263-IVEONTE E I SUOI AMICI RAGGIUNGONO LA COLLINA DELLA MORTE
Non appena Esio ebbe terminato il suo racconto, Iveonte gli fece preparare da Speon un buon pasto, siccome il poveretto era stato tenuto a digiuno dal mattino del giorno precedente. Quando poi il ragazzo si fu sfamato a sufficienza, egli lo invitò a darsi ad un buon sonno ristoratore. Allora l'imberbe Lutr assecondò l'invito del giovane, anche perché i suoi occhi volevano chiudersi, a causa di una irresistibile sonnolenza. Ma qualche ora più tardi, essendo sorto da poco, fu visto il sole ritornare a risplendere con tutto il suo fulgore sulla boscaglia. La quale riacquistò la sua consueta vitalità, quella che la sera precedente le era stata carpita dalle tenebre e che ora aveva ripreso a dilagare in ogni suo angolo. Nel frattempo, alcune nuvole passeggere, indossando un abito roseo e sfrangiato, si erano date a solcare il cielo, rincorrendosi con velocità moderata e recando al cielo una nota di sgargiante attrattiva. Invece, molto più in basso, con il loro lieve dondolio e il loro gaio stormire, anche le chiome degli alberi suscitavano qualche interesse nel viaggiatore di passaggio.
In seguito, intanto che Esio continuava a dormire come un ghiro, facendo intendere che ci voleva ancora tempo per soddisfare il suo sonno arretrato, Tionteo si preoccupò di chiedere all'amico:
«Cosa si fa adesso, Iveonte, alla luce del racconto di Esio? Egli ci è capitato all'improvviso, portandosi dietro un bagaglio colmo di enormi frustrazioni e di fatti che denunciano la massima disumanità, che il suo popolo è costretto a subire! Pensi che dobbiamo intervenire in suo soccorso oppure sei del parere che ci manca il tempo materiale per un nostro intervento nel suo villaggio? Vorrei sapere qualcosa da te sul da farsi.»
«Certo che aiuteremo i Lutr a risollevarsi dalle loro inumane sventure, Tionteo; ma prima lasceremo riposare per un paio di ore questo stremato ragazzo. Dopo ci dirigeremo verso la Collina della Morte. Una volta pervenuti sopra tale altura, salveremo i sei ragazzi lutresi, i quali staranno vivendo il terrore più folle della loro vita. Come sai, da qui a mezzogiorno, abbiamo ancora parecchio tempo a disposizione, per arrivare alla dimora di Zikul. I nostri cavalli, presentandosi riposati, potranno raggiungerla entro un'ora, pur non facendo accelerare al massimo la loro andatura!»
Le parole di Iveonte fecero trasalire Speon, che era presente. Egli, che stava seguendo alquanto interessato il discorso dei suoi amici, dopo che le ebbe udite, si affrettò a domandargli preoccupato:
«Se ho udito bene, Iveonte, hai espresso la volontà di andare a liberare i giovinetti lutresi. Ma poi come faremo a sottrarci alla furia distruttiva di Zikul?! Hai sentito anche tu a quali cose terribili il mostro alato dà origine, se lo si priva del pasto che si aspetta nella sua voragine alla solita ora! Secondo me, sfidarlo sarebbe un'autentica follia; mentre rinunciarci sarebbe la cosa più saggia da fare! Quindi, non ci vuoi proprio ripensare?»
«Secondo te, dovrei cambiare idea, Speon? Neppure per sogno! Perciò faremo esattamente quanto mi hai sentito affermare poco fa a Tionteo! È mio dovere salvare il popolo dei Lutr prima dalla ferocia di Zikul e poi dalla prepotenza dei Tros! Vuoi spiegarmi perché non approvi il mio nobile proposito, come se esso ti risultasse qualcosa di brutto? Da te poi non me lo sarei mai aspettato, amico mio, dopo aver fruito della mia protezione!»
