251°-TUSCO FONDA LA SETTA DELLE TESTE DI LUPO

Nei grandi disegni di Tusco, in primo luogo veniva l’edificazione di un tempio in modo ineccepibile, nel quale si sarebbe dovuto adorare il Grande Lupo, proprio come se esso fosse una vera divinità con tutte le carte in regola. C’era poi l’ideazione di una setta di fanatici, i quali, oltre a costituire il braccio esecutore dei suoi ordini, principalmente avrebbero dovuto rappresentare la parte attiva e concretizzatrice dei principi e dei precetti sanciti dalla sua dottrina. Quindi, ci conviene venire a conoscenza dell’intero apparato religioso, che il licantropo era stato in grado di mettere in piedi, allo scopo di perseguire gli obiettivi programmati nella parte teorica della sua religione. In questa maniera, verremo ad avere un tale numero di notizie in merito ad esso, da farcelo intendere meglio nei suoi principi cardini. Così, molto sicuramente, esse ci permetteranno di seguirlo senza alcuna difficoltà nella sua pratica attuazione.

Tusco, nell’elaborare la sua dottrina religiosa, non aveva voluto ricavare da essa una summa di precetti e di dettami, perché avesse una impronta di rigorosa scientificità. Invece si era limitato a trarre dalla sua elaborazione di natura teologica solo poche pagine teoriche. Esse, nello stesso tempo, avrebbero dovuto esprimere appieno l’essenza del suo credo religioso. Per tale motivo, nella sua pratica attuativa, sarebbe dovuta provenire da essa una esplicita indicazione sia dei vari comandamenti basilari, che gli adepti della sua religione sarebbero tenuti ad osservare; sia dei compiti, dei quali i futuri affiliati avrebbero dovuto farsi carico con spirito di abnegazione. Stando così le cose, innanzitutto ci conviene venire a conoscenza dei fondamenti della religione di Tusco. In special modo, ci si impone di apprendere il suo intero apparato sacro, quello che aveva messo in piedi, al fine di fare esplicare concretamente la sua dottrina e di permetterle di assumere quel minimo valore di sacralità. A suo parere, soltanto dandole quella rigida impostazione, la sua dottrina sarebbe assurta alle più alte vette della religiosità.

La religione ideata dal figlio di Bulkar era imperniata sull’essere del Grande Lupo, da lui elevato al grado di divinità. Avendola impostata in quella maniera, egli consentiva al suo sé bestiale una esistenza, senza compromettere la vita degli altri esseri viventi. Tale suo scopo, però, doveva restare nascosto a quanti avrebbero aderito al suo credo religioso; altrimenti, il suo bel progetto di imbrigliare il mostro assassino sarebbe fallito già sul nascere. Esso, per metà della sua esistenza, veniva a sostituire la nobile persona che era in lui, nella quale egli intendeva esclusivamente riconoscersi. Ad ogni modo, pur ruotando la sua dottrina religiosa intorno al suo essere mostruoso, Tusco non aveva potuto fare a meno di lasciarla radicare in talune forme mistiche del tutto esotiche. Queste, infatti, provenivano in buona parte da altre religioni, sebbene a volte si discostassero dall’idea dominante che permeava il suo progetto. Perciò quest'ultimo, nello stesso tempo, era da considerarsi egoistico ed altruistico. Per tutti gli iniziati della setta, dunque, il Grande Lupo veniva a rappresentare l’eccelsa divinità, i cui voleri andavano assecondati da loro sempre ed ovunque. Ciò, anche quando i medesimi risultavano discordanti dai principi morali della propria coscienza! Gli adepti, secondo i suoi obiettivi, in un certo senso, dovevano annichilirsi nel proprio io interiore e vivere unicamente in funzione del Grande Lupo, come se fossero parti integranti del suo corpo smisurato. Perciò era loro dovere comportarsi allo stesso modo delle braccia di un uomo, le quali in lui operavano e portavano ad effetto i vari desideri espressi dalla sua mente, senza mai opporsi ad essa.

