alla tribù dei Moian, dove mio padre ha avuto il ruolo di capo fino a circa due mesi fa. È stato allora che suo fratello Trasco, con l'appoggio della tribù dei Surcos, prima lo ha spodestato e poi probabilmente lo avrà fatto prigioniero. Da quando mia sorella ed io lasciammo il nostro villaggio, non abbiamo più avuto sue notizie. I fatti, che hanno riguardato il tradimento di mio zio e la conseguente perdita del potere da parte del mio genitore, si sono svolti come adesso passo a narrarveli. Per ovvie ragioni, non posso raccontarvi quelli che risultano più recenti, se prima non vi avrò fatto il resoconto degli altri che li hanno preceduti. Grazie ai quali, i fatti successivi si lasciano meglio spiegare da me e comprendere da voi.

Molti anni addietro, un parto gemellare diede alla luce mio padre e mio zio Trasco. Alla loro nascita, a ragion veduta, mio nonno Vedio non si preoccupò di annotarsi quale dei due figli fosse uscito per primo dall'utero materno. Egli stabilì che in seguito avrebbe fatto risultare primogenito quello che, crescendo negli anni, si fosse dimostrato più in grado di prendere le redini del comando. In tale circostanza, davanti al popolo testimone, lo avrebbe anche designato suo successore legittimo nella guida del villaggio. Con quella sua giusta e saggia decisione, il mio nonno paterno intese concedere ad entrambi i gemelli un periodo di prova della durata di venti anni, al fine di riuscire a meritarsi sia la primogenitura sia la nomina a capo dei Moian. Durante tale ventennio, egli li avrebbe tenuti sotto continua osservazione; ossia avrebbe studiato il loro carattere e il loro comportamento, fino ad avere la certezza matematica di non fare alcun passo falso. Agendo in quel modo, mio nonno era sicuro che, alla sua morte, gli sarebbe succeduto, come capotribù, il figlio che se lo fosse giustamente meritato. Così, via via che gli anni trascorrevano, mio nonno si andò convincendo senza il minimo dubbio che mio padre Gudra era il figlio più degno di ereditare lo scettro del comando. Se l'uno e l'altro fratello crescevano entrambi forti e valorosi, senza accusare alcuna debolezza fisica, dei due era il solo figlio Gudra a dimostrare di possedere più doti spirituali e morali. Nel prendere una decisione, mio padre si presentava più ragionevole, più giudizioso e più ponderato. Mio zio Trasco, al contrario, non soltanto aveva un carattere protervo ed irascibile, bensì era anche un facile attaccabrighe. Per il quale motivo, alla fine il mio savio nonno designò mio padre suo indiscusso successore nella guida della nostra tribù, per cui egli gli sarebbe succeduto dopo la sua morte naturale.

Dopo che ci fu la manifestata preferenza paterna, mio zio si indignò moltissimo, siccome sosteneva che, dopo la morte del genitore, lo scettro del potere sarebbe spettato a lui. Quella sua pretesa era dovuta al fatto che qualcuno gli aveva dato ad intendere che egli era venuto alla luce prima del fratello Gudra, anche se si era trattato di una frazione di secondo. Ma colui che gli aveva asserito ciò lo aveva fatto con il solo scopo di seminare zizzania nell’autorevole famiglia del capo. Difatti mio nonno aveva fatto in modo che mai nessun Moian, lui compreso, in seguito sarebbe stato a conoscenza di chi dei due gemelli fosse nato per primo. In che maniera? Come adesso vi spiego. Subito dopo essere venuti al mondo, egli aveva consegnato alla nutrice Giufa i due fratellini, mentre erano ancora nel loro stato di nudità. Presso tale alloggio essi erano stati allevati per un anno intero. Quando poi mio nonno li aveva accolti di nuovo nel proprio focolare domestico, nessuno più aveva potuto ravvisare il primogenito in una delle due creaturine. Né tanto meno poteva riuscirci la loro nutrice, poiché alla donna, all'atto della loro consegna, non era stato comunicato quale dei due gemelli era nato per primo. Ciò nonostante, ugualmente mio zio continuò a reclamare presso il padre il suo diritto a succedergli come capotribù, dopo la sua morte. Mio nonno, però, conoscendo come erano andati realmente i fatti per propria scelta e per propria volontà, non ne volle sapere niente. Al contrario, rimase irremovibile nella decisione da lui presa, essendo convinto che essa era quella giusta sotto molteplici aspetti.

A causa della dura opposizione paterna alla sua pretesa, mio zio lasciò per sempre il proprio villaggio e se ne andò a vivere presso la tribù dei Surcos, dove contava varie amicizie. La più importante delle quali risultava essere quella che aveva stretta con Onco, che era il primogenito del capo di tale tribù e manifestava di avere il suo stesso caratteraccio. Dopo che gli si fu presentato in preda alla collera e gli ebbe raccontato il presunto torto che aveva subito dal proprio genitore, mio zio chiese all'influente amico surcosino di ospitarlo a tempo indeterminato presso la sua casa. Allora il figlio del capo dei Surcos, che era da considerarsi un giovane più scapestrato di mio zio, in un primo momento, badò a concedere al proprio compagno di infanzia l'ospitalità che era andato a chiedergli. In un secondo momento, invece, volle suggerirgli il modo di riuscire ad ottenere ciò di cui la deliberazione paterna lo aveva privato. Naturalmente, tale suggerimento, essendo partito da un tipo come lui, poteva soltanto rivelarsi niente di buono. Addirittura gli ventilò la necessità di uccidere chi rappresentava un ostacolo reale alla sua futura designazione a capotribù. In quel caso, egli avrebbe dovuto fare un lavoretto pulito, ossia dandosi ad agire nell'ombra, senza che ci fossero testimoni oculari, al momento dell'assassinio.