Subito dopo, senza neppure attendere la risposta del Borchiese, Iveonte sentì il dovere di rimproverarlo e fargli il seguente discorso:
"Speon, sappi che ovunque ci sarà una prepotenza ed una ingiustizia da debellare, in quel luogo sarà sempre il mio braccio a combatterle e a sconfiggerle. Non provi compassione pure tu per i miseri Lutr? Immagina un po' da quanti secoli sul loro volto ha smesso di brillare il sorriso della gioia! La loro storia è altamente drammatica, come quella di nessun altro popolo, per cui, se non intervenissi a difesa degli sventurati, smetterei di essere me stesso. Allora quale senso avrebbe il cercare di integrarlo con altre notizie importanti che lo riguardano, se in me venisse meno l'esigenza di farlo vivere nel mio intimo e di difenderlo con ogni mezzo possibile? Ad esempio, con questo viaggio a ogni costo intendo venire a conoscenza della mia ignota famiglia e riappropriarmi delle mie radici. Soltanto l'uomo debosciato, cioè quello che evita di essere sé stesso, non si ricerca, non desidera riconoscersi nella sua vera identità e rifugge dalla missione che il destino gli ha affidata. Mentre chi aspira a vedersi con una propria personalità cerca principalmente di assicurare ad essa delle ottime referenze, ossia fa di tutto per procurarle la stima e la fiducia degli altri. Io bramo che la mia personalità rifulga di pregi; ma se intendo ottenere ciò, prima di ogni altra cosa, devo pervenire al massimo dei valori. Mi riferisco a quello che si presenta incontaminato e non è stato mai macchiato dalla viltà. E in nessuna circostanza, esso ha conosciuto ostacoli materiali di sorta, essendosi impegnato a vincerli e a superarli nel nome del bene e della giustizia!
A quanto pare, Speon, mi hai dato modo di avvedermi che hai dimenticato molto presto che mi sono comportato allo stesso modo, quando è stato necessario liberare le giovani ragazze polscetane dalla setta delle Teste di Lupo. Non credi che il mio atteggiamento sia stato identico, quando ho affrontato ed ucciso i fratelli Kirpus, liberando dai loro soprusi i venticinque villaggi della Regione dei Laghi e sottraendo te da una morte certa? La stessa cosa è avvenuta, quando ho deciso di salvare il popolo di Brenco dal mostro Reptiluk. Dunque, amico mio, ti toccherà rivedere la tua opinione in merito alla nostra nuova missione, quella che stiamo per intraprendere a favore dei miseri e sventurati Lutr!"
Il discorso di Iveonte, accolto con grandissima ammirazione da Tionteo, valse a spegnere nel giovane borchiese il suo iniziale sbigottimento e il suo egoismo. Perciò egli dovette riconoscere di avere sbagliato ad esprimersi in quel modo, circa l'intenzione manifestata dall'amico. Soprattutto si pentì di avere attentato, senza accorgersene, a quell'altruismo che aveva recato tanto bene anche a lui, fino a salvargli la vita. Anzi, a riscattarlo dai fratelli Kirpus, era stato proprio quello stesso filantropismo di Iveonte, che adesso desiderava lanciarsi a difendere i miseri Lutr. Quindi, se egli se ne era giovato nel recente passato e nello stesso tempo ne avevano fruito anche i suoi conterranei borchiesi e gli abitanti di tanti altri villaggi, perché non permettere adesso pure all'infelice popolo di Lutriak di trarne un utile profitto? Così esso sarebbe ritornato ad essere sereno, come lo era stato in un tempo remotissimo, prima delle sventure che lo avevano investito. In verità, Speon non si era pronunciato contro la decisione dell'amico, per un innato senso della vita puramente egoistico; invece era stata la paura a spingerlo a tale sua reazione istintiva ed intempestiva. Il poveretto aveva temuto che Iveonte, combattendo contro Zikul, non sarebbe stato all'altezza della situazione, compromettendo così la sua incolumità e quella loro. Ma adesso era disposto a secondare l'eroico amico in tutto e per tutto, fidando ciecamente in lui, proprio come in una vera divinità. Così alla fine la concezione altruistica della vita, come era stata espressa dall'eroe dorindano che si proponeva di attuarla nella sua forma più piena e concreta, venne ad accendere in Speon una scintilla di vita nuova. Nella quale, come adesso si rendeva conto, venivano alimentati incondizionatamente i valori più nobili, come il sentimento di fratellanza sincera fra tutti gli uomini e la ferrea volontà di soccorrere coloro che ne necessitavano.
Mancavano due ore a mezzogiorno, quando Iveonte decise di svegliare il giovane lutrese, il cui sonno si mostrava ancora profondo. Scuotendolo con moderazione, egli gli trasmise il seguente messaggio:
«Déstati, Esio, poiché è tempo di muoverci! Non possiamo indugiare oltre, se non vogliamo arrivare in ritardo sulla Collina della Morte, dove ci attendono tua sorella Urase e gli altri cinque ragazzi, che dovranno essere sacrificati con lei al mostro Zikul!»
