264°-IVEONTE DECIDE DI AFFRONTARE IL MOSTRO ZIKUL

La discesa di Iveonte nella voragine di Zikul ebbe inizio, quando mancavano pochi minuti a mezzogiorno. In quell'istante, i raggi del sole, con un avanzamento impercettibile, avevano già raggiunto la metà della sua profondità. L'eroe vi veniva calato dai suoi due ansiosi amici con molta lentezza e cautela, evitando qualsiasi brusco movimento. Poiché la corda era stata ottenuta con materiale di fortuna, ossia mediante alcune liane legate fra loro, i suoi due amici temevano che essa potesse spezzarsi da un momento all’altro, in seguito al minimo urto. In quel caso, il loro prezioso compagno sarebbe precipitato nel vuoto sottostante. Ma solo dopo che egli avesse raggiunto il fondo della voragine, lo avrebbero ritenuto finalmente al sicuro, non essendoci più alcun pericolo per lui. Allora essi avrebbero messo da parte ogni loro giustificata preoccupazione, poiché dopo sarebbe stata adoperata la resistente corda dei Tros. Invece Iveonte, senza scomporsi per niente, si lasciava calare nello spaventoso baratro del mostro, dal cui fondo adesso sentiva levarsi i pianti e i lamenti delle sei piccole vittime lutresi. Laggiù, infatti, i malcapitati stavano soffrendo chissà quanto e chissà come, visto che si prefiguravano già il mostro Zikul, mentre andava ad abbrancarli e a divorarseli; per cui ne temevano da morire. Ecco perché egli ci teneva a raggiungerli al più presto, essendo desideroso di recare a loro tutti il conforto e il sollievo di cui essi abbisognavano.

L’intrepido giovane intendeva sottrarli soprattutto alla sventura tremenda che li aveva colpiti, facendo evitare ad ognuno di loro la terribile morte. Perciò, armato della sua invincibile spada e dello scudo, egli non vedeva l'ora di affrontare l'antropofago mostro, avendo intenzione di eliminarlo per sempre e di far giungere la consolazione a tanta gente infelice che ne necessitava. Ma intanto che gli amici lo calavano giù nel baratro, trovava intollerante la loro lentezza, la quale sembrava che lo facesse avanzare quasi al pari dei raggi solari. Quando infine si ritrovò sul fondo della voragine, dopo una discesa di circa centotrenta metri, per prima cosa, Iveonte badò a liberarsi dalla corda di liane che lo teneva legato al tronco. Subito dopo si affrettò a soccorrere gli atterriti ragazzi, slegando i loro polsi e le loro caviglie. Principalmente, però, ci tenne a rivolgere agli stessi alcune parole di conforto e di vivo incoraggiamento. Mentre li scioglieva, cercava di rassicurarli, dicendo a loro tutti: "Non abbiate paura, miei cari ragazzi, perché sono venuto ad uccidere il mostro Zikul e a portarvi in salvo. Dopo vi ricondurrò anche dai vostri genitori. Ne siete contenti? I miei amici presto vi tireranno fuori di qui. Così vi permetteranno di continuare a godervi il cielo azzurro e la verdeggiante campagna, dove svolazzano farfalle dalle ali variegate. Inoltre, come sapete, vi volano e vi cinguettano moltissimi uccelli dal piumaggio screziato!" Sentendo parlare in quel modo colui che era andato a salvarli, i sei giovinetti lutresi, da una parte, lo guardavano frastornati ed attoniti; dall’altra, non smettevano di chiedersi chi egli potesse essere e da dove fosse sbucato. Inoltre, restando muti come pesci, lo lasciavano fare e dire; nonché si mostravano increduli e sbalorditi.