Nella setta, i lupenti erano le sagaci persone preposte all’opera di spersonalizzazione e di plagio delle coscienze dei neofiti. Per la quale ragione, essi dovevano considerarsi dei veri e propri sacerdoti, che erano secondi soltanto al fondatore della loro religione, che era Tusco. Difatti costui, in seno al suo apparato religioso, si faceva chiamare Venerabile Servitore del Grande Lupo e gli si doveva il massimo rispetto da parte di tutti i fedeli. Il lupismo, come appunto era chiamato il movimento religioso fondato dal licantropo, non era, e nemmeno intendeva esserlo, una religione di massa. Ma alla luce delle ragioni che avevano indotto Tusco a partorirlo, esso si proponeva come una setta religiosa di pochi eletti e, per giunta, a numero chiuso. Perciò l’intero suo apparato era composto dal Venerabile Servitore del Grande Lupo e da trenta lupenti. Costoro, come già appreso, erano i sacerdoti che lo coadiuvavano nelle varie funzioni sacre; però avevano anche il compito di iniziare i nuovi seguaci della setta. Le cinquecento Teste di Lupo, le quali erano alle dirette dipendenze della casta sacerdotale, costituivano invece la sola parte laica del lupismo. Esse avrebbero dovuto difendere fisicamente i sacerdoti, ogni volta che ci fosse stata la necessità.

Il Venerabile Servitore, dunque, occupava il vertice dell’intera gerarchia settaria. Egli aveva il compito di officiare, in veste di decano o Sommo Sacerdote, le diverse funzioni sacre previste in tale ordinamento religioso, che avremo modo di conoscere più avanti. Per il momento, ci basta sapere che, durante il loro svolgimento, collaborava con lui la pleiade dei lupenti. I quali lo assistevano nelle varie cerimonie religiose con particolare fervore e con la dedizione più assoluta, esattamente come veniva richiesto da loro tutti. Essi avevano altresì l’alto compito di preparare ai loro futuri doveri le nuove Teste di Lupo che avrebbero dovuto surrogare quelle che fossero venute meno per qualche motivo. L’opera dei Lupenti, dunque, si rivelava abbastanza delicata, per il semplice fatto che essa veniva a scandagliare la psiche di quanti erano destinati a tale compito, al fine di plasmargliela, secondo la visione finalizzata dei plasmatori. La quale mirava ad annientarli come coscienze pensanti individuali ed autonome per ricavarne delle essenze massificate ed acquiescenti disposte a tutto, pur di ubbidire ciecamente alla volontà del Grande Lupo. Come abbiamo appreso, anche le Teste di Lupo presenziavano le funzioni religiose, ma il loro compito primario era un altro. Esse, all'occorrenza, dovevano operare delle irruzioni notturne nelle abitazioni prescelte di alcuni villaggi limitrofi. Nelle quali dovevano rapire le vittime designate, le quali erano sempre delle ragazze vergini che non dovevano superare l’età di venti anni. Quanto ai motivi che li spingevano ad effettuare tali incursioni, anch’essi saranno rivelati al momento opportuno. Comunque, possiamo anticipare che la loro rivelazione avverrà, quando sarà messa in luce l’intera vicenda connessa alla religione di Tusco.

Adesso, invece, ci renderemo conto di come la setta delle Teste di Lupo riusciva a sostenersi, stando attenta ad evitare quelle crepe profonde, le quali avrebbero potuto minare le basi dell’intero suo apparato e provocarne la definitiva scomparsa. Allora non era ipotizzabile che essa portasse avanti la sua esistenza, lasciando che nella loro comunità venissero a mancare del tutto le donne, la cui presenza era richiesta per molteplici motivi, che tra breve si passerà ad illustrare. Perciò, fin da questo istante, prepariamoci ad attenderci, accanto alle Teste di Lupo, anche la componente femminile, considerato che essa avrà in seno alla setta un ruolo non di poco conto. Infatti, pure le donne erano investite, loro malgrado, di specifici compiti, i quali, in un certo qual modo, erano da considerarsi vitali per la sopravvivenza della stessa setta. Pure le loro mansioni saranno prese in considerazione in una fase successiva, ossia dopo che saremo venuti a conoscenza del cerimoniale liturgico, poiché esso veniva seguito quotidianamente dalla totalità dei membri della setta. A proposito di tale cerimoniale, nell'arco della giornata, esso prevedeva due funzioni: quella mattutina e quella vespertina.