Essendo ancora mezzo addormentato, il ragazzo non sentì le sue parole e neppure ne captò il significato. Allora, sbadigliando, gli domandò:
«Per dove si parte, Iveonte? Siamo forse diretti in qualche posto? Ma spero che esso sia il più lontano possibile dal mio villaggio, se non vogliamo trovarci in guai abbastanza seri! Allora vuoi dirmi dove dovrà condurci la partenza, alla quale ti sei riferito?»
«Invece non andremo al tuo villaggio, mio caro Esio, poiché la nostra meta sarà invece la Collina della Morte! Dobbiamo raggiungerla al più presto, se vogliamo salvare la tua cara sorellina e i suoi compagni di sventura. Non ti fa esultare questa bella notizia? Al posto tuo, non riuscirei ad avere un diverso atteggiamento, nell'apprenderla!»
«Esulterei senza meno, Iveonte, se credessi una cosa fattibile ciò che vi proponete di fare! Al contrario, so già che la vostra è una impresa impossibile, ossia senza speranze. In primo luogo, i Tros non ve lo permetteranno, se ci provate. Quelli che scortano il carro sacrificale non sono meno di venti e sono tutti degli ottimi guerrieri! Invece voi siete solamente tre. In secondo luogo, ammesso che riusciate ad avere ragione di loro, dopo come ve la caverete contro la furia di Zikul? Di sicuro verrete travolti e trucidati dal mostro senza difficoltà. Insieme con noi, inoltre, morirebbero tante altre persone appartenenti alla mia tribù e a quella trosina! Questo fatto lo hai messo in conto, mio generoso Iveonte, oppure no?»
«Stanne certo, Esio, che non sarà il mostro Zikul ad impressionarmi, per quanto terribile possa sembrarti! Presto esso farà i conti con la mia spada. Dopo avergli troncato l'esistenza, non lo farò più essere di nocumento a nessuno: né ai Lutr né ai Tros. Te lo posso assicurare, ragazzo! Perciò àlzati all'istante e partiamo subito alla volta della famosa collina!»
«Parli in questo modo, Iveonte, soltanto perché non hai ancora visto il mostro Zikul. Ma se tu lo avessi incontrato faccia a faccia in qualche posto, sono convinto che non ti esprimeresti più così, come stai facendo in questo momento! Te lo garantisco!»
«Forse a te è capitato di vederlo, Esio, per esserne certo?»
«Non un Lutr e non un Tros lo ha mai visto di persona, Iveonte, visto che per fortuna se ne resta sempre rintanato nella sua voragine infernale. La sua imbattibile ferocia ci viene tramandata, da quando uscì fuori dalla sua tetra dimora per la prima volta. Come appunto vi ho già raccontato, il mostro allora si infuriò, per aver ricevuto come pasto degli adolescenti lutresi morti avvelenati. Fu allora che si apprese che Zikul è un mostro alato con sei teste e due potenti zampe che sembrano due colonne! La sua è una storia vera e non una leggenda, come voi siete portati a credere! Perciò dovete prenderne atto, evitando di affrontarlo per ucciderlo.»
«Anche se fosse come ci hai riferito, Esio, ciò non mi spaventerebbe ugualmente. Invece già avverto in me una voglia irrefrenabile di affrontarlo e di annientarlo, considerato che la sua morte significherà per molta gente la fine di trepidazioni e di sofferenze atroci. Inoltre, essa farà cessare per sempre il sacrificio di tanti ragazzi adolescenti innocenti. Quindi, non temere, poiché tutto andrà per il meglio. Devi sapere che Zikul non è il primo mostro che affronto e a tutti ho dato sempre il benservito, come mi dettava la coscienza! Se ciò ti può recare molta consolazione, ti do la mia parola che la profezia di Lenno sta per avverarsi per il tuo sfortunato popolo!»
«Perché affermi ciò, Iveonte? Saresti forse tu il Grande Eroe da lui vaticinato? E dovrei crederti che è proprio così? Magari lo fosse!»
«Non so perché il vostro Lenno mi abbia dato tale appellativo; ma ti posso assicurare che sono io quello a cui il vecchio si era voluto riferire. Perciò non perdiamo altro tempo ed affrettiamoci a raggiungere la maledetta collina di Zikul. Tu, Esio, cavalcherai insieme con me, standomi avanti sopra la groppa del mio cavallo. Anche perché dovrai indicarmi il percorso da seguire, intanto che saremo diretti verso di essa!»