Dopo essere scemata in loro l'iniziale stupefazione, i ragazzi cominciarono a rendersi conto della nuova realtà. Per questo, non avendone più dubbi, essi si diedero ad accettarla con immenso gradimento, fino a fare risplendere i loro volti di una felicità indescrivibile. L'onda di gioia, che venne a pervaderli e a travolgerli, ad un tratto li spinse a stringersi intorno al loro salvatore, esprimendogli in silenzio la loro immensa gratitudine. Ma l'eroico giovane, da parte sua, non avendo tempo di dare retta ai molti gesti di profonda riconoscenza che gli provenivano dai ragazzi, badò unicamente a farli trarre fuori dalla voragine prima possibile dai suoi amici Tionteo e Speon. Così, dopo averli avvertiti mediante il segnale convenuto, innanzitutto egli volle disfarsi della corda di liane, della quale i suoi amici si erano serviti in via provvisoria per calarlo nella voragine. La fece tirare su da loro, dopo aver legato ad essa un capo del resistente canapo utilizzato dai Tros nel trasferimento delle sei vittime adolescenti e del loro accompagnatore nel fondo del baratro. Potendo poi disporre della nuova fune, per averla recuperata in quel posto, l'eroico giovane si affrettò a far tirare su dai suoi due amici i sei ragazzi, però non tutti insieme.

Le prime furono le femminucce Leial, che aveva dieci anni, ed Urase, la sorella undicenne di Esio, la quale seguitava a tremare come una foglia. Quando poi Tionteo e Speon gli fecero giungere di nuovo la corda, Iveonte non perse tempo a legare ad essa l'altra femminuccia di dodici anni, la quale si chiamava Cisan. Subito dopo impartì agli amici l’ordine di tirarla su all'aperto. Fu proprio mentre il secondo carico umano si staccava dal suolo lentamente, la luce solare venne ad illuminare la voragine lungo l'intero suo cunicolo verticale, ossia da cima a fondo. Soltanto a quel punto, avendone l'opportunità, il giovane cercò di rendersi conto di come fosse fatta quella parte della voragine in cui si trovava. Allora notò che essa si presentava come un'ampia grotta, che non aveva termine in quel luogo. Anzi, prendendo l'aspetto di una galleria, si inoltrava con una discreta pendenza nelle buie viscere della terra. L'enorme e digradante cunicolo aveva la stessa ampiezza, che il baratro presentava nel suo tratto a precipizio. Esattamente, esso era di forma pressoché cilindrica ed aveva un diametro di circa dieci metri in tutta la sua profondità.

Una volta che la corda fu calata per la seconda volta nella voragine, Iveonte si mostrò lesto a legare uno dei tre ragazzi rimasti, i quali, oltre ad essere i più grandi di età, erano anche tutti maschi. Ma prima ancora che egli riuscisse a comunicare ai compagni che potevano sollevarlo, si avvertì uno strano movimento. Esso, originandosi all'interno della profonda galleria, dava luogo anche a dei rumori misteriosi. Per la verità, non si riusciva a comprendere cosa si stesse muovendo là dentro e quale potesse essere la causa che dava origine a tali onde sonore. Anche se in realtà quel fenomeno acustico non riproduceva dei veri effetti sonici, comunque, esso dava luogo ad un evento che provocava una specie di rumore. Per cui, pur in forma indistinta, era l'udito a percepirlo. Insomma avveniva come se l'aria venisse scossa da qualcosa che trasmetteva ad essa delle vere vibrazioni. Le quali, incanalandosi nel padiglione auricolare, colpivano il timpano come fastidiose emissioni rumorose. Al verificarsi di quell'arcano fenomeno, il giovane tese bene l'orecchio per breve tempo, volendo cercare di individuarne la causa, più che l’origine. Infine, non dandogli più alcun peso, pensò di mettere in salvo, nel minor tempo possibile, i rimanenti tre adolescenti che erano con lui. Perciò inviò ai suoi due amici il segnale di tirare su quello che già risultava legato alla corda, ossia il robusto tredicenne Iarbo. Ma non appena il ragazzo cominciò ad essere sollevato verso l'imbocco della voragine, in quella specie di grotta parve che tutto si fosse messo a tremare. Sembrò che ogni cosa vi venisse scossa da un movimento d'aria, il quale si andava effettuando senza una causa apparente.