All'inizio, mio zio Trasco non accolse di buon grado il consiglio dell’amico; ma non perché lo considerava immorale. Semplicemente perché lo riteneva assai rischioso per la propria salute, nel caso che qualcosa fosse andato storto. In seguito, però, le forti e ripetute pressioni che Onco andava esercitando di continuo su di lui, lo convinsero a scegliere tale strada disonesta per far valere i suoi presupposti diritti. I quali erano infondati e totalmente campati in aria, non potendo esistere alcuna certezza assoluta della fasulla primogenitura da lui pretesa. Così alla fine mio zio deliberò di seguire il malvagio consiglio dell'amico. Perciò, dopo essersi armato di una lancia, partì alla volta del suo villaggio. Sua intenzione era quella di cogliere il fratello Gudra da solo e alla sprovvista nel bosco circostante. In tal modo, avrebbe potuto ucciderlo facilmente, senza che ci fossero presenti sul posto degli scomodi testimoni oculari.

Erano trascorsi tre giorni, da quando il malvagio si aggirava nei dintorni del nostro villaggio, tenendosi acquattato tra i cespugli per non farsi scoprire da nessuno. Nel pomeriggio del terzo giorno, erroneamente egli credette di essergli capitata l'occasione buona, ossia quella che stava aspettando con ansia da tempo. Nel suo ennesimo appostamento, finalmente egli venne a trovarsi a brevissima distanza dal proprio fratello gemello. Ciò accadde, mentre mio padre, stando carponi sulla riva di un ruscello, era intento a dissetarsi con la sua acqua cristallina. Allora mio zio, accogliendola con favore, non volle farsi sfuggire la bella opportunità. Egli, reputando i dieci metri che lo separavano dal fratello più che sufficienti per non fargli fallire il bersaglio, stabilì di tentare il colpo all'istante. Così, dopo aver portato l'asta in posizione di lancio e dopo aver preso bene la mira, il perfido si accinse a vibrarla contro il suo consanguineo, il quale, data la situazione, non poteva difendersi in alcun modo. In quel momento, il carnefice era persuaso che né sul posto né nelle vicinanze c'era qualche testimonio che sarebbe potuto poi andare a riferire al padre Vedio e alla sua tribù l'infame fratricidio da lui commesso. Invece egli si sbagliava di grosso a credere che mio padre fosse solo in quell'angolo di bosco. Infatti, lo sciagurato non si era accorto che c’era la madre Dulca a fargli compagnia. Ella stava poco distante dal figlio ed era distesa supina sopra il tappeto d'erba.

La donna, essendo stata attratta proprio in quell'istante dal gorgheggio di un usignolo, indirizzò il suo sguardo verso l'albero che l’ospitava tra i rami. Fu così che ella intravide presso il suo tronco anche il figlio Trasco, il quale era in procinto di commettere l'insano fratricidio. Allora, non appena lo ebbe scorto, in un attimo si alzò da terra e, gridandogli: "No, non farlo, Trasco!", si lanciò verso l’altro suo figlio, che era mio padre, essendo intenzionata a fargli da scudo con il proprio corpo. L'arma micidiale, però, era ormai partita e nessuno più poteva fermarla in volo e vietare ad essa di commettere l'orribile matricidio. Perciò l'asta colpì mortalmente al petto mia nonna, anziché trafiggere alla schiena mio padre, il quale si salvò, grazie al tempestivo intervento materno.

Il mio genitore non poté fare altro che assistere impotente alla rapida morte della madre, la quale non aveva esitato a sacrificarsi per lui. Comunque, egli riuscì a vedere in faccia colui che l'aveva assassinata per errore, siccome il bersaglio dell'arma del fratello doveva essere lui. La qual cosa venne ad arrecargli un dolore ancora più tremendo nel suo animo esterrefatto. Quanto a mio zio, compiuto per errore il matricidio, senza attendere neanche un istante, si allontanò dal luogo dove aveva commesso l'orrendo delitto. Intanto che scappava, si mostrava rabbioso, a causa del guaio che aveva combinato a scapito di colei che lo aveva generato. In quella brutta circostanza, invece mio padre si preoccupò di trasportare il corpo inanimato della madre al villaggio, dove riferì al genitore quanto era accaduto alla sua sventurata consorte, per colpa di Trasco. Allora mio nonno, nel vedersi davanti il corpo senza vita della moglie Dulca, si costernò moltissimo; nonché imprecò contro il gemello assassino, poiché egli, con l'uccisione della madre, lo aveva reso anzitempo un vedovo inconsolabile. Ma poco dopo, stringendo i pugni per l'implacabile ira di cui era preda in quell'istante, maledisse più volte il figlio, che si era comportato come un viscido serpente.

Qualche ora più tardi, mio nonno, dopo aver proclamato nel villaggio tre giorni di lutto, comandò che la spoglia mortale dell’indimenticabile consorte ricevesse le estreme onoranze con grande solennità. Avvenuta la tumulazione della salma della moglie, dopo mio nonno ordinò che si desse una caccia spietata al figlio matricida, volendo farlo giustiziare sulla pubblica piazza, senza avere per lui la minima compassione. Ma le affannose ricerche di un intero mese non diedero alcun esito positivo, per cui egli le fece sospendere. In verità, mio zio Trasco si era reso irreperibile perché l'amico Onco lo aveva tenuto nascosto in un suo rifugio segreto, dove ogni giorno gli aveva fatto giungere anche da mangiare e da bere. Egli aveva preso tale iniziativa, senza metterne al corrente neppure il padre Usso, essendo convinto che egli non glielo avrebbe permesso. Il capo dei Surcos e mio nonno, come lo erano i due loro pessimi figli, erano da considerarsi dei grandi amici di vecchia data.

