248-TUSCO VUOLE COINVOLGERE I POPOLI DI CALPUT E DI ABRUOK NEL SUO PROGETTO
Dopo che era ridiventato un essere umano, Tusco aveva deciso di andare a trovare i suoi genitori. In cuor suo, sperava che il padre avesse smesso di avercela con lui e non gli manifestasse più l'atteggiamento ostile dei giorni scorsi, quello che lo aveva perfino spinto a tentare di ammazzarlo! Così, uscito dal suo nascondiglio segreto, era pervenuto nei pressi della caverna delle due persone che gli erano più care. In quel luogo, però, subito aveva notato che ovunque regnava la calma più assoluta, poiché nessun segno di vita si avvertiva anche all'esterno di essa. Inoltre, non si scorgeva la presenza di alcun lupo, neppure di quelli che di solito vi stavano a fare la guardia. Né tanto meno si avvertivano dei rumori oppure dei movimenti di qualche tipo, i quali di solito provenivano dall'interno della caverna e facevano constatare che dentro ci stava qualcuno intento a sbrigare qualche faccenda. Allora la mancanza degli uni e degli altri aveva allarmato il giovane e lo aveva indotto a temere il peggio; ma soprattutto lo aveva fatto precipitare nella cavità rocciosa per avere notizie di coloro che lo avevano messo al mondo. Ma dopo aver posto piede nell'abitazione dei suoi genitori, Tusco aveva potuto unicamente prendere atto che, da qualche giorno, in essa ogni segno vitale si era spento per sempre. La vita, come si rendeva conto, vi era stata prima soppressa e poi profanata nella maniera più tremenda ed inconcepibile! Il cumulo di ossa stritolate e maleodoranti, infatti, gli si esprimeva in modo abbastanza manifesto, considerato che gli riferiva sull'orrendo misfatto da lui commesso; anzi, glielo presentava in tutta la sua drammatica realtà. Esso gli faceva addirittura immaginare il tremendo episodio che i suoi genitori avevano vissuto e subito, dopo averlo collocato sinistramente in una orrida cornice. In un certo senso, gli veniva a ricomporre i suoi assurdi squarci pervasi di livida nefandezza.
Divenuto infine preda di una folle disperazione, Tusco aveva vissuto il caleidoscopio delle sequenze truculente dell'incredibile strage. Per cui esse si erano succedute davanti ai suoi occhi esterrefatti con una crudezza grave ed inquietante, la quale nel modo più assoluto non poteva avere la minima comprensione da parte sua. All'improvviso, egli aveva scorto il padre e la madre intrappolati nella loro caverna, mentre invano tentavano di sfuggire all'inesorabile ferocia della bestia, che in quel momento terribile era rappresentata da lui. A quanto pareva, il suo essere bestiale si era dato ad attanagliarli con le sue enormi zampe, a trafiggerli con i suoi unghioni scarnificanti, a dilaniarli con le sue zanne gigantesche. Dopo le quali azioni, li aveva divorati con una insaziabilità impressionante e in una maniera tremendamente impietosa. Quasi ci fosse stata al suo posto una torma di sciacalli famelici che, in preda ad una spietatezza inaudita, avevano continuato a fare strage dei loro corpi. I quali, in fasi successive, prima erano stati ridotti all'impotenza, dopo erano stati uccisi, infine erano stati straziati e divorati! Il giovane si era trovato di fronte ad una lotta impari, che ora riviveva con l'immaginazione; anzi, la vedeva svolgersi tra due creature indifese e un mostro immane ed ingordo, rappresentato dalla sua persona animalizzata. Mentre le prime si mostravano impotenti ad opporre la loro fragile resistenza, il secondo era intento unicamente a saziare la propria fame. Da esso, per la verità, non ci si poteva attendere né pietà né grazia verso le due misere vittime! Per sua sfortuna, quell'essere mostruoso, il quale aveva ammazzato i suoi genitori e ne aveva divorato le carni, veniva ad identificarsi con la propria persona, essendo stato lui stesso a commettere quell'obbrobrio ingiustificabile e sommamente deplorevole.
L'unigenito di Bulkar e di Senia, nel trasformarsi in un lupo dal corpo smisurato, che lo rendeva incredibilmente gigantesco, aveva perduto la consapevolezza di sé. Di conseguenza, essendo ignaro di ciò che stava commettendo, aveva agito a tutti gli effetti nella più piena incoscienza e seguendo rigidamente i suoi impulsi animaleschi. I quali gli erano derivati dalla sua esistenza da bestia incontrollata ed incontrollabile. Perciò tali immagini gli si dimostravano strazianti ed orrifiche, nonché gli arrecavano dei patemi d'animo costernanti. Allora questi ultimi, a poco a poco, avevano avviato il giovane licantropo verso una profonda crisi coscienziale. All'inizio, giustamente si era sentito il principale responsabile della mattanza che l'altro sé bestiale aveva perpetrato a danno dei suoi sventurati genitori. Per questo finalmente egli aveva incominciato a comprendere il gesto omicida che in precedenza il genitore aveva tentato nei suoi confronti, ma senza raggiungere lo scopo. Per cui gli aveva dato perfino ragione. Secondo lui, sarebbe stato meglio, se il padre in quella circostanza ci fosse riuscito, a dispetto dell'intervento della madre, la quale aveva voluto prendere a tutti i costi le sue difese!