La funzione del mattino aveva inizio al primo sorgere del sole, cioè quando esso cominciava ad indorare il cielo dell’alba con i suoi nascenti raggi. In quel momento preciso, i lupenti, indossando dei ricchi paramenti sacri e, procedendo in duplice fila, uscivano dal tempio preceduti dal Venerabile Servitore. Dopo la loro uscita dal luogo sacro, mentre il decano andava ad occupare il posto che gli spettava e che era situato presso l’altare del sacrificio, le due file di sacerdoti, svoltando l’una a destra e l’altra a sinistra, intraprendevano l’itinerario previsto dal rito processionale. Esso prevedeva tre giri completi intorno all’area perimetrale del tempio, i quali dovevano essere svolti dai sacerdoti lungo l'intero porticato che circondava il sacro edificio. Durante tali giri, le Teste di Lupo, tenendo il capo nascosto in una testa di lupo impagliata, stavano di sentinelle intorno al tempio. Ciascuna di loro, standosene con la schiena ritta contro il fusto rastremato e scanalato di una colonna, con una mano imbracciava lo scudo e con l’altra reggeva un’asta lunga due metri o poco meno. Esse, però, non se ne restavano impalate in quel posto fino al termine della cerimonia. Invece attendevano che venissero completati i tre circuiti dai sacerdoti, i quali li effettuavano salmodiando, percuotendo cembali e spargendo essenze odorose con i loro turiboli. Soltanto allora le Teste di Lupo abbandonavano il posto di guardia ed andavano a disporsi in cerchio intorno al gruppo dei paludati lupenti. Costoro, com’era previsto dal cerimoniale, al termine del loro corteo che si presentava vistosamente e rumorosamente attraente, andavano a raccogliersi intorno all’altare del sacrificio, il quale era situato al centro del sagrato del tempio. Esso aveva alla sua destra un gigantesco braciere acceso, che era profondo un metro ed aveva un diametro triplo, rispetto alla sua profondità. Alla sua sinistra, invece, si scorgeva un pozzo dalla bocca rettangolare, la quale aveva come dimensioni ottanta e cento centimetri. Su di essa era sovrapposta una griglia metallica basculante, le cui dimensioni erano leggermente superiori, per cui la si poteva alzare al bisogno, facendola girare intorno ad un asse di ferro fissato sopra uno dei lati maggiori.

Prima di proseguire a parlare dello svolgimento della funzione mattutina, occorre ancora far presente un particolare del lupismo. Nella sua religione, Tusco aveva voluto mettere in risalto lo stretto rapporto di parentela esistente tra il Sole e il Grande Lupo. Egli, nell’esposizione dottrinale che concerneva la religione da lui fondata, aveva enfatizzato proprio questo aspetto. Secondo il quale, il Sole era l’entità divina dominante, poiché poteva tutto e rendeva perciò esistente il mondo intero. Invece la sua consorte era la dea Selenes, dalla quale era nato il suo unigenito Adok. Costui, dopo essere sceso sulla terra, si era incarnato nel Grande Lupo. Per il quale motivo, la spropositata bestia, risultando anch'essa una divinità di prestigio, in quanto figlio del sommo dio Sole, doveva essere adorata da tutti gli esseri umani con la devozione più fervida e con la massima dedizione. Se qualcuno invece si ricusava di farlo, i peggiori mali sarebbero piovuti dal cielo sopra di lui, trasformandogli l’esistenza in un vero calvario. Ma ora ritorniamo alla sacra funzione religiosa, che sta per svolgersi.


Quando tutti i lupenti e le Teste di Lupo venivano a trovarsi intorno all’altare del sacrificio e vi restavano in intimo raccoglimento, il Venerabile Servitore prima allungava verso il cielo entrambe le braccia; immediatamente dopo, incominciava a rivolgersi al Sole, proferendo con tono invocativo la seguente preghiera: "Onnipossente dio Sole, che rendi maestoso l’universo con la tua sfolgorante luce e rendi feconda la terra con il tepore dei tuoi raggi, noi ti osanniamo e ti adoriamo alla pari del tuo divino unigenito Adok. Ma ti imploriamo soprattutto, affinché il tuo divino rampollo accresca nel mondo degli esseri umani il suo splendore e la sua potenza. Inoltre, grazie a te, viva egli a suo agio nel corpo del Grande Lupo, nel quale di sua spontanea volontà si è voluto incarnare! Da parte nostra, tenendo fede ai patti convenuti con il prediletto tuo figliolo, di buon mattino eccoci di nuovo puntuali al nostro primo appuntamento quotidiano con te, allo scopo di offrirti in sacrificio una giovane vacca mai montata da nessun toro. Gloria a te, divino Sole, e non manchi mai la forza al tuo divino unigenito Adok, il quale, dopo essere venuto in mezzo a noi, si è incarnato nel Grande Lupo!"