Tre anni dopo, mio padre sposò la bella Tilce, ossia la figlia dello stregone del villaggio. Il matrimonio si svolse con solenni festeggiamenti e danze folcloristiche. Vi erano stati invitati pure i capi delle altre tribù della zona, tra cui l'amico Usso. Il capo dei Surcos, il quale nel frattempo era venuto a conoscenza di tutte le deplorevoli vicende di mio zio Trasco, pur biasimandole, cercò di far riconciliare mio nonno con il figlio, che si era macchiato dell'orrendo matricidio. Il genitore di mio padre, però, si oppose con un rifiuto reciso alla riconciliazione che gli era stata proposta dall'amico. Inoltre, gli fece presente che Trasco oramai risultava morto per lui come figlio, da quando si era reso colpevole dell'abominevole matricidio, il quale gli aveva portato via la cara consorte. Anzi, lo sconsiderato gemello rappresentava per lui il peggiore dei furfanti, per cui egli andava perseguito penalmente, secondo le leggi dei Moian, che prevedevano la sua morte.

Nel primo biennio di vita matrimoniale, la feconda Tilce diede a mio padre due figli, uno all'anno. Per prima, nacque mia sorella Kuanda, la quale fu da tutti considerata bella come una fulgida stella. Dopo undici mesi esatti, fui messo al mondo anch'io, in verità senza che nessuno nel nostro villaggio mi paragonasse a qualcosa: ad essere sincero, né di brutto né di bello, per chi ci tenesse a saperlo a ogni costo. In seguito, quando avevo dieci anni, mio nonno si ammalò gravemente e le cure dello stregone non riuscirono a guarirlo. Per questo, in pochi mesi, lo vedemmo spegnersi rapidamente e lasciarci per sempre. Ultimate le esequie del povero genitore, le quali erano state celebrate con pompa magna e con la partecipazione di tutti i Moian, mio padre Gudra fu unto capotribù dallo stregone Bulius. Durante la stessa funzione, egli ricevette dal suocero pure lo scettro del comando del villaggio. In tale circostanza la nostra tribù smise di affliggersi per la scomparsa di mio nonno e cominciò a rallegrarsi per la nomina del suo nuovo capo. Essa lo accolse con un entusiasmo indescrivibile e con una gioia immensa, essendo a conoscenza della sua morigeratezza e della sua magnanimità d’animo, virtù che nella sua persona non avevano limiti.

Mentre i Moian festeggiavano il loro neo capotribù, in quel medesimo giorno si presentarono insieme nel villaggio moianese mio zio Trasco e l'amico Onco. La loro presenza all’istante fece inquietare gli animi di tutti, in particolar modo quello di mio padre. Perciò dappertutto svanì l'aria di festa e subentrò ad essa un clima di livori e di risentimenti. Inoltre, molti dei presenti, dopo essersi assiepati intorno ai due intrusi, si diedero a gridare forte: "Il matricida Trasco ha osato sfidare le leggi della nostra tribù. Perciò egli merita la morte!" Allora, visto che le cose si mettevano male per l'amico, Onco intervenne a difenderlo, gridando con tono assai minaccioso:

«Guai a voi, o Moian imprudenti, se osate toccare il mio carissimo amico Trasco! In questo momento, egli si trova sotto la mia protezione. Per cui, se lo maltrattaste, ciò equivarrebbe ad arrecarmi una gravissima offesa. Io vi giuro che in quel caso, se anche gli tiraste un solo capello, prima o poi ve la farei pagare molto salatamente! Parola di Onco, che dovete considerare il futuro capo dei Surcos!»

«Allora, saccente figlio di Usso,» mio padre lo riprese alquanto adirato «se non vuoi che ciò accada sul serio, lascia immantinente il nostro villaggio insieme con il tuo malvagio amico, poiché entrambi siete indesiderati fra i suoi abitanti. Perciò vi do soltanto il tempo che voi possiate raggiungere le terre dei Surcos. Scaduto il quale termine, ti garantisco, Onco, che non mi farò garante neppure della tua incolumità!»

Redarguito in quella maniera drastica dal mio genitore, l'autorevole surcosino se la prese molto a male. Perciò, mentre si allontanava dal nostro villaggio, minacciò tutti i Moian di una sua sanguinosa vendetta. Poi, una volta presso suo padre, gli narrò ogni cosa e lo pregò anche di muovere guerra ai Moian. Ma il saggio Usso ritenne giusta la reazione di mio padre Gudra; al contrario, biasimò l'iniziativa provocatoria del figlio e del suo amico. Così la guerra non ci fu tra i nostri due popoli amici. In quell'istante, però, Onco desiderò come non mai la morte del proprio genitore, poiché non vedeva l’ora di prendere lui le redini del comando e risolvere alla sua maniera la questione che aveva in sospeso con il popolo moianese.


Cinque anni più tardi, Onco ottenne dalla natura ciò che desiderava da anni, poiché suo padre si spense all’improvviso, in seguito al morso di un serpente velenoso. La qual cosa gli permise di diventare capo dei Surcos. Quanto alla terribile disgrazia, a cui era andato incontro il suo genitore, nessuno degli abitanti del villaggio seppe spiegarsi come quel rettile fosse capitato nel letto del loro capo Usso. Ma mio padre non ebbe dubbi in proposito, essendo persuaso che era stato lo stesso figlio a mettercelo.