Fu così che Iveonte, i suoi amici ed Esio si misero a cavalcare vertiginosamente verso il funesto colle, il quale, in tanti secoli, si era inghiottito migliaia e migliaia di ragazzi e giovinetti lutresi. A metà percorso, però, essi furono sorpresi da un furibondo fortunale, che era misto a vento. Esso, venendo ad arrestare la loro corsa, li costrinse a trovare riparo nel cavo di un gigantesco tronco di un albero secolare. Ma il rovinoso acquazzone imperversò per una mezzora al di sopra delle loro teste, esprimendosi con tuoni possenti, con sinistri lampeggiamenti, con raffiche violente e con una pioggia torrenziale. Sfogandosi in quella maniera, la perturbazione atmosferica riuscì a produrre in ogni canto di quella boscaglia un turbamento non comune ed un grande panico tra le irrequiete bestie che vi vivevano. Alla fine, quando furono cessati gli ultimi scrosci di pioggia, dappertutto il sole riapparve radioso e vivificante. Allora Iveonte e gli altri del gruppo ripresero la cavalcata, cercando di guadagnare il tempo che avevano perduto a causa del temporale. Il quale, come abbiamo visto, esternando una violenza distruttiva non di poco conto, li aveva bloccati lungo il loro tragitto.
Nel frattempo, l'ora di mezzogiorno si faceva sempre più vicina e la luminosità nei dintorni era notevolmente accresciuta. I cavalli, che venivano incitati con maggiore impegno nella loro corsa sfrenata, si presentavano grondanti di rivoli di sudore su entrambi i fianchi, oltre che sul petto. Invece le loro bocche schiumavano, simili alle onde del mare che si infrangono rabbiosamente sugli scogli. Per loro fortuna, l'infame Collina della Morte non era molto lontana; anzi, essa già si intravedeva a vista d'occhio in mezzo ad una valle circondata da annosi alberi. Allora Iveonte e i suoi due amici, impegnando al massimo i loro stanchi quadrupedi e sacrificandoli fino all'inverosimile, alla fine superarono il rimanente tratto di strada che ancora li separava da essa.
Giunti ai piedi della collina, Iveonte ordinò a Tionteo e a Speon di scendere dai loro cavalli e di darli in custodia ad Esio; la medesima cosa fece anche lui. Dopo suggerì al giovinetto di appartarsi con le bestie in un luogo meno in vista, volendo evitare che egli venisse scoperto dai Tros, durante la loro discesa dalla sommità della collina. Il giovane eroe era convinto che essi si trovavano ancora sopra il modesto rilievo, poiché erano solamente due le ruote che avevano lasciato le impronte del loro passaggio sul bagnato terreno. Se invece il carro ne fosse già ridisceso, le impronte sarebbero state quattro, due lasciate nel viaggio di andata e due in quello di ritorno. Così, una volta che ebbero affidato le bestie alla cura di Esio, Iveonte e i suoi amici iniziarono la scalata della piccola altura. Essi, però, vollero prendere delle precauzioni per non imbattersi nei Tros, mentre ritornavano dalla loro missione. Perciò, anziché raggiungere la sua cima attraverso l'unico sentiero che conduceva fin sopra di essa, preferirono pervenirvi in modo diverso. Difatti i tre amici iniziarono ad inerpicarsi lungo quel fianco del colle che risultava meno ripido. In verità, il rilievo non superava i cento metri di altitudine; inoltre, le sue pendici erano ricoperte da un manto floristico, il quale consentiva un arrampicamento meno disagevole a chi si proponeva di scalarlo. Nella salita, perciò, lo scalatore poteva servirsi pure di arbusti e di arboscelli che, assegnando anche alle braccia la loro fetta di lavoro, sottraevano ai suoi arti inferiori una parte della pesante fatica, assegnandola invece a quelli superiori.