Alcuni istanti dopo, oltre a quel genere di aeromoto, iniziò a farsi udire in essa un sibilo acuto, il quale pure proveniva dall'interno del profondo cunicolo. Infine quella sibilante percezione acuta, che chiaramente andava accrescendo di intensità, si ritrovò trasformata nell'urlio di un vento furioso, che si faceva sentire come se fosse impazzito. Volendo essere più precisi, in quella grotta non soltanto si presentò il fragoroso urlo di una forza naturale non identificabile; ma si accompagnò ad esso una forte corrente d'aria. La quale, operando un'azione risucchiante in tutto il percorso della voragine, cercava di spazzarvi quanto non vi risultasse ben saldo. Ma essendoci dentro ancora Iveonte e i due imberbi Lutr, il moto d’aria si diede ad operare su di loro una persistente azione di risucchio. Allora i primi a rischiare di essere risucchiati dalla misteriosa forza centripeta furono proprio i due ragazzi, i quali ne vennero all’improvviso investiti in modo irresistibile. L'eroe, però, essendo riuscito ad afferrarli in tempo, adesso li tratteneva a stento e faceva di tutto per non farli travolgere da essa. Comunque, non si sapeva dove essa li avrebbe trascinati! Nel frattempo, però, la furia di quell'impetuoso movimento d'aria andava aumentando di intensità e di potenza attrattiva, facendo tentennare perfino il giovane eroe; ma poi il ritorno della corda nel fondo della voragine lo rincuorò abbastanza. Per cui Iveonte si affrettò a legare ad essa i due ragazzi che erano rimasti ancora insieme con lui. In pari tempo, se ne servì anch'egli per non lasciarsi attrarre da quella vorticosa corrente d'aria. Menomale che Tionteo e Speon, come da precedente suggerimento di Iveonte, avevano legato l'altro capo della fune alla sella del cavallo dell'amico per fargli eseguire le varie operazioni di tiro. Perciò la bestia riusciva benissimo a tener testa a quell'ignota forza aspiratrice. La quale, con una caparbia insistenza, cercava di tirarsela dentro nel vuoto, insieme con il lungo canapo ad essa legato.

In un primo momento, vedendo la corda agitarsi con scossoni incredibilmente violenti, i due giovani fecero pensiero che il loro amico stesse dando il segnale di alzata. Per questo, preso il cavallo con la cavezza, essi tentarono di farlo avanzare dalla parte opposta alla voragine, appunto per fargli tirare su la corda con il carico umano. Vedendo però che essa non permetteva alla bestia di avanzare di un solo passo, come se qualcuno la stesse tirando dall’altra parte con una forza sovrumana, compresero che in fondo al baratro del mostro qualcosa di strano stava succedendo senza meno. Ma non erano in grado di rendersi conto di cosa vi stesse realmente accadendo. D'altro canto, non mancò in loro il vago sospetto che il mostruoso Zikul già si fosse fatto vivo alla base della cavità infernale e cercasse di ostacolare la risalita dei ragazzi e del loro amico Iveonte. Ammesso pure che ciò fosse stato vero, Tionteo si andava chiedendo perché mai c'entrasse la corda. Così, nonostante non ci capisse un accidente e continuasse a riscuotere solo insuccessi dalle sue ipotesi, il giovane terdibano seguitava insistentemente ad incitare il quadrupede a procedere nella medesima direzione. Con i suoi incitamenti, naturalmente, egli riusciva soltanto a renderlo ombroso. Per la quale ragione, esso si diede a reagire con acuti nitriti e con impennate pericolose. Alla fine, però, si calmò del tutto.