Terminata la sua orazione, gli facevano eco i lupenti e le Teste di Lupo, che si davano a gridare con tono declamatorio: "Gloria a te, divino Sole, e non manchi mai la forza al tuo divino unigenito Adok, il quale, dopo essere venuto in mezzo a noi, si è incarnato nel Grande Lupo!"

Nei quindici giorni, nei quali i due riti religiosi venivano dedicati al dio Adok, necessariamente la preghiera mattutina veniva a subire una sostanziale modifica. Per questo essa diventava: "Grande Lupo, che sei l’incarnazione del dio Adok, figlio del dio Sole, in cambio del nostro sacrificio quotidiano, placa la tua collera contro i tuoi devoti adoratori e rinuncia alla tua brama di renderci vittime di una tua cruenta carneficina. Gloria a te, figlio del sommo Sole, il quale è il tuo divino genitore!" Inoltre, come avveniva nella precedente preghiera, l’ultima frase del Venerabile Servitore era ripetuta con enfasi dai lupenti e dalle Teste di Lupo, i quali la recitavano con sentita devozione.

Stando ai patti menzionati dal Sommo Sacerdote, nei freschi mattini che intercorrevano tra un novilunio ed un plenilunio, doveva essere sacrificata al dio Sole una giovenca, che non aveva ancora partorito. Mentre, in quelli intercorrenti tra una luna piena ed una luna nuova, bisognava sacrificare una vacca al suo divino figlio Adok. In questo modo soltanto, si riusciva a placare la sua ira contro gli uomini e a persuaderlo a rinunciare a farne una grandissima strage. Ovviamente, la giovenca destinata alla divinità del Sole, dopo essere stata eviscerata e macellata, veniva fatta bruciare nel grande braciere del sacrificio. Invece la vacca destinata al Grande Lupo, una volta privata dei visceri, decapitata e macellata, veniva gettata nel pozzo del sacrificio, dovendo essa servire a nutrire il divino lupo, anche se non in modo abbondante.

A questo punto, avendo chiarito i vari particolari inerenti ad essa, possiamo proseguire nella presentazione della funzione sacrificale del mattino, portandola così a termine. Ebbene, dopo l’orazione pontificale, tre macellai, salendo l’ampia scalea con la vittima animale, cominciavano a farsi avanti in direzione dell’altare del sacrificio. Raggiunto poi il sagrato, la giovenca o la vacca (a seconda della funzione in atto) veniva immobilizzata mediante degli spezzoni di resistente corda, i quali tenevano strettamente legate le sue quattro zampe ad altrettanti anelli di ferro. I quali risultavano già fissati sull’acciottolato della sacra spianata, fin dagli esordi del lupismo. Stando legata, la bestia veniva scannata con un colpo di trinciante ben affilato ai giuguli. Esso era inferto alla bestia da uno dei tre forzuti macellai, allo scopo di reciderle con un taglio netto le vene giugulari, che erano situate ai due lati del collo. La giugulazione, provocando nel suo organismo una emorragia acuta, arrecava alla vittima animale una morte rapida e con il minimo di sofferenza. Difatti l’animale domestico, dopo essersi dibattuto per un paio di minuti, ma sempre rimanendo nella sua posizione eretta, all'improvviso lo si scorgeva prima barcollare sulle sue quattro instabili zampe e poi stramazzare al suolo, privato totalmente di ogni forza e della vita.