Una volta divenuto capotribù della sua gente, Onco non attese molto ad aprire le ostilità contro i Moian, essendo desideroso di lavare nel sangue il torto che riteneva di aver subito da loro. Ma considerata l'annosa amicizia esistente tra i due popoli, egli era convinto che esse non sarebbero state accolte con favore presso la sua tribù, senza che ci fossero dei validi motivi a giustificarle. Per questo si diede ad escogitare con mio zio il modo di procurarsi un ragionevole pretesto che gli consentisse di dare avvio alla sua guerra contro i Moian. Così, nove mesi più tardi, Onco inviò presso mio padre un'ambasceria con l'incarico di partecipargli la volontà di mio zio di sposare la nipote Kuanda, ossia mia sorella. Nello stesso tempo, gli fece presente che tale matrimonio era ben visto anche da lui. Per cui l'avrebbe presa come un'offesa personale, nel caso che mio padre si fosse rifiutato di dare il suo consenso a tali nozze da lui viste di buon occhio. Quel messaggio fece andare su tutte le furie il mio genitore, che ne era il destinatario. Allora egli subito scacciò dalla propria casa gli ambasciatori del capo dei Surcos, esclamandogli: “Riferite al vostro capotribù che, se dovessero presentarsi al mio cospetto altri latori recanti l'identica ambasciata, non esiterei a tappare le loro bocche in modo definitivo. Fossero essi pure Onco e Trasco in persona a propormi il suddetto matrimonio! Adesso lasciate senza indugio la mia casa, poiché voi l'ammorbate!”

A dire la verità, mio padre, preso dalla rabbia, non si era saputo controllare nel rispondere agli ambasciatori surcosini. Egli se l’era presa anche con il loro capo, il quale non aspettava che un pretesto del genere per agire come desiderava da molto tempo. Infatti, Onco, cogliendo la palla al balzo, subito presentò al suo popolo la risposta di mio padre come una chiara sfida. Inoltre, riuscì a convincere tutti i Surcos che il linguaggio offensivo del capo moianese era diretto non solo contro il loro capo, bensì anche contro l’intera tribù, essendo essa rappresentata da lui. Quindi, presentandola alla sua gente come un dovuto atto punitivo contro chi non aveva saputo tenere la lingua a posto, egli poté promuovere la sua iniziativa bellica, dandosi a prepararla di nascosto. Così, dopo aver predisposto alla guerra gli animi dei Surcos, Onco e mio zio Trasco si accinsero a progettare i vari piani di attacco. In verità, questi ultimi, più che basarsi sul valore e sulla strategia militari, si fondavano sull'inganno e sulla codardia. Le loro menti perverse andavano meditando un piano degno di loro, con cui potere eludere uno scontro frontale con i valorosi Moian. Alla fine essi stabilirono di sorprenderci nel sonno per aver facile sopravvento sui nostri guerrieri e per ridurli all'obbedienza con minime perdite. Per riuscirci, i due farabutti ricorsero ad un turpe tranello, di cui tra poco verrete a conoscenza.

Un mese fa, i due amici fecero spargere la voce che Onco, colto da improvviso malore, era morto; mentre mio zio Trasco, dopo aver preso il comando provvisorio dei Surcos, aveva indetto un triduo di onoranze funebri, in onore della salma dell'amico. Anzi, in quei tre giorni di cordoglio collettivo, ogni Surcos doveva osservare un digiuno parziale, ossia limitarsi ad un solo pasto giornaliero, oltre che astenersi dall'uso di qualsiasi arma. Evidentemente, si trattava di una manovra subdola ed obbrobriosa, da parte dei due amici per la pelle, poiché essi ignoravano il senso dell'onore. Con una simile notizia, i due compari miravano a conseguire i seguenti due obiettivi: 1) convincere mio padre e la sua tribù che i Surcos, durante quell'arco di tempo, non avrebbero mosso alcun attacco contro di loro; 2) ottenere, come immediata conseguenza, la revoca nel nostro villaggio di ogni sorveglianza notturna, intanto che vigeva il loro simulato lutto.

A quelle notizie, dimostrandosi degli ingenui, mio padre e tutti i suoi Moian caddero nel loro tranello, siccome furono certi che i Surcos, in quei giorni di lutto, non avrebbero tentato alcun attacco contro di loro. Tanto più che i nemici erano rimasti senza un capo. Quella loro sicurezza li spinse ad allentare la sorveglianza sia all'interno che all'esterno del loro villaggio. Perfino di notte, i Moian resero nulla la vigilanza, evitando di premunirsi in qualche modo contro spiacevoli sorprese. Perciò ogni volta si diedero al più profondo sonno, quello che non avevano mai più conosciuto, da quando era morto il capotribù Usso, cioè il padre di Onco. Ma se per loro fortuna durante le prime due notti ogni cosa andò liscio come l’olio, non la stessa cosa avvenne nella terza nottata. Essa ci riservò delle sorprese impreviste, le quali maledettamente risultarono ai Moian tutt’altro che gradite.

