261-L'ADOLESCENTE ESIO GIUNGE NEL CAMPO DI IVEONTE

Era già trascorsa una settimana, da quando Iveonte, Tionteo e Speon avevano lasciato il villaggio di Polsceto e nessuno dei pericoli citati dal giovane borchiese si era ancora fatto vivo sul loro cammino. Tranne che in pochi tratti, costituiti da acquitrini e paludi, si poteva affermare che il loro viaggio era risultato piacevole ed interessante. Anche perché Iveonte e Tionteo, nell'attraversarli, avevano avuto modo di conoscere ambienti naturali totalmente nuovi. I quali, alcune volte, si erano perfino presentati di una suggestività sorprendente, che entrambi non avevano mai goduto fino allora. Adesso che ci ricolleghiamo ai tre giovani, la natura veniva invasa dal tramonto di una splendida giornata autunnale. Invece essi si riposavano in una rada boscaglia, avendo affrontato durante il giorno un tragitto lungo e difficile. Infatti, c'era stato l'attraversamento della seconda palude, la quale era risultata molto disagevole. Esso era costato a tutti e tre parecchia fatica e alla fine li aveva stancati in maniera considerevole. Per la verità, erano stati i loro cavalli a subire i maggiori disagi in quella traversata, soprattutto siccome erano diventati i continui bersagli delle femmine dei tafani, le quali erano state sempre pronte a succhiare il loro sangue.

In quella serata, mentre si rifocillavano con il cibo a loro disposizione, i tre giovani preferivano conversare su svariati argomenti. Durante la sobria conversazione, ad un certo punto, Iveonte, al fine di rendersene conto il meglio possibile, domandò al Borchiese loro amico:

«Quali territori stiamo attraversando adesso, Speon? Se ne sei al corrente, vuoi darci notizie più dettagliate sulle genti che li abitano? A me e a Tionteo farebbe molto piacere apprenderle.»

«Iveonte, le terre, attraverso le quali stiamo transitando attualmente, non appartengono a nessun popolo. Esse formano una lunga fascia di territorio che viene ad interporsi tra il Bosco dei Gemiti e il villaggio di Calput. Invece, sul nostro lato destro, ad una decina di miglia dal nostro percorso, dovrebbe essere situato il villaggio di Lutriak. In quest'ultimo, se devo esserti sincero, non ci sono mai stato di persona; ma fu il mio defunto genitore a mettermi a conoscenza della sua esistenza. Egli mi disse anche che una volta c'era capitato per caso ed aveva trovato i suoi abitanti assai ospitali e cordiali, benché fossero vittime di numerose sventure. Di esse, comunque, mio padre mi parlò vagamente, senza soffermarsi su di loro più di tanto. Perciò, siccome egli non me ne parlò in modo specifico, non saprei cos'altro aggiungere in riferimento al laborioso popolo dei Lutr.»

«In verità, Speon, non ci interessa avere maggiori dettagli su tale popolo, dal momento che non verremo ad incontrarlo sul nostro cammino. Inoltre, noi abbiamo anche fretta di raggiungere la nostra remota meta.»

Iveonte tese a porre fine a quell'argomento, essendosi già fatta notte da parecchio tempo e bisognava darsi al sonno ristoratore con sollecitudine. Nello stesso tempo, il giovane invitò i due amici a riposarsi con una bella dormita, poiché essa avrebbe giovato molto al loro fisico. Invece egli rimase sveglio a fare il primo turno di guardia, ad evitare che degli individui malintenzionati potessero derubarli dei loro cavalli. Inoltre, secondo lui, poteva sempre esserci qualcuno nelle vicinanze che fosse intenzionato a sorprenderli nel sonno, essendosi proposto di fare loro del male. Era stata quella la ragione, per cui i tre amici si erano messi d'accordo di avvicendarsi nella veglia durante le ore notturne. Ad ogni modo, la notte trascorse alquanto tranquilla, poiché la calma e il silenzio avevano predominato in ogni parte di quella boscaglia. Le stelle, invece, si erano date a luccicare vivamente nel cielo ed avevano vegliato su di essa, perché nulla venisse a disturbarla nel tenebrore della notte.

