250°-TUSCO REALIZZA LA PRIMA PARTE DEL SUO PROGETTO

La nuova visita di Tusco, la quale era avvenuta nel villaggio di Abruok nella mattinata che era seguita alla notte di novilunio, aveva trovato Creus e Suort bendisposti nei suoi confronti. I due capi subito gli avevano fatto intendere che erano disponibili ad assecondare i desideri della divinità che incarnava il Grande Lupo, qualunque essi fossero stati. Da parte sua, lo scaltro licantropo, approfittando della evidente inversione di tendenza che si era avuta nel loro atteggiamento, senza perdere tempo, aveva voluto cogliere la palla al balzo. Così aveva avanzato ad entrambi le proprie richieste. Tusco aveva cominciato col chiedere ai capi dei due villaggi quelle cose che erano più propriamente finalizzate all’attuazione del suo progetto, ma che erano risultate anche tutte umanamente possibili. Allora essi si erano dimostrati ogni volta consenzienti e pronti ad esaudire tutto quanto egli aveva chiesto, senza nessuna riserva, concedendogli perfino la loro massima collaborazione.

Per prima cosa, Tusco aveva fatto richiesta a ciascun capo di cinquecento uomini, chiarendo all'uno e all'altro che aveva intenzione di metterli a lavorare sotto la propria personale direzione. Senza di loro, infatti, egli non avrebbe potuto costruire il tempio che era nei suoi disegni, il quale dopo sarebbe stato dedicato al Grande Lupo. A tale riguardo, il licantropo aveva anche già scelto il luogo, dove sarebbe dovuta sorgere la magnifica e sontuosa costruzione. Esattamente, si trattava della zona centrale del pianoro, il quale era situato sulla collina che gli aveva dato i natali. A quel tempo, in tale luogo era possibile scorgere un crepaccio, che presentava una fenditura lunga dieci metri e larga sei. In merito alla sua profondità, invece, essa raggiungeva la base della collina e confluiva in un antro molto vasto, la cui altezza poteva essere stimata circa venti metri. Inoltre, occorre far presente che quella spaccatura, oltre a sprofondare a perpendicolo nel sottosuolo, conservava le stesse dimensioni lungo il suo intero scoscendimento, ossia dalla cima alla base.

Il lettore si starà chiedendo se l’enorme grotta fosse cieca, oppure avesse alla base un altro sbocco verso l’esterno. In particolar modo, egli vorrà sapere perché mai il licantropo Tusco aveva scelto proprio quel luogo per edificare il tempio. Senza dubbio, le sue domande sono legittime, per cui presto gli saranno date delle risposte esaurienti in merito. Così non si permetterà alla sua fantasia di spingerlo ad immaginarsi cose che in seguito potrebbero rivelarsi completamente errate.

Ebbene, la risposta alla prima domanda la possiamo avere all’istante, visto che essa non rappresenta la risoluzione di alcun enigma. Quindi, chiariamo subito che l’antro in questione era privo di qualsiasi altra apertura verso l’esterno. L'unica sua uscita era quella che abbiamo appena appresa, della quale adesso conosciamo anche l'ampiezza e l’impervietà verso l’alto. Nell'interno, invece, in diversi punti della parte alta della sua superficie laterale, si potevano intravedere alcune piccole fenditure. Dalle quali non smettevano di venir giù rivoli di acqua, che rigavano il rispettivo tratto di parete fino alla base. Dove poi le infiltrazioni acquose si convogliavano e formavano una specie di calanco. Quest'ultimo, perdendosi sottoterra, faceva evitare che venisse allagato l’intero antro, col pericolo di renderlo inabitabile. Quanto alla risposta inerente al secondo quesito, essa ha bisogno di maggiore spazio e tempo nella sua esplicazione, se si vuole soddisfare appieno le delucidazioni che sono state richieste in merito da qualche lettore esigente. Così, venendo il suo quesito appagato nella maniera più esplicita e soddisfacente, egli dopo potrà dormire tra due guanciali. Ma prima di passare alla trattazione dell’argomento riguardante la scelta del luogo destinato all’erezione del tempio, è opportuno renderci conto di qualcos’altro.

Bisogna chiarire, magari con una relazione molto succinta, se Tusco era già al corrente delle caratteristiche dell’antro oppure le ipotizzava soltanto. Nel caso poi che la risposta dovesse risultare affermativa, occorrerà anche fare un ulteriore chiarimento circa il come e il quando egli ne era venuto a conoscenza. Così facendo, risparmieremo al nostro lettore quelle nuove domande che in lui sicuramente verrebbero ad esserci molto presto a tale riguardo, se ci astenessimo da una simile ulteriore spiegazione. In relazione all’argomento in questione, si precisa che alcuni anni addietro era già capitato al giovane Tusco di calarsi nel burrone. In quell'unica occasione, egli aveva potuto perfino visitare l’antro che era situato all’interno della massa collinare. Inoltre, il licantropo aveva avuto modo di perlustrarlo minuziosamente, rendendosi conto della sua reale capienza e di altri particolari importanti.