La mezzanotte era passata da due ore, allorquando tutti i guerrieri Surcos assalirono da ogni parte il nostro villaggio e vi si riversarono simili ad iene fameliche, sorprendendo nel sonno la totalità della nostra gente. In principio, ci furono schermaglie un po' dovunque, intanto che in seno alla nostra tribù si andava ingenerando il caos generale. Esso veniva prodotto dall'assordante frastuono delle armi, dalle urla penose delle donne e dai pianti continui dei bambini. In casa nostra, dopo esserci svegliati, cercammo subito di comprendere che tipo di dramma il nostro popolo stava vivendo in quella notte. Quando poi fummo messi al corrente della cruda realtà e ci rendemmo conto della drammatica situazione della nostra gente, mia madre non resse al colpo e all'istante crollò per terra morta, a causa di un attacco di cuore. Noi congiunti ce la piangemmo per il brevissimo tempo che ce lo consentì la circostanza. Ma il pianto avvenne in un abbraccio di dolore molto intenso, il quale sembrò non volere avere più termine. Quanto a mio padre, preso alla sprovvista, in qualità di capotribù, egli non riusciva a risolversi in qualche modo e a prendere una qualsiasi decisione adatta al momento. Come genitore, invece, preferiva tenersi stretti a sé me e mia sorella Kuanda, la quale era più grande di me di un anno, poiché ne aveva compiuto diciassette il giorno prima.

Poco dopo, però, essendosi presentati a lui una ventina dei suoi valorosi guerrieri, i quali erano venuti a chiedergli come dovevano comportarsi in quel terribile frangente, mio padre prima si mostrò frastornato. Poi parlò loro così: “Miei prodi guerrieri, la nostra situazione è ormai disperata e non credo che ci possa essere un capovolgimento delle sorti con la nostra resistenza a oltranza. Dunque, ci conviene arrenderci, prima che molte altre vite moianesi si sacrifichino inutilmente. Invece voi, nel frattempo che non farò dare il segnale della nostra resa, condurrete i miei due figli il più lontano possibile dal nostro villaggio. Voglio evitare che mia figlia diventi sposa forzata di quel lurido porco di mio fratello. Ben presto Trasco avrà senza dubbio la soddisfazione di diventare il capo dei Moian, al posto mio; però dovrà essergli negata quella di dormire nello stesso letto di mia figlia! Perciò non perdete altro tempo e scappate via di qui alla svelta, per non cadere nelle sue mani!”

Intanto che mio padre si affrettava a far dare il segnale di resa, mia sorella ed io fummo condotti via da quei pochi guerrieri moianesi, ai quali lo stesso nostro genitore ci aveva affidati. Essi, muovendosi con molta cautela e facendo di tutto per non incontrarsi con gli invasori Surcos, riuscirono a portarci fuori dal nostro villaggio. Una volta che ne fummo usciti, i nostri accompagnatori cercarono di allontanarsene il più possibile. Ma il giorno seguente, intanto che eravamo diretti verso il villaggio dei Patva, avvertimmo alle nostre spalle un precipitoso accorrere di parecchi cavalli. La qual cosa subito ci fece credere che mio zio Trasco ci stesse inseguendo. Ma anche ci spinse a temere che egli in breve tempo ci avrebbe raggiunti e catturati, riuscendo così a coronare il suo desiderio. Il quale era quello di sposare la mia adolescente sorella, soprattutto perché egli, con tale matrimonio, era intenzionato a fare un dispetto a suo fratello.

A quel punto, Nelpo, il guerriero che capeggiava i guerrieri che ci scortavano, ordinò a tutti di scendere dai cavalli e di lasciarli andare celermente da soli per la via maestra, la quale collegava i vari villaggi con le sue brevi diramazioni laterali. Noi invece avremmo continuato a piedi la nostra fuga, avventurandoci nella Foresta della Paura. Si trattava di un luogo dove tutti evitavano di mettere piede, poiché si vociferava che le poche persone che vi si erano incautamente inoltrate, non avevano più ritrovato la via del ritorno. A tale riguardo, si sospettava invece che esse in tale foresta fossero andate incontro ad una brutta fine. Ma per noi, purtroppo, non si intravedeva una diversa alternativa alla nostra disgrazia, la quale rischiava di diventare ancora più grave di quella da cui fuggivamo con la massima celerità! Né a noi, essendo in preda alla paura, importò qualcosa un fatto del genere, per cui seguitammo ad andare avanti, infischiandoci di tutto!


Una volta che ci fummo addentrati nella foresta, facendoci prendere dalla tremarella, procedevamo verso il suo interno profondo; ma senza darci pensiero di quanto si raccontava su di essa. Oramai, nella grande fretta di sfuggire a mio zio, dentro di noi avevamo smarrito ogni esitazione ed ogni timore. Il pensiero che egli e i suoi Surcos ci potessero inseguire pure in quella foresta maledetta non ci faceva badare per niente ai tanti pericoli che ci sarebbero potuti derivare dalla Foresta della Paura. Essa ci faceva soltanto sollecitare il passo e desiderare di essere il più lontano possibile dalla via maestra. Di notte riposavamo e di giorno ci davamo a delle vere marce forzate, le quali ci stancavano in modo indicibile e ci toglievano perfino la voglia di mettere qualcosa sotto i denti, siccome non desideravamo mangiare per niente. Come potete rendervi conto, miei cari salvatori, la stanchezza ci toglieva perfino la fame; invece ci faceva desiderare di più il sonno e il riposo. Ci succedeva quel fenomeno, nonostante il nostro fisico depauperato fino all'impossibile avesse in quell'occasione la necessità di recuperare al più presto le forze perdute con un’abbondante e sana alimentazione!