Durante l'intero tempo in cui il bovide veniva dissanguato dall’abbondante perdita di sangue, che sgorgava copioso dal profondo squarcio della ferita, i lupenti non smettevano neppure per un attimo di suonare i loro cembali. Ma va precisato che il vermiglio liquido dell’impotente quadrupede non veniva fatto cadere per terra; invece esso si riversava dentro un bigoncio, il quale era stato messo sul pavimento verticalmente al suo collo, appunto per raccoglierlo nel suo interno. Per ottenere ciò, gli altri due macellai, dopo aver afferrato la bestia per le corna, badavano a tenerla ben ferma per l'intero tempo della sua lieve agonia. Solo dopo che la vittima sacrificale era crollata per terra esanime, i macellai liberavano le sue zampe dagli spezzoni di corda che le tenevano legate agli anelli. In seguito iniziavano a macellare la bestia, riducendola con i loro grossi coltelli in tanti brandelli, che andavano poi a gettare nel grande braciere, dove si assisteva al continuo agitarsi delle volubili fiamme di fuoco. Mentre poi le carni bruciavano, i lupenti si liberavano dei loro cembali e, formando una fila, si davano ad assaggiare il sangue ancora tiepido raccolto nel recipiente di legno. Ciascuno di loro ne beveva tanto, quanto riusciva a contenerne il mestolo di legno con cui veniva attinto. L'arnese veniva poi riposto accanto al contenitore del sangue, dovendo permettere agli altri sacerdoti di compiere la stessa azione.

In riferimento alla funzione della sera, va subito detto che essa veniva celebrata nel tempio e vi prendevano parte le medesime persone che avevano presenziato quella mattutina in base ai loro titoli. Questa volta c'erano anche le lupiadi. A questo punto, ne approfittiamo per descrivere la parte interna della sacra costruzione, come già è stato preannunciato in precedenza, in una diversa circostanza del nostro racconto.

L’interno templare era costituito da una unica navata rettangolare, che aveva la volta a capriate. Essa, che era lunga venti metri, larga dieci e alta sei, confluiva in un presbiterio a pianta esagonale, il quale aveva come superficie laterale sei pareti rettangolari con dimensioni dieci e sei metri. Quanto alla parete rivolta ad est, essa risultava mancante, siccome al suo posto c’era un arco a tutto sesto, il quale poggiava su due piedritti alti poco più di un metro. L’ampia arcata metteva in comunicazione il presbiterio con la navata. In relazione alla volta presbiteriale, che riproduceva un esagono regolare, come il pavimento, essa si presentava piana per buona parte. Al centro, però, la medesima lasciava intravedere una cupola emisferica avente il diametro di sei metri, la quale, a sua volta, era sormontata da un tiburio prismatico di forma esagonale. Opposta all’arco, c’era la parete occidentale; mentre le altre due coppie di pareti contigue, che formavano ciascuna un diedro, erano rivolte l’una a nord-ovest e l’altra a sud-ovest. L’accesso al tempio era possibile solamente dal lato orientale, dove si trovava il suo unico ingresso, che permetteva di entrarvi.

In riferimento all’altare, esso risultava eretto a tre metri di distanza dalla parete occidentale, la quale, a sua volta, ospitava centralmente una nicchia quadrata, profonda dieci centimetri ed avente il lato di quattro metri. Al suo interno, in posizione centrale e con un diametro di tre metri, spiccava il dipinto di una grossa luna piena color d’oro, la quale giaceva sopra uno sfondo blu notte costellato di tante stelle argentate. Inoltre, al centro della superficie lunare, risaltava una grande testa di lupo: essa si presentava rossastra e raffigurava il dio Adok. Invece, addossate ai vari angoli formati dalle sei coppie di pareti adiacenti, c’erano altrettante colonne marmoree. Le quali erano percorse nel senso della lunghezza da variegature multicolori ed avevano come capitelli sculture di media grandezza che raffiguravano delle teste di lupo. Queste stavano a significare un tributo di riconoscenza, da parte della setta, verso il loro divino Grande Lupo. Le sei colonne facevano grande spicco sopra il pavimento, il quale era stato ottenuto con formelle esagonali di sei colori differenti. Nell’insieme, se lo si osservava attentamente, esse formavano un disegno geometrico, che si ripeteva identico da qualunque mattonella lo si prendesse in considerazione.

Ritornando al rito previsto in serata, esso aveva inizio, quando il sole cominciava ad apparire come un astro morente, sotto il continuo incalzare delle nerastre tenebre. Queste ultime miravano a spegnere il vigore di una natura, la quale si era dimostrata fino a quel momento viva e rigogliosa. Allora, al primo imbrunire, i sacerdoti facevano il loro ingresso nel tempio, vestiti ed equipaggiati alla stessa maniera del mattino. Li seguivano le Teste di Lupo, le quali questa volta reggevano una fiaccola con la mano destra e lo scudo con quella sinistra. L’orazione serale risultava la medesima in tutti i giorni del mese ed era rivolta al solo Grande Lupo. Il quale veniva pregato dal Venerabile Servitore con queste testuali parole: "Grande Lupo, a te viene dedicata la nostra preghiera serotina. Con essa intendiamo ringraziarti per la misericordia, che generosamente non smetti mai di mostrare nei nostri confronti. Perciò ti imploriamo con fervore di difendere la nostra setta da ogni nemico, che cercasse di colpirla in qualche modo. La nostra implorazione ti viene rivolta pure questa sera, poiché desideriamo continuare a servirti per l’eternità. Grande Lupo, la potenza e la gloria siano sempre con te, perché tu possa metterle a nostra disposizione!"