A un tratto, perciò, Tusco si era sentito torturare nel proprio intimo dall'assillo della colpevolezza. Esso si era dato a sollevargli in profondità i moti dell'animo che, in quella odiosa evenienza, poteva apparirgli soltanto terribilmente esacerbato. Dentro di sé, il licantropo andava avvertendo l'intera serie di sensazioni intollerabili, tutte che gli risultavano in quell'istante a volte di prostrazione totale, altre volte di forte indignazione. La qual cosa era dovuta al fatto che quelle gli derivavano da una conflittualità parossistica totalmente impegnata ad esagitare la sua sfera psichica. Dal quale conflitto interiore, inoltre, gli provenivano taluni pensieri accascianti e penalizzanti. Anzi, quando essi non riuscivano ad affogare in un annichilimento oltremodo conturbante, finivano per dibattersi nel suo spirito simili a marosi tempestosi. Nel medesimo tempo, si effettuava in lui la degradazione dello spirito, che assisteva impotente alla dissoluzione dei suoi ideali più nobili e all'emarginazione di ogni sua sublime aspirazione. La sua coscienza, invece, essendo parte in causa dell'animo e dello spirito, non aveva potuto fare a meno di venirne coinvolta con grande sua disperazione. In verità, il suo coinvolgimento era stato di tutt'altra natura, poiché in lui aveva posto in essere delle crisi esistenziali assai scombussolanti. Anch'esse, quindi, erano risultate provocatoriamente lesive della propria identità, la quale adesso veniva messa in discussione perfino da sé stesso.
La rigida dicotomia dell'esistenza, essendo venuta ad aversi in lui in modo conflittuale, aveva finito per catapultare il disperato Tusco in una realtà di contrasti insanabili ed insuperabili. Questi, a loro volta, lo avevano tenuto inchiodato nella sua mente e lo avevano fatto colare a picco nel tunnel di una grave crisi lesiva della sua esistenza. Perciò i due differenti esseri che convivevano in lui in continua lotta fra di loro, ossia quello positivamente umano e quello negativamente animale, si erano ritrovati a non avere più nessun denominatore comune. Restando all'infinito sulla loro antitesi ineliminabile, che veniva a creare dei forti contrasti, essi avevano potuto contrapporsi e battagliare senza fine, dal momento che ciascuno voleva avere il sopravvento sull'altro. Infine quel loro conflitto interiore aveva finito per intaccare soprattutto la personalità di Tusco, per la quale ragione, ad un dato momento, ne era uscita seriamente compromessa. Un simile fatto aveva spinto il disorientato e turbato licantropo a superare in qualche maniera i suoi intimi disagi, che non potevano essere esigui. Magari senza meno egli sarebbe ricorso alla soppressione e al sacrificio di sé stesso, se gli fosse stato impossibile risolvere il proprio dramma in un modo diverso!
Stando così le cose, Tusco aveva sentito il dovere di sciogliere in sé parecchi nodi, i quali stavano lì esclusivamente per rodergli l'esistenza e per trascinarlo in considerazioni amare prive di speranze. Anzi, essi non gli lasciavano intravedere neppure la possibilità di qualche illusione rassicurante. Per questo la sua esistenza aberrante, poiché risultava nociva agli altri esseri animali e perfino agli uomini, andava accoppata senza perdere tempo e con la massima risolutezza. Ma non essendo egli in grado di dare ad essa un altro sbocco, quella era l'unica maniera di privarla di ogni possibilità di arrecare del male ai suoi simili. Il suicidio, quindi, gli si era prospettato il solo atto capace di affossare la sua mostruosità e di metterla nella impossibilità di far scatenare in sé i tanti belluini istinti di eccidio. I quali, per il momento, coinvolgevano soltanto persone ed animali reperiti nel suo ambiente naturale. Molto presto, però, essi si sarebbero potuti scatenare anche contro i popolosi villaggi della regione, a meno che egli non fosse stato in grado di imbrigliare e neutralizzare il suo sé bestiale in un modo qualsiasi! Nel qual caso, non avrebbe più dovuto programmare la propria morte attraverso il suicidio, poiché esso per il momento si faceva considerare doveroso verso le varie comunità vicine. Fatto essenziale per evitarlo era riuscire a mettere il suo sé negativo nella condizione di non poter nuocere più a nessuno. Inoltre, tale stato di cose sarebbe dovuto perdurare per tutto il tempo che la sua metamorfosi lo avesse tenuto imprigionato nel corpo del feroce mostro, il quale si presentava assai assetato di sangue.
In seguito, nella travagliata mente di Tusco, era venuto a balenare un grande disegno. Esso prevedeva la fondazione di una setta