Così ci inoltrammo per tre giorni consecutivi nella Foresta della Paura, fino a quando non ci trovammo davanti ad una vegetazione fittissima, la quale formava una barriera insidiosa e quasi invalicabile. Di fronte al suo inestricabile groviglio vegetativo, ci rendemmo conto che, se era nostra intenzione continuare ad attraversarla, eravamo obbligati a faticare parecchio. Difatti ognuno di noi si convinse che, per aprirsi un varco in mezzo a quella foresta e riuscire ad avanzare in essa, bisognava ricorrere all’ausilio delle scuri. Ma i guerrieri nostri accompagnatori, essendo muniti di sole spade, si diedero ad usare quelle con grande lena. Con colpi bene assestati, essi facevano di tutto per spezzare i vari intrecci vegetali che venivano ad impedirci il transito, rendendo così l'inospitale luogo accessibile alla meno peggio. Per questo fummo costretti a percorrerlo con una penetrazione lenta, la quale obbligatoriamente veniva a costarci molte pesanti fatiche e grandi strapazzi fisici. Erano poi trascorsi sei giorni di duri sacrifici, quando venimmo ad avvertire una enorme stanchezza, che non poteva più essere sopportata dal nostro organismo. Allora Nelpo, il quale guidava il nostro gruppo, ritenne opportuno farci fermare, perché ci concedessimo una breve pausa di riposo, se non volevamo stramazzare per sempre al suolo. Tutti accogliemmo la sosta con grande sollievo e cercammo di approfittarne per rilassarci il più possibile, siccome ne avevamo un gran bisogno. Ormai eravamo ad una considerevole distanza dal nostro villaggio e, per di più, ci trovavamo in un posto ben protetto da qualsiasi occhio indiscreto, nonché tenuto alla larga da ogni essere umano! Invece, per ironia della sorte, alcuni occhi vigili e contenti della nostra presenza in quei posti già erano puntati su di noi. Si trattava degli abitanti del luogo, i quali si affrettavano ad attuare a nostro danno i loro piani malvagi ed inumani.

Essi si misero in azione già il giorno successivo, intraprendendo la loro opera spietata contro il nostro gruppo di fuggiaschi. Verso mezzogiorno, infatti, quando stavamo consumando il nostro pasto, venne a farci visita una scimmietta dal pelo rosso sgargiante. La quale cominciò a fare mille capriole, facendoci divertire e ridere a crepapelle. Dopo essersi esibita come una esperta acrobata, iniziò pure a farci cenno di starle dietro. Infatti, mentre eseguiva quei suoi inequivocabili gesti di invito a seguirla, indietreggiava e si ritirava sempre di più verso la parte più interna di quella foresta. Di tutti noi, uno soltanto volle assecondare l'invito della graziosa bestiola quadrumane, poiché egli aveva intenzione di catturarla. Il nostro guerriero, desiderando legarla con essa, si era perfino portato appresso una cordicella, la quale era già provvista di un nodo scorsoio. Invece, dopo essersi sottratto alla nostra vista, il poveretto si eclissò per sempre nella foresta. Infatti, egli non fu più visto ritornare sui suoi passi ed invano lo attendemmo fino a tarda notte. Ma il giorno dopo, alla stessa ora, la scimmietta ricomparve tra di noi, mettendosi a ripetere le medesime azioni inscenate il giorno precedente. Questa volta, però, le sue originali piroette non provocavano più alcun riso sulle nostre labbra. Quando poi essa ci invitò di nuovo a seguirla, Ucis, il quale era quello più valoroso tra i guerrieri presenti, fingendo di prestarsi al suo gioco, si mise a starle dietro con altri due guerrieri moianesi. La sua intenzione, in verità, era quella di scoprire dove la bestiola avesse condotto il loro compagno il giorno prima oppure a quale brutta fine lo avesse fatto andare incontro, intanto che si faceva seguire da lui con la massima naturalezza.

Siccome la scimmietta non me la raccontava giusta e mi dava molto da pensare in quella circostanza avvolta dal mistero, non la ritenni più scherzosa ed innocua, come voleva farci credere. Inoltre, mi convinsi che essa non si presentava a noi con il solo proposito di divertirci. In base a tali mie convinzioni, cominciai a considerarla una diabolica bestiaccia, che di sicuro covava dentro di sé i disegni più malvagi. Secondo me, il suo obiettivo era quello di attirare le persone che capitavano da quelle parti in una trappola mortale, anche se non riuscivo ancora ad immaginarmi di che natura essa fosse. Lo stesso strano colore del suo pelo mi faceva pensare a cose terrificanti sul suo conto. Arrivai perfino a credere che essa amasse immergersi in un recipiente colmo di sangue umano, dopo averlo fatto uscire dai corpi delle sue vittime fatte prigioniere, martoriate ed ammazzate. Furono quelle mie terribili congetture sulla scimmia, le quali mi indussero a spiare a distanza Ucis e i due Moian che lo accompagnavano, seguendoli da vicino. In quel modo, volevo convincermi con i miei occhi che quanto avevo supposto su di essa corrispondeva al vero. Così dopo, con prove alla mano, mi sarei presentato a quelli che erano rimasti nel campo e li avrei persuasi che sotto l'innocua bestiola si celava una verità del tutto differente. Il mio nobile scopo era quello di dare a tutti noi che eravamo ancora vivi la possibilità di sottrarci al reale pericolo che avevo sospettato e paventato.