Anche nella funzione serale l’auspicio finale del decano supplicante era ripetuto prima dai lupenti e poi dalle Teste di Lupo. Alcuni istanti più tardi, però, iniziavano nel tempio delle danze folcloristiche, le quali duravano all’incirca mezzora ed erano eseguite dalle lupiadi. Si trattava di venti bellissime danzatrici, le quali erano consacrate al Grande Lupo ed accedevano al tempio, dopo che il Venerabile Servitore aveva finito di recitare la sua preghiera. Con la loro coreografia di movimenti e di gesti, la quale era arricchita con i giochi effettuati dalle luci delle fiaccole, oltre che con i colpi ritmici di quattro gong, le seminude lupiadi rendevano spettacolare la chiusura della sacra funzione. Anzi, bisogna precisare che esse ne esprimevano concretamente il momento misterico più autentico. Quasi volessero promuovere fattivamente, con l'esibizione della loro danza, l’intima fusione tra il dio Adok e la setta, cioè tra l’umano e il divino. Appunto perché tra l'uno e l'altro venisse ad esserci un'alleanza solida e duratura nel tempo! Infatti, così lo aveva voluto Tusco, che era il grande fondatore del lupismo.


Adesso possiamo parlare del ruolo della donna in seno alla setta delle Teste di Lupo. In verità, esso era da considerarsi non di poco conto e multiplo, siccome nello specifico femminile esso le affidava molteplici incombenze. Le principali delle quali risultavano la procreazione e, correlata ad essa, la perpetuazione della setta. Tali funzioni, unitamente ad altre che richiedevano poca fatica, erano affidate alle donne dell’imenon, che erano chiamate lupite. Le Teste di Lupo avevano bisogno del sesso debole anche per l’espletamento di quelle attività che da sempre risultavano di sua pertinenza, essendo state ad esso demandate da Madre Natura. Le mansioni più gravose, invece, erano assegnate alle donne del romiton, chiamate lupie, le quali erano addette ai mestieri più umili, come la pulizia, la lavanderia e altri ancora. Per questi motivi, la componente femminile era considerata indispensabile dal lupismo.

Nella sua religione, Tusco aveva anche indicato il rapporto numerico che doveva esserci tra le donne lupite e le Teste di Lupo. Esso era definito quantitativamente in due a uno, cioè occorreva che ci fossero nella setta due lupite per ogni Testa di Lupo. Tale rapporto andava mantenuto in ogni tempo e non poteva mai dimostrarsi né superiore né inferiore a quello statuito dal regolamento. Nel calcolarlo, come veniva precisato espressamente, bisognava escludere dal novero delle donne quelle ragazze che non avevano avuto ancora il menarca. Le donne dell’imenon, quindi, all’interno del reparto loro destinato, svolgevano quei pochi mestieri che non richiedevano una fatica eccessiva. Soprattutto esse dovevano tenersi sempre a disposizione delle Teste di Lupo, ogni volta che queste decidevano di congiungersi carnalmente con loro, a patto che non fossero incinte. Quanto ai piccoli che nascevano in seguito ai loro rapporti con le Teste di Lupo, essi seguivano destini differenti, a seconda se erano maschi oppure femmine. In entrambi i casi, però, bisognava vedere se le piccole creature appena nate entravano nella percentuale prevista oppure risultavano nettamente in soprannumero. Ebbene, se nascevano femminucce e non superavano la percentuale del cinquanta per cento, esse restavano nell’imenon ed erano allevate dalle proprie madri lupite. Le altre, dopo essere state sottoposte all’escissione, venivano assegnate al romiton, dove le lupie si prendevano cura di loro.