Quando infine sopravvennero i primi albori del giorno, Speon, essendogli toccato l'ultimo turno, era il solo a rimanere ancora desto, intanto che i suoi due amici continuavano a dormirsela profondamente. Il giovane, ad evitare di farsi sorprendere dal sonno ingannatore, faceva lavorare il suo cervello, riconducendosi con la mente ai tanti ricordi del passato. Egli, però, non poteva che rammentare cose brutte e tristi. Suo padre Vusto, la sua dolce Cresia, il suo caro amico Burdino e la povera Tirna si erano messi a volteggiare davanti ai suoi occhi, su uno sfondo di crudeltà e di ferocia. Gli sventurati erano stati tutti e quattro barbaramente massacrati dai fratelli Kirpus. Perciò, di fronte a tali spettrali visioni, Speon inorridiva e fremeva di sdegno. Soprattutto avrebbe voluto che quelle barbare uccisioni non fossero mai avvenute nel proprio villaggio. Infatti, se le quattro persone trucidate a lui tanto care fossero state ancora in vita, in quel momento esse si sarebbero ritrovate a condurre la loro normale esistenza in Borchio, insieme con lui e con tutti gli altri loro conterranei, vivendovi felici e sereni.

Poco tempo dopo, per sua fortuna, qualcosa venne a sottrarre l'afflitto Speon a quell'atmosfera macabra, nella quale si andava agitando con rimpianti acerbi e con profonde trafitte al cuore. Uno scricchiolio di foglie secche, infatti, attrasse il giovane e gli fece tendere bene le orecchie. Egli intendeva rendersi conto da quale direzione esso provenisse. Alla fine ebbe la certezza che dei passi leggeri, avvicinandosi al loro campo dalla parte opposta da cui egli e i suoi amici erano provenuti. Essi segnalavano la presenza di qualcuno che si muoveva nelle vicinanze, anche se non se ne conoscevano il motivo o l'intenzione. Quando poi si furono avvicinati abbastanza, tutto in una volta, quei passi cessarono di farsi udire. A quel fenomeno strano, essendo divenuto sospettoso, Speon ritenne opportuno svegliare immediatamente i suoi due amici e metterli al corrente di quanto gli era capitato di ascoltare. Egli, però, si mostrò molto cauto nel fare ciò, non volendo che si accorgesse dei suoi movimenti qualcuno si trovava a pochi metri da loro e li stava anche spiando. Iveonte, da parte sua, dopo essere stato destato dal Borchiese, il quale lo mise pure al corrente di quanto aveva udito alcuni attimi prima nella vicina boscaglia, parlando sottovoce, si diede a far presente a Tionteo e a Speon:

«Amici, è probabile che qualcuno in questo momento ci tenga d'occhio. A mio avviso, per il momento il nostro visitatore è solo e si sta limitando soltanto a studiare la nostra situazione. Assai presto, però, egli potrebbe decidere di andare a chiamare dei rinforzi, allo scopo di aggredirci. Ma noi non gli daremo l'opportunità di farlo, poiché andrò a sorprendere lo sconosciuto, intanto che continua a spiarci. Così non gli permetterò di lasciare questi luoghi e perseguire i propri fini malvagi. Quindi, mentre voi ve ne restate nel campo a vigilare che nessuno vi penetri di soppiatto, io vado a scovare chi ci sta sorvegliando. Adesso vado a coglierlo alle spalle di sorpresa, mentre non se lo aspetta per niente.»

Di lì a poco, il nostro eroe, senza attendere altro tempo, si mise alla ricerca dell'ignoto visitatore notturno, al fine di farlo prigioniero e di condurlo nel loro campo per interrogarlo sulle sue reali intenzioni. Naturalmente, egli si stava avvalendo delle indicazioni che l'amico Speon gli aveva fornito, per aggirare e sorprendere il loro visitatore di primo mattino. A suo parere, la sua presenza in quei paraggi a quell'ora insolita poteva dare adito soltanto a sospetti. Invece, raggiunto il presunto posto dove ci sarebbe dovuto essere nascosto colui che li spiava, Iveonte scorse un giovinetto seminudo, il quale era profondamente addormentato sopra l'arido fogliame. A quella visione, senza esitazione, egli lo sollevò da terra e, reggendolo poi sopra le sue granitiche braccia, decise di portarselo nel loro campo. In quel modo, era certo che anche il rattrappito corpo del ragazzo avrebbe goduto dei benefici che gli sarebbero derivati dalla vicinanza al fuoco. Fatto poi presto ritorno presso i suoi amici, i quali erano in attesa degli sviluppi della situazione, Iveonte, evitando bruschi movimenti, adagiò a terra lo sconosciuto adolescente, ad un metro di distanza dal fuoco. Ma il bagliore delle volubili fiamme all'istante lo scossero dal sonno, a cui egli si era concesso poco prima.