Mentre ero a debita distanza dai nostri tre uomini che stavano seguendo il misterioso cebide e li tenevo bene d'occhio, all'improvviso li vidi fermarsi. Ma non comprendendo il motivo del loro repentino arresto, siccome la bestiola si trovava in un posto che mi impediva di vederla, mi arrampicai sopra un albero. Ero sicuro che da lì sopra l'avrei scorta e mi sarei reso conto di quanto stava succedendo in quel luogo. Così, come avevo supposto, di lassù mi fu molto chiara ogni cosa, compreso il ruolo che la scimmietta aveva in quel losco affare. Essa, che già si era fatta seguire dai tre guerrieri moianesi per un migliaio di passi, ad un certo momento si accostò ad un albero gigantesco, la cui chioma era amplissima. Invece il suo tronco aveva alla base un diametro così enorme da poter essere abbracciato, esclusivamente se si fossero messe insieme le braccia di una ventina di persone adulte. Di lì a poco, l'animale si introdusse in una piccola nicchia che era stata ottenuta nel fusto dell'albero, dove sparì per brevissimo tempo. Quando ne riapparve, restando affacciata ad essa, iniziò ad invitare i tre diffidenti guerrieri moianesi a raggiungerla. Allora essi, dopo una breve pausa di esitazione, alla fine deliberarono di aderire all’invito che la bestia gli aveva rivolto. Per questo si avvicinarono all'albero ad una distanza tale, da poterlo anche toccare con le mani. Fu in quel preciso momento che vidi il suolo sotto i loro piedi prima sprofondare con i tre guerrieri sopra e poi riaffiorare rapidamente, ma privo della loro presenza. Perciò, se lo strato erboso era riemerso dal sottosuolo, non la medesima cosa era avvenuta con i tre Moian scalognati, i quali, in un attimo, avevano fatto perdere ogni loro traccia. Infatti, quando il terreno ritornò di nuovo in superficie, facendo sparire la cavità che si era formata prima, essi non vi si scorgevano più sopra; anzi, erano letteralmente scomparsi nel nulla. I poveretti erano stati inghiottiti dalla terra nel giro di una manciata di secondi, in una maniera che non avrei mai immaginata!

Quell’episodio, avendo operato l’istantanea sparizione dei nostri tre guerrieri, fece emettere dalla scimmietta delle grida di gioia strepitose. Al mio corpo, invece, esso arrecò un tale intirizzimento, da riuscire a paralizzarmi per pochi minuti. Inoltre, mi convinse in modo schiacciante che i miei sospetti sulla furba bestiola disgraziatamente c'erano stati a ragion veduta, dal momento che erano risultati del tutto fondati. Per questo ne tremai da morire per molto tempo. Non appena mi riebbi un poco da quella immobilizzazione, che mi era stata causata da una temporanea paralisi agli arti inferiori, subito raggiunsi mia sorella e i rimanenti guerrieri, ai quali raccontai ogni cosa di cui ero stato testimone. Anch'essi allora ebbero la convinzione che la scimmietta rossa era in combutta con i misteriosi abitatori della foresta e che quindi bisognava allontanarsi da quel luogo maledetto. Per tale motivo, senza perdere altro tempo, ci rimettemmo in marcia per scampare al pericolo che ci stava minacciando. Questa volta, allo scopo di consentirci una fuga più celere, decidemmo di percorrere all'inverso lo stesso sentiero che prima era stato da noi aperto a fatica. In quel modo, avremmo avuto agevolato il transito attraverso la boscaglia. Oramai a nessuno più importava cadere nelle mani di mio zio Trasco, il quale adesso appariva a tutti noi una realtà molto meno perniciosa di quella a cui ci avrebbe destinato la Foresta della Paura. Ma invano sperammo di farcela, siccome i suoi misteriosi abitanti sapevano già come precederci nel nostro intento e rendere vano ogni nostro tentativo di fuga attraverso quel luogo che era loro familiare. Purtroppo, il destino aveva stabilito di mostrarsi così nei nostri confronti e nessuno sarebbe stato capace di dissuaderlo!


Il mattino seguente, avevamo appena ripreso il nostro cammino, quando dall'alto degli alberi ci piombarono addosso una cinquantina di esseri strani. Essi, anche se ci risultavano mostruosi al nostro confronto, però non li si poteva considerare ripugnanti in modo eccessivo. Pur avendo il loro corpo l'aspetto di un lucertolone, il loro contegno si presentava alquanto simile a quello umano. Nessuno di loro superava l'altezza di un metro e mezzo; mentre la loro pelle verdastra era la riproduzione esatta di quella del citato sauro. Ma le caratteristiche che maggiormente li facevano differenziare dalle note lucertole, a mio avviso, erano la loro stazione eretta e il loro capo. Quest'ultimo, pur essendo molto somigliante a quello di un lacertide, aveva però gli occhi, il naso e la bocca disposti sul suo lato anteriore, esattamente come in un essere umano. Inoltre, tali organi avevano la loro stessa conformazione fisica. Quanto alla loro comunicazione gestuale, essa era pressoché uguale alla nostra; però non si poteva affermare la stessa cosa, se ci riferiamo a quella linguistica, poiché i nostri assalitori parlavano una lingua assai differente, palesandosi in prevalenza gutturale.

Gli strani esseri, che ci avevano accerchiati, impugnavano uno strano oggetto con la mano destra, se così poteva essere definito l'informe segmento terminale di ogni loro arto superiore. Si trattava di un bastoncino metallico cavo, il quale era lungo circa mezzo metro. Da esso, in prossimità dell'impugnatura, sporgevano due bottoni, uno verde ed un altro rosso, entrambi raggiungibili dal pollice del suo maneggiatore. Ben presto, tale oggetto ci si rivelò un'arma sorprendente, che poteva essere opera soltanto della magia. Per esattezza, ciò avvenne, quando uno dei nostri guerrieri cercò di opporsi al cenno di uno di loro, con il quale egli ci ordinava di seguirli. Poiché il ribelle tentò perfino di trapassarne uno con la propria spada, l'aggredito reagì all’istante. Dopo che gli ebbe puntato contro il suo aggeggio portentoso, premette con il suo pollice il bottone verde. Così dall'interno di esso venne fuori un raggio verdastro, il quale si diresse contro il corpo del riottoso Moian. Non appena fu colpito dal segmento luminoso, il poveretto di colpo piombò per terra tramortito. Il prodigioso episodio, inteso da tutti noi anche come un'azione dimostrativa, bastò ad ammansire i restanti guerrieri moianesi, compresi quelli più facinorosi. Costoro, dopo aver assistito alla loro eloquente dimostrazione, rinunciarono a far seguire altre aggressioni nei loro confronti. Similmente si comportarono, quando essi ci ingiunsero di gettare via le nostre armi, volendo essere sicuri che non li avremmo aggrediti con esse.