Se invece nascevano maschietti ed entravano nella stessa percentuale, anch'essi, dopo aver subito l’amputazione del mignolo della mano sinistra, restavano nell’imenon, dove venivano cresciuti dalle rispettive madri. Invece i rimanenti, dopo essere stati sottoposti alla castrazione, al fine di farne da grandi degli eunuchi, finivano nel romiton e venivano affidati alle cure delle donne appartenenti a tale reparto, affinché li allevassero. I bambini, che restavano nell’imenon, erano detti "gli eletti", siccome da grandi erano destinati a diventare delle Teste di Lupo. Appena compiuti i venti anni, essi sostituivano quelle più anziane non più idonee ad esserlo. Ma gli eletti, prima di diventare Teste di Lupo, ricevevano una educazione tipicamente guerresca dai loro maestri, i quali li sottoponevano anche ad una disciplina ferrea, fino a farli diventare dei guerrieri indomiti. Invece i loro precettori erano i lupenti, che miravano a plagiarli, ossia a far leva sulla loro psiche, con la chiara intenzione di ricavarne dei fanatici esecutori di ogni ordine proveniente da loro.

Il lupismo prescriveva che le Teste di Lupo non potevano né avere meno di venti anni né superare i quarant’anni. Perciò ognuno di loro, non appena compiva il quarantunesimo anno di età, veniva sostituito da un eletto, che già era stato compiutamente preparato ad assolvere tale difficile mansione. Com'era ovvio, perché le cose procedessero nella setta secondo gli schemi prefissati dalla dottrina lupistica, in seno ad essa, ad ogni costo non dovevano registrarsi degli squilibri di natalità. Una denatalità fra le Teste di Lupo veniva a scombussolare l’intera compagine religiosa, intesa quest’ultima dal punto di vista dei numeri relativi ad ogni categoria dei partecipanti ai riti. Essi, sia nel rito mattutino che in quello serale, non potevano essere differenti da quelli richiesti dal cerimoniale liturgico. Per cui, quando si prevedeva che le nuove nascite sarebbero state inidonee a soddisfare la futura domanda, scattava il piano di reperimento delle unità mancanti in termini di persone. Esso era attuato con il massimo riserbo presso le popolazioni dei villaggi vicini. Ad ogni modo, anche quando la natalità risultava eccessiva rispetto alle reali richieste della setta, si ricorreva ugualmente al piano correttivo, detto piano di sfollamento. Esso prevedeva l’abbandono di quei neonati che risultavano in esubero presso i medesimi villaggi.

In relazione al prelevamento delle persone venute a mancare per denatalità, esso era praticato in due modi, a seconda se venivano a mancare i maschi oppure le femmine. Nel primo caso, si trattava di semplici rapimenti operati dagli eunuchi della setta durante le ore diurne. Nel secondo caso, invece, entravano in azione le Teste di Lupo, seguendo alla lettera il rituale previsto dalla loro religione. Esso, prima di passare al rapimento della ragazza prescelta, li obbligava a seguire l'intera procedura che si prevedeva in quella circostanza, la quale si attuava in tre distinti momenti. Prima di tutto, le trenta Teste di Lupo designate a compiere tale missione dovevano trovarsi nel tempio, quando la mezzanotte non era ancora scoccata. In quel luogo, prima di indossare la maschera di rito, cioè quella della testa di lupo, esse venivano unte sulla fronte dal sacerdote decano. Con tale azione, egli intendeva rendere sacra l’impresa che stavano per affrontare e preservarla, in pari tempo, da ogni genere di brutte sorprese. All’unzione, seguiva poi la danza scatenata delle lupiadi, la quale doveva servire ad infiammare il loro spirito bellicoso, allo scopo di farlo esprimere al massimo della loro potenza durante il rapimento che era da compiersi. A tale atteggiamento di forza, comunque, esse dovevano ricorrere, solo nel caso che esso trovasse qualche ostacolo da parte dei parenti della vittima, oppure se lo stesso avesse preso una brutta piega per altri sopravvenuti motivi. Il terzo ed ultimo momento riguardava la spedizione vera e propria delle Teste di Lupo. Esse, subito dopo la mezzanotte, intraprendevano il viaggio verso il villaggio in cui era da compiersi il ratto, perché vi era stata già individuata la vittima da un appartenente alla loro stessa setta, il quale vi si era insediato da molto tempo. Così lo portavano celermente a termine.