Ma volendo essere fedeli ai fatti, era stato il suo genitore a calarlo dentro il precipizio, dopo averlo legato ad una lunga corda; la quale era stata ricavata, legando insieme una ventina di resistenti liane. Essa gli aveva permesso di raggiungere il fondo del burrone, dove aveva inizio appunto l’immensa spelonca. In quella circostanza, il genitore gli aveva fornito anche una torcia, della quale avrebbe dovuto servirsi per procedere alla perlustrazione della cavità sotterranea. In merito poi alle motivazioni che avevano spinto il padre Bulkar a fare scandagliare la voragine dal figlio, era soltanto possibile fare qualche congettura. Probabilmente, gli era balenata l’idea di rinchiudere in quel luogo il proprio unigenito, durante la sua metamorfosi che lo trasformava in un lupo pericoloso. Segregandolo in un posto che non gli avrebbe più permesso di fare strage di gente innocente, egli intendeva mettere a tacere i rimorsi della propria coscienza. I quali seguitavano a bersagliarlo, come per punirlo per le proprie colpe. Per il bravo licantropo, infatti, la cosa peggiore si dimostrava il fatto che essi lo facevano sentire colpevole di ogni delitto che il figlio inconsapevolmente andava commettendo durante la sua esistenza da mostruoso lupo. Perciò, quasi fosse stato influenzato dall’idea paterna, come tra poco apprenderemo, anche in Tusco con il tempo era andata maturando l’identica intenzione. Ecco perché si stava adoperando con ogni mezzo per tradurla in pratica. Come? Attraverso la realizzazione di un'opera architettonica, che si sarebbe dovuta rivelare imponente e macchinosa, ma soprattutto adatta al suo scopo principale.

A questo punto possiamo anche rispondere senza difficoltà alla seconda domanda, che sarebbe venuta a nascere nella mente di qualche lettore. In questo modo, specificheremo meglio il motivo per cui Tusco aveva pensato di costruire il suo tempio proprio sul crepaccio del piccolo rilievo. Così, da parte nostra, verrà soddisfatta quest'altra sua sete di conoscenza, per cui ci sentiremo paghi di averlo accontentato secondo i suoi desideri. Incominciamo col dire che il preoccupato licantropo aveva ideato un progetto molto ambizioso, con la cui realizzazione mirava a perseguire due scopi primari. Essi, in verità, nella sua mente erano germinati indipendenti l’uno dall’altro. Nella progettazione dell’opera che si apprestava a realizzare, però, per lui assumeva una importanza rilevante il solo disegno tendente a ridurre all’impotenza l'essere bestiale che si manifestava in sé ciclicamente. A proposito del piano in questione, la sua mirabile progettualità aveva stimolato Tusco ad architettare un’opera monumentale, la quale sarebbe dovuta essere adatta alla finalità ad esso assegnata. Passando ora a parlare dello scopo che aveva spinto il giovane licantropo a scegliere quel luogo per l'edificazione del suo sacro tempio, occorre fare una precisazione. Pure in lui era sorta l’idea di isolarsi nell’antro sotterraneo, ogni volta che stava per diventare lupo. Perciò egli aveva pensato di crearsi innanzitutto le condizioni che gli avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza durante la sua vita da recluso. In passato, anche se suo padre aveva evitato di manifestargli apertamente il proprio intento di volerlo rinchiudere periodicamente in quell’antro, Tusco lo aveva sempre ravvisato senza errori negli occhi paterni. In un certo senso, a dire il vero, in cuor suo il giovane non si era neppure sentito di dargli torto e di odiarlo, considerati i danni che egli sistematicamente arrecava alle persone e agli animali, intanto che viveva da lupo. In seguito, perciò, aveva voluto fare suo il proposito paterno, ritenendolo giusto e necessario, se voleva esistere.