Chiuso quello spiacevole incidente, fummo condotti al medesimo albero, a cui il giorno precedente la scimmietta aveva attirato i nostri tre guerrieri e li aveva fatti inghiottire in un attimo dal suolo che era sotto i loro piedi. Con noi c'era anche il guerriero svenuto, poiché i nostri nemici ci avevano obbligati a portarcelo dietro sopra una barella, dopo avercela fatta approntare con mezzi di fortuna costituiti dai rami. Ma una volta presso il gigantesco albero, gli alieni ci ammassarono sopra una piattaforma circolare, la quale era ricoperta da uno strato erboso. A quel punto, la terra sotto i nostri piedi, assumendo un movimento discendente, sprofondò nel sottosuolo con tutti noi che ci stavamo sopra. Alla fine ci ritrovammo all'imbocco di una galleria sotterranea, dove stavano ad attenderci un'altra cinquantina di Monki. Difatti, come avrei appreso più tardi da mia sorella Kuanda, era questo il nome degli strani esseri che ci avevano fatti prigionieri. Lì sotto, ci accorgemmo che le stesse armi prodigiose erano possedute anche da quelli che ci avevano accolti nella galleria sotterranea. Essa si presentava assai illuminata, grazie alla presenza su entrambe le sue pareti di fonti luminose di forma globulare. Esse, a differenza delle nostre torce, erano prive di fiamma e di fumo.

Il nuovo gruppo di Monki ci fece sgomberare dalla piattaforma circolare che ci aveva fatti trovare sottoterra. Subito dopo la medesima, una volta liberata dal nostro peso, assunse un movimento ascendente e risalì subito in superficie. Comunque, ignoravamo a che profondità sottoterra stavamo adesso, anche se avevo ipotizzato per approssimazione non più di una ventina di metri. I medesimi alieni in seguito ci obbligarono a seguirli attraverso altri corridoi, i quali si presentavano dotati dello stesso tipo di illuminazione. Infine venimmo rinchiusi in una enorme cella semibuia, dove ritrovammo anche gli altri Moian che erano stati fatti prigionieri prima di noi. In essa, alcuni scheletri interi e degli ossi singoli disseccati facevano da ornamenti alle pareti. Soltanto mia sorella non era rimasta con il nostro gruppo. Ella, poco prima, era stata separata da noi da quattro Monki che ci scortavano, i quali l'avevano condotta via in un luogo a noi ignoto.

Dopo quindici lunghi giorni trascorsi in quella cella, durante i quali i Monki ci avevano permesso di nutrirci come non avevamo mai mangiato in vita nostra, si presentarono a noi una ventina di loro. Essi, dopo aver scelto i sei Moian più robusti ed averli legati con le mani dietro la schiena, se li portarono via e non li ricondussero mai più indietro. Nella notte che seguì, come pure nelle altre due successive, pervennero alle nostre orecchie degli strani urli, che erano accompagnati da ininterrotti rulli di tamburi. I quali, durante l'intera nottata, di preciso dalla mezzanotte fino all'alba, ogni volta seguitarono a fare un fracasso indiavolato. In quelle tre notti da inferno, mentre gli altri si andavano chiedendo perché mai ci fosse tale baccano assordante, io pensavo a mia sorella Kuanda e mi andavo domandando se l'avrei più rivista in futuro. Il pensiero che le avessero fatto qualcosa di orribile mi torturava l'animo; inoltre mi spinse anche a chiedere più volte ai due Monki, che ci portavano quotidianamente da mangiare e da bere, dove fosse stata condotta mia sorella. Essi, però, non conoscendo la nostra lingua e non comprendendo le mie parole, non avevano mai dato ascolto alla mia domanda. Perciò erano rimasti muti come pesci, oltre che somigliare a delle sgradevoli lucertole, che ci si mostravano molto antipatiche.

Nei giorni che seguirono, da parte di tutti noi, si cominciò a pensare su quanto già era accaduto ai nostri sei compagni che i Monki avevano condotto via dalla cella. Così ognuno si fece le proprie congetture sulla vicenda: tutte che facevano davvero rabbrividire! Infine iniziammo pure a temere il peggio per noi stessi, ritenendoci vittime designate, al pari dei nostri compagni che già erano stati separati da noi. In pari tempo, ci andavamo chiedendo quale inesorabile destino ci attendeva e quando esso ci avrebbe accoppati. Trascorrendo poi le giornate lente e nell'incertezza, noi ci agitavamo nei pensieri più tremendi, i quali ci tormentavano, come se stessimo ad arrostire sopra dei tizzoni ardenti! In quella cella, perciò, ci demmo a vivere una realtà spaventosa, di fronte alla quale ci sentivamo impotenti a reagire. Ci andavamo perfino prefigurando le pene che i Monki infliggevano ai loro prigionieri; però volevamo anche conoscere il motivo che li spingeva ad assalire gli esseri umani, conducendoli dentro il loro rifugio. Restando poi le nostre domande senza risposte, preferivamo relegare nel dimenticatoio le conseguenti ipotesi. Almeno così si evitava di venirne terrorizzati nella maniera più spaventevole!