Da parte loro, Iveonte e i due giovinetti restavano ancora in balìa di quella forte corrente d'aria che tendeva a trarli nell'interno. Essa, sottoponendoli al suo assalto aspro e turbolento, li agitava come deboli ramoscelli incalzati da un rovinoso uragano. Bisognava ammettere, però, che tutti e tre resistevano con le totali loro forze a tanta agitazione forsennata e non si davano per vinti. Per loro fortuna, la corda, la quale risultava molto resistente, parteggiava per loro e li aiutava a tenersi ben sorretti e a non cedere a chi voleva avere ragione di loro. A parere dell'impavido giovane, quel ciclonico aeromoto, il quale si esprimeva con una forza di attrazione fuori del comune e cercava di attrarre ogni cosa nella dimora di Zikul, prima o poi sarebbe dovuto cessare. Secondo la sua teoria, ciò che comincia ad essere, prima o poi, è costretto a venir meno e a non essere più. Perciò, riponendo la massima fiducia in quel principio che gli veniva dettato dalla logica, egli aspettava con pazienza che la furia del centripeto soffio apocalittico venisse definitivamente a scemare in quel luogo semibuio.

Alla fine, dopo avervi spadroneggiato per un intero quarto d'ora, quella raffica infernale finì per placarsi totalmente. Infatti, dopo aver tentato in ogni modo di trascinare nella grotta sia il giovane che i due adolescenti di Lutriak, essa aveva dovuto desistere, senza avere successo nel suo intento, il quale poteva essere soltanto malvagio. Allora Iveonte immediatamente cercò di approfittare di quella breve parentesi di calma, la quale era venuta ad aversi là in fondo inattesa ed improvvisa. Perciò, prima che saltasse fuori una nuova diavoleria da qualche altra parte, si sbrigò a mettere al sicuro i due ragazzi. A suo parere, venendo ad affrontare da solo qualunque sorta di pericolo, la cosa sarebbe stata ben diversa per lui. Senza dubbio egli avrebbe avuto una maggiore libertà d'azione e meno preoccupazioni mentre combatteva. Difatti non avrebbe dovuto proteggere persone incapaci di difendersi da sé, ma che gli avrebbero creato solo dei seri problemi. Dunque, senza perdere tempo, il sagace giovane si adoperò per farli tirare su uno alla volta dai suoi amici, a cominciare dal quattordicenne Epior. Quando poi la corda fu ancora calata giù sul fondo, il sole a mano a mano si stava già ritraendo dalla voragine. A causa di ciò, in ogni angolo di quel luogo la luce andò divenendo sempre più debole e più fioca. Per questo l’incalzare della penombra, la quale si andava trasformando in un buio pesto, spinse il generoso eroe ad essere più spedito nel fare sollevare il quindicenne Libuk. Al giovinetto egli raccomandò di avvertire i due amici che aveva bisogno di una torcia. Egli aveva fatto richiesta di tale strumento di illuminazione unicamente per servirsene, nel caso che fosse stato necessario scovare il mostro nella sua dimora.

Tionteo e Speon, una volta tirato su dal buio fondo della voragine l'ultimo ragazzo, dal quale ricevettero il messaggio dell'amico, accolsero subito la sua richiesta, facendogli giungere la torcia con alquanta sollecitudine. Quando poi la ebbe ricevuta dai suoi compagni, Iveonte si andò chiedendo se era meglio reggere con il braccio sinistro lo scudo oppure la torcia. Egli, non potendo fare uso dell'uno e dell'altra simultaneamente, si vedeva obbligato a disfarsi di uno dei due elementi, anche se li reputava entrambi indispensabili in quella specie di grotta. Infine la sua propensione fu per lo strumento costituito dal fuoco, per la semplice ragione che il suo avversario sarebbe stato un essere di natura bestiale. Il quale non avrebbe maneggiato armi ed avrebbe risentito di più delle ustioni che gli avrebbe provocato la fiamma. Inoltre, la sua luce gli avrebbe anche illuminato discretamente il luogo dove si sarebbe svolta la lotta. Furono tali sue considerazioni a convincere il giovane dorindano che la fiaccola avrebbe contribuito ad assicurargli in pari tempo una difesa e una offesa più efficaci, per cui essa era senz'altro da preferirsi allo scudo.