In pochi minuti, Iveonte, Tionteo e Speon si ritrovarono sul pianoro della collina. Esso, a occhio e croce, era ampio un miglio quadrato e risultava ricoperto da vegetazione prevalentemente arbustiva. Comunque, sulla sua superficie crescevano anche degli altissimi alberi che si presentavano con i tronchi avvolti dalle volubili liane. E siccome la voragine di Zikul era situata al centro di esso, i tre giovani si affrettarono a raggiungerla con una marcia forzata. In prossimità del baratro, però, i tre amici avvistarono i venti Tros che erano ancora impegnati nella loro operazione di trasferimento delle vittime sul suo fondo. Anzi, in quell'istante, essi stavano ultimando la calata dei sei adolescenti lutresi nella fossa del sacrificio. Tionteo allora suggerì all'eroico amico di intervenire, senza indugiare neppure un attimo e farli poi fuori tutti. Perciò gli propose un assalto fulmineo, perché risultasse una sorpresa ai destinatari. Ma Iveonte, essendo in netto disaccordo con lui, gli fece osservare:
«Tionteo, non ti pare che, se li assalissimo adesso, il nostro intervento potrebbe riuscire fatale ai sei ragazzi? Si vede che non hai messo in conto la reazione che si avrebbe nei diciannove Tros, proprio mentre sono intenti a calare giù nel baratro le sei innocenti vittime. Devi sapere che la sorpresa dell'attacco e il naturale istinto di autodifesa potrebbero spingerli involontariamente a mollare la corda, lasciandola andare sul fondo prima del tempo. Ci sarebbero allora delle conseguenze disastrose per coloro che si trovano appesi ad essa. Inoltre, devi sapere che per adesso non intendo affatto eliminare alcun Tros, poiché voglio che ogni cosa si svolga secondo la consuetudine e che a Trosiak si viva senza sospetti fino alla prossima notte di plenilunio. Comunque, non temere perché verrà pure il tempo che essi pagheranno i loro tanti soprusi perpetrati ai danni dei Lutr; invece quello attuale non è il più opportuno. Ti prometto che i malvagi Tros, tra circa un mese, li espieranno anche con gli interessi!»
Il Terdibano dovette riconoscere di essere in errore e, in cuor suo, non poté fare a meno di apprezzare le giuste osservazioni del suo previdente amico. Nel medesimo tempo, dentro di sé ammise che egli sosteneva sempre le sue tesi con valide argomentazioni, le quali non dovevano essere in nessun caso sottovalutate e contestate.
Condotta a termine la loro missione, i Tros intrapresero la via del ritorno, volendo raggiungere il loro villaggio prima di sera. Nel frattempo, a giudicare dai raggi del sole, anche mezzogiorno si stava avvicinando abbastanza. Ad ogni istante, essi andavano diventando sempre più perpendicolari rispetto al suolo, penetrando sempre di più nella voragine del mostro. Anzi, i medesimi avrebbero toccato il suo fondo giusto a mezzogiorno, quando lo avrebbero anche illuminato a giorno. Da parte sua, Iveonte giustamente intendeva trovarsi nel fondo del baratro, prima che fosse sopraggiunto tale momento, poiché esso coincideva con il risveglio del mostruoso Zikul. In caso contrario, i sei adolescenti lutresi sarebbero andati irrimediabilmente perduti, venendo meno ai loro cari. Ma quando i Tros ebbero lasciato la Collina della Morte, Iveonte e i suoi amici si sbrigarono ad impadronirsi di una decina di resistenti liane, alcune delle quali superavano perfino i venti metri. Dopo averle annodate fra di loro, ne ricavarono una sorta di corda lunga quasi centocinquanta metri. Una tale lunghezza, a parere di Iveonte, sarebbe stata più che sufficiente a fargli raggiungere il fondo del baratro. Così, di lì a poco, avendo prima saggiato la resistenza della corda ottenuta con le varie liane, il nostro eroe ricavò da un capo di essa un nodo scorsoio, nel quale fece poi entrare il suo tronco fino all'altezza delle ascelle, in modo che esso risultasse ben stretto dal rudimentale cappio. Solo a quel punto, egli stabilì di farsi calare giù nella voragine dai due amici, i quali si diedero a farlo con molta accortezza; ma intanto che lo vedevano scomparire dentro di essa, si mostravano in preda all'ansia.
In precedenza, Iveonte li aveva anche avvisati che il segnale di ciascuna alzata sarebbe stato uno scuotimento frenetico della corda, visto che egli lo avrebbe impresso su di essa quando occorreva. Come pure li aveva avvertiti che, non appena avesse raggiunto il fondo della voraginosa cavità, Speon avrebbe dovuto raggiungere senza indugio il luogo dove era riparato Esio e ritornarne in fretta con lui e con i loro cavalli. A suo giudizio, in un primo momento, le bestie sarebbero servite a sollevare i giovinetti lutresi con la corda dei Tros per farli smettere di penare. In un momento successivo, invece, anch'egli avrebbe usufruito dello stesso servizio, in quanto il canapo avrebbe offerto migliori garanzie e maggiore affidabilità della loro corda, la quale era stata ricavata con le liane.