All'inizio, il poveretto cominciò a stropicciarsi ripetutamente gli occhi; pochi attimi dopo, fece guizzare delle rapide occhiate intorno a sé. Avendo poi scorto i tre giovani, mentre erano intenti a bersagliarlo con i loro sguardi curiosi, l'adolescente scattò all'improvviso come un topo e tentò una rapida fuga. Tionteo, però, non gli permise di fuggire e di allontanarsi da loro. Giocando di anticipo, tempestivamente riuscì a bloccarlo e ad immobilizzarlo giusto in tempo. Allora, alla salda presa del giovane, il ragazzo si diede ad urlare, a dimenarsi, a lamentarsi e a disperarsi. Nel contempo, andava pronunciando frasi slegate, come quelle che si riportano qui appresso: "Non uccidetemi! Non voglio morire! Evitatemi il supplizio di Zikul! Permettete anche alla mia sorellina di vivere! Non ci separate dai nostri amabili genitori, che ci vogliono un mondo di bene e soffrirebbero, se ci lasciaste morire!" Ma Iveonte, alle molte lamentele del giovinetto che si riferivano a cose orribili, subito intervenne a riprenderlo:

«Chi ti ha detto che ti vogliamo uccidere, ragazzo?! Noi non sappiamo neppure chi sei! Forse ci hai scambiati con persone da te ritenute malvagie, alle quali non vogliamo assomigliare nemmeno nell'aspetto esteriore! Devi invece sapere che siamo contro chiunque voglia sopraffare il prossimo e prendiamo le difese di coloro che ne sono oppressi. Perciò, siccome anche tu non puoi essere che una persona perseguitata, faremo del nostro meglio per liberarti dagli incubi, che vengono a causarti coloro che intendono opprimerti. A proposito, vuoi dirci il tuo nome? Il mio è Iveonte, mentre quelli dei miei compagni sono Tionteo, colui che ti ha bloccato, e Speon, che è l'altro mio amico. Adesso ti sei convinto che non siamo le persone con i quali ci hai scambiati e che invece desideriamo unicamente il tuo bene?»

Le parole rassicuranti del nostro eroe fecero chetare un poco lo spaventato ragazzo e lo spinsero alla riflessione, dalla quale uscì affrancato da ogni sospetto verso il proprio interlocutore e verso i suoi due amici. Egli si persuase che si trovava di fronte ad anime pie, che si prefiggevano solamente il suo bene. Per questo decise di concedere ai tre forestieri la sua massima fiducia; ma ciò non bastò a farlo sorridere e a privarlo di tutta la sua pena interiore. Lo dimostrava il suo sguardo smarrito: esso seguitava a restare ancorato ad una tragedia terribile. Il cui pensiero faceva incupire il suo animo e gli straziava il martoriato cuore, che continuava a penare. Allora Iveonte non ci mise molto tempo a penetrare la psiche del giovinetto, per cui lo invitò a mostrarsi più aperto con loro e a metterli al corrente delle tante sofferenze, le quali non smettevano di attanagliarlo interiormente. Gli promise perfino che, qualora avessero potuto estirpargliele, ben volentieri si sarebbero prodigati per lui e lo avrebbero aiutato a liberarsene.

Il giovinetto indigeno, dopo averli ringraziati per i loro propositi di disinteressato altruismo, incominciò a parlare di sé e del suo popolo ai suoi benefattori. Almeno per adesso, si prefisse di farlo soltanto per sommi capi, non volendo dilungarsi più del necessario e risultare così noioso.

«Io mi chiamo Esio e tengo a precisarvi che quanto vi proponete di fare a favore mio e della mia gente è una cosa irrealizzabile. Il male, che è dentro di me, nessuno mai potrà estirparmelo radicalmente e portarmelo via. Se fosse soltanto la mia pena a farmi soffrire tantissimo, allora sì che il mio patimento sarebbe di sicuro più tollerabile! Al contrario, è l'immane sofferenza dell'intero mio popolo a giganteggiare nel mio animo angosciato, martoriandolo con crudeltà disumana. Io l'avverto in me trafittiva e lacerante, la trovo ingiusta ed abominevole, la considero innaturale e mostruosa. Ecco perché mi dispero, mi angustio e non riesco a darmi pace. Mi vado anche chiedendo perché mai il destino si è voluto mostrare così spietato verso il mio popolo, accanendosi contro di esso che peggio non è possibile! Allo stesso tempo, mi domando perché l'occhio benigno di qualche divinità misericordiosa non si è mai posato sulla mia tribù, riscattandola da quelle sventure che da secoli la bersagliano senza pietà. Ma io, forestieri, non riesco a rispondere a tali mie domande. Se invece voi siete in grado di dare le giuste risposte ad esse, vi prego di darmele, per favore!»