Quindi, Iveonte si era ormai ritenuto pronto ad affrontare la terribile zuffa contro Zikul, allorquando dall'interno della galleria cominciarono a farsi sentire degli schiamazzi inferociti, che potevano venire emessi soltanto da un essere tremendamente mostruoso. I quali pervennero perfino all'esterno della voragine, raggiungendo Tionteo, Speon e i sette ragazzi lutresi. Allora tutti ne tremarono come foglie al vento e ne ebbero uno spavento grandissimo. Esio ebbe anche a lamentarsi con i due giovani, dicendo ad entrambi che non si sarebbe dovuto sfidare un mostro invincibile del tipo di Zikul. Dal canto suo, il nipote dei due illustri condottieri Kodrun e Nurdok non si lasciò impressionare dagli orribili schiamazzi del mostro; anzi, in presenza del loro strepito, egli conservò totalmente la sua calma austera. Inoltre, si incrementò nel suo animo l'ansia di cimentarsi con il mostro quanto prima, siccome non vedeva l’ora di abbatterlo e di assegnargli la fine che si meritava.

Probabilmente Zikul, destandosi ogni mezzogiorno successivo alla notte di plenilunio, generava lungo tutto il percorso della voragine quella forza centripeta, appunto per attrarre nelle sue fauci le sei vittime lutresi. Ma adesso, non vedendosi arrivare il solito pasto dal suo risucchio ciclonico, all'istante era stato preso da una stizza bestiale e da vari immediati propositi di rabbiosa vendetta. Per questo adesso si adoperava per punire il popolo dei Lutr e quello dei Tros, infliggendo a ciascuno di loro una dura incursione di devastazione e di morte. Esso, però, ignorava che adesso qualcuno era pronto a contendergli il passo ed avrebbe fatto di tutto per evitargli di uscire dalla voragine. La stessa persona, oltre a non fargli portare in porto la sua premeditata strage, si era ripromessa in pari tempo di stroncargli presto l'esistenza nella sua stessa dimora. Addirittura egli aveva intenzione di trasformargliela nella sua tomba perenne, dove ci sarebbe stato la fine di ogni sua energia vitale.

A parere di Iveonte, affrontare Zikul nella voragine era sempre meglio che combatterlo all'aria aperta. Laggiù, considerata la scarsa disponibilità di spazio, il mostro non avrebbe potuto fruire delle sue ali, dalle quali gli sarebbero derivati dei vantaggi non di poco conto nella lotta contro di lui. Esse, se fossero state poste in condizione di funzionare al meglio all'aria aperta, gli avrebbero permesso di caricarlo con impeto e con aggressività maggiori. Come pure avrebbero contribuito a dare ai suoi spostamenti una fulmineità incredibile, mettendolo così in grande difficoltà nel controllarlo. L'indomabile giovane si era dimostrato molto oculato e riflessivo a pensarla in quella maniera; ma era ancora da vedersi con quale specie di mostro avrebbe avuto a che fare. A ogni buon conto, se esso era stato l'autore della scompigliante tromba d'aria che si era originata nella voragine, si poteva già ammettere che Zikul aveva delle ottime referenze, per essere stimato un osso duro. Contro il quale, ad essere obiettivi, non facilmente la si sarebbe spuntata. Iveonte, però, non faceva affatto caso a quel particolare, che deponeva a favore del mostruoso avversario. A suo giudizio, l'osso duro esisteva esclusivamente nella paura degli uomini vili; mentre egli, essendo un temerario, aveva bandito da sé il termine "impossibile", del quale si avvalevano coloro che si rifiutavano di intraprendere qualche azione compromettente oppure rischiosa. Così facendo, essi rinunciavano a guardare in faccia la realtà e preferivano viverla non da padroni ma da schiavi di essa. Perciò, evitando di domarla e di cavalcarla, alla fine i medesimi divenivano autentiche marionette nelle sue mani. A ogni modo, noi non possiamo dargli torto, essendo egli abituato a vedere le cose con una visione che era quella dell’uomo valoroso e giusto, categorico ed incorruttibile, attaccante e vincente. Al massimo, possiamo contestargli il fatto che il suo modo di pensare, anche se abbastanza valido, non poteva essere universalmente accettato, considerato che le umane potenzialità non risultavano identiche in tutti gli esseri umani.