Ritornando poi alle garanzie di cui sopra, a parere di Tusco, esse si sarebbero potute ottenere, unicamente se certe sue pretese avessero affondato le proprie radici nel misticismo religioso. A parere del licantropo, soltanto quest’ultimo sarebbe riuscito ad incutere nella gente rispetto e timore, per cui essa non si sarebbe mai sognata di tradirlo, tantomeno di rinnegarlo. Dunque, tenendosi aggrappato a tale teoria, egli aveva ideato un grande progetto. Il quale, a suo giudizio, gli avrebbe fatto gettare le basi del sentimento religioso, attraverso la creazione di una divinità atta a renderlo pratico. Inoltre, gli avrebbe consentito una diversa esistenza, la quale non sarebbe più stata di nocumento agli altri suoi simili. Per conseguire entrambi i risultati, logicamente, prima di ogni cosa, gli occorreva un tempio, dove si sarebbe dovuto esprimere il senso della religiosità da parte dei fedeli. Ma era altrettanto indispensabile che ci fosse un posto sicuro, il quale avrebbe dovuto ospitarlo nei quindici giorni, in cui la sua essenza umana restava intrappolata nel corpo del lupo. L’uno e l’altro, comunque, sarebbero dovuti risultare ben collegati tra loro, se si voleva che essi rispondessero al suo progetto, permettendogli di perseguire i vari obiettivi da lui programmati. Così, dopo aver meditato con mente lucida sulla destinazione del luogo, il giovane licantropo alla fine si era convinto che esso non poteva che corrispondere alla voragine del colle, più precisamente all'antro situato nel suo sottosuolo. Perciò il tempio, che doveva comunicare con il medesimo, andava eretto esattamente sulla grande fenditura, che già esisteva sul pianoro della collina. Essa, sprofondando a picco nel sottosuolo, finiva per confluire nella enorme e tetra spelonca sotterranea.

Dopo il preambolo delle domande e delle risposte, il quale è servito a chiarire meglio quelli che saranno alcuni aspetti essenziali della vita di Tusco, è giunto il momento di riprendere il nostro racconto. Così ci riallacceremo ad esso nel punto esatto in cui lo avevamo interrotto, cioè ripartendo dalla fase iniziale della costruzione del tempio. Prima, però, sarà anche utile rinfrescare la memoria del lettore e rammentargli che, all’inizio dei lavori, il figlio di Bulkar aveva a sua disposizione un migliaio di uomini, i quali erano rappresentati per metà dagli Abruokesi e per l’altra metà dai Calputiani. Essi venivano guidati da un modesto gruppo di altre persone, che erano state fatte venire da villaggi più progrediti. Riguardo ai forestieri, alcuni erano esperti dei diversi tipi di muratura; altri, invece, erano già in possesso delle più elementari forme di architettura. Costoro le avevano acquisite durante i loro viaggi che avevano compiuti nelle diverse città dell’Edelcadia, diventando infine dei provetti architetti. Per l’esattezza, nell’esecuzione delle opere murarie ed architettoniche che stavano per essere realizzate, quelli di Calput e di Abruok avrebbero dovuto costituire esclusivamente la manovalanza. Quanto agli esperti fatti venire da fuori, la maggioranza di loro avrebbero dovuto fare da capomastri; mentre solo a poche persone qualificate sarebbe stata affidata la dirigenza tecnica. In merito a tali lavori, erano stati presi in considerazione anche gli emolumenti da corrispondere al personale qualificato giunto dalle lontane città. Ebbene, per imposizione di Tusco, anche tale spesa se la sarebbero dovuta accollare i due popoli gemelli. I loro capi avevano acconsentito a farsene carico, senza opporsi al nuovo gravoso tributo loro imposto.


Per ultimare i diversi lavori, c’era voluto quasi un lustro. Si era trattato di cinque anni di estenuante fatica, durante i quali ogni tanto qualche manovale ci aveva rimesso anche le penne; però sempre per motivi differenti. Non erano mancati neppure problemi di carattere oggettivo, essendosi dovuto affrontare e superare difficoltà di ogni tipo, le quali avevano messo a dura prova quanti erano impegnati in quell’opera mastodontica. Alcune complicazioni, quando non si erano dimostrate insormontabili, erano risultate di una pericolosità estrema. Ma prima che venisse eretto il tempio della divinità, Tusco aveva voluto che fosse messo a posto il luogo sottostante, poiché esso avrebbe dovuto ospitarlo per metà della sua esistenza, cioè quella relativa ai periodi della sua vita da lupo. In siffatta opera, si era proceduto unicamente a rendere agevole sia la discesa alla base del crepaccio che la risalita da essa, mediante una serie di rampe digradanti. Le quali erano state scavate interamente nelle sue quattro pareti, nonché erano risultate profonde un metro e alte il doppio, siccome esse dovevano permettere a chi si dava ad utilizzarle uno spostamento il meno difficoltoso possibile, pur rimanendo il suo corpo in posizione eretta. I lavori di scavo, i quali per pura convenienza avevano avuto inizio dall’alto per procedere verso il basso, erano proseguiti alacremente, fino a quando non era stata raggiunta la base del crepaccio. Essa, come già abbiamo appreso, faceva parte della caverna in questione.