«Non ci sono neppure in noi, Esio, le risposte ai vostri problemi.» gli fece presente il giovane eroe «Comunque, se ci provi, forse potrai spiegarci tu qualcosa in merito, dal momento che hai avuto modo di viverli da vicino e di sopportarli per anni! Allora intendi farlo oppure no?»

«Secondo me, Iveonte, noi ce lo siamo meritato il nostro castigo, per esserci sempre rifiutati di venerare e di pregare le divinità, essendo dell'idea che esse non esistono. Così, a causa del nostro atteggiamento ateistico, adesso ci ritroviamo a vivere una esistenza disperata e maledetta, per cui non ci commiserano neppure le bestie! Per tutti noi, essa rappresenta allo stesso tempo dolore e vergogna; né potrà mai ispirarci il senso della rassegnazione. In me, come negli altri abitanti del mio villaggio, potranno esserci sempre e soltanto sdegno e rabbia, a causa della travagliata esistenza che siamo costretti a condurre meschinamente. Ad ogni modo, la disperazione maggiore ci proviene dalla convinzione che la nostra vita attuale non può essere che la conseguenza della maledizione delle divinità. Essa, facendocela ritenere un gravoso fardello del nostro destino, ce la presenta come qualcosa di ineluttabile, oltre che come un marchio infamante ed incancellabile per tutti noi!»

«Per favore, Esio, vuoi dirci di cosa si tratta realmente?» Iveonte invitò il ragazzo ad essere più esplicito «Così dopo potremo comprenderti meglio. Ammesso poi che ci sarà possibile, come già ti abbiamo assicurato, ci adopereremo per privare di tanto strazio sia te che la tua gente. Puoi essere certo che ci riusciremo senza meno!»

«Invece, giovani generosi, eccetto che comprenderci e mostrarci la vostra penosa pietà, compiangendoci tristemente nell'intimo, voi non potete fare niente altro a vantaggio mio e dei miei conterranei. Ve ne convincerete, dopo che vi avrò narrato la terribile sorte, della quale da tempo immemorabile rimane vittima il mio popolo.»

«Non ti preoccupare di niente, Esio,» Iveonte gli rispose «perché saremo noi a decidere ciò che possiamo e ciò che non possiamo fare a vostro vantaggio. Devi sapere che una impresa, la quale è da te ritenuta impossibile, potrebbe non essere reputata tale da altri. Ecco perché non ti devi lasciare influenzare da nessun tuo pregiudizio, fino ad amareggiarti di esso. All'inverso, devi porre più fiducia nelle capacità potenziali delle altre persone, specialmente di quelle che intendono prendersi a cuore la vostra causa. Per ora posso soltanto garantire a te e al tuo popolo che le nostre possibilità di sconfiggere i vostri oppressori sono abbastanza considerevoli. Dunque, la speranza di un vostro imminente riscatto da loro inizi a nascere in voi, affinché la coltiviate con fiducia già da adesso. Dopo averti chiarito queste cose, puoi darti a parlarci della plurisecolare disperazione della tua gente e delle cause che gli danno origine nel vostro animo, facendovi soffrire enormemente!»

Fu così che l'adolescente Esio accettò di raccontare, con tono mesto, la storia della sua sventurata gente. Senza esagerazione, si trattava dell'agghiacciante tragedia di un popolo inesorabilmente perseguitato da un destino perverso ed inflessibile. Noi, mentre ne apprenderemo le varie indescrivibili sventure, non ce ne resteremo con gli occhi chiusi, con le orecchie turate e con il cuore stipato di indifferenza. Esse, come appureremo tra poco, ci risulteranno così ignominiose e truculente, da superare il limite della sopportazione umana. Per tali ragioni, da parte nostra, potrà esserci soltanto il biasimo e la condanna totali verso simili atti, i quali ci si dimostreranno oltremodo nefasti e crudeli.