Una considerevole difficoltà era stata incontrata durante il lavoro di picconamento. Il quale, durante la fase esecutiva delle varie rampe discendenti, aveva consentito di portarla avanti a due picconatori per volta. Infatti, sul posto di lavoro, essendoci uno spazio di appena un metro, non avevano potuto picconare contro la parete rupestre della voragine più di due uomini per turno, tenendosi l’uno accanto all’altro. Ad ogni modo, per ottenere un rendimento maggiore dalla pesante opera di escavazione, si erano ridotti al massimo i tempi di turnazione. Essi, perciò, non avevano superato il quarto d'ora. Così, facendo alternare a brevissima distanza di tempo le varie coppie di picconatori in un lavoro così estenuante, si erano ottenuti due grandi vantaggi. Da una parte, si era velocizzato al massimo la fine del lavoro; dall’altra, esso non era stato gravato in maniera eccessiva sui ventiquattro operai che venivano impiegati a condurlo a termine. Al lavoro di escavazione avevano soprinteso due consumati capomastri che, senza mai smettere, avevano controllato che il suolo e la volta dello scavo aumentassero di pari passo il loro livello. Così facendo, si era assicurata di continuo fra l’uno e l’altra la stabilita distanza di due metri. Difatti solo essa avrebbe permesso ad una persona di transitarvi agevolmente lungo l’intero suo tragitto di discesa nel buio antro e di risalita verso l'interno del tempio.

Nel frattempo che l’esiguo gruppo di picconatori era intento a scavare nella parete della voragine il sentiero a rampe digradanti prive di gradini, tutti gli altri Calputiani ed Abruokesi erano stati impegnati in superficie. Essi si erano dati a reperire e a trasportare sul colle l'intero materiale di varia natura. Ci si riferisce a quello che occorreva alla costruzione del tempio e dei locali adiacenti, comprese le pertinenze annesse. Ma c’era voluto un anno di lavoro, prima che venissero completate le rampe necessarie per far congiungere la superficie della collina alla base del crepaccio. Quando l’ultima rampa era stata portata a termine nel vano voraginoso, erano risultati ultimati altresì il reperimento e il trasporto di tutti i materiali necessari alla costruzione delle opere murarie programmate. Allora, senza altro indugio, si era proceduto anche alla realizzazione del grande progetto di Tusco. Comunque, la costruzione del tempio e dei vari edifici ad esso connessi aveva richiesto un quinquennio. Alla fine del quale, però, Tusco aveva potuto ritenersi soddisfatto della grandiosa opera che si era ottenuta. Essendo essa risultata superiore alle sue aspettative, egli aveva ringraziato quanti vi avevano preso parte e li aveva elogiati per la loro encomiabile applicazione, oltre che per la loro tenacia di lavoratori precisi ed indefessi.

Quanto alla tecnica costruttiva del tempio, essa aveva saputo sfruttare i vari elementi architettonici con una certa arditezza, coordinandoli in modo da conferire al sacro edificio una modesta elevazione ed un deciso slancio nella sua verticalità. In esso, infatti, non si era voluta privilegiare la massa; ma si era data importanza alla linea, che gli assegnava un peso minore e vi faceva dominare i fasci di nervature. Essi, più che degli elementi costruttivi, venivano a rappresentare soprattutto dei contenuti espressivi dell’opera architettonica, anche se il tutto era potenziato dal colore, però in modo subordinato. Vi primeggiavano principalmente i giochi di simmetria con funzione estetica e l’articolazione dei vari elementi, che era condotta con ritmo unitario e rigoroso. Alla base della facciata, invece, c’era una serie di portici, che movimentavano l’intera parte basale. Ciò, grazie alle loro sculture e alla loro profusione di decorazioni arboree, che creavano suggestivi effetti chiaroscurali. Il tempio, oltre a presentare colonnati su tutti i lati, era orientato ad est, nel senso che la sua facciata frontale, ossia quella in cui stava il sagrato, era rivolta ad oriente. Esso, che era accessibile soltanto da quel lato mediante una scalea marmorea, era situato in posizione di preminenza entro un organismo architettonico pentagonale. Il quale si articolava in una piazza spaziosa circondata da splendidi edifici. Mentre la costruzione templare, poggiando sopra un podio alto quasi cinque metri, si presentava nella sua maestosa monumentalità e, nel medesimo tempo, sfoggiava una enfasi di sacralità facilmente individuabile in ogni sua parte. Essa era addossata ad un angolo di tale organismo, che assumeva la forma di un pentagono regolare. Per l’esattezza, era posta addosso all’angolo che era rivolto verso ponente. Invece, per quanto riguardava le parti interne del tempio, giustamente esse saranno considerate al momento opportuno con una descrizione più appropriata e dettagliata. La qual cosa avverrà, quando ci riferiremo ad esse più direttamente, ovvero in coincidenza con i fatti narrativi che verranno ad interessarle, facendocele in tal modo conoscere nella loro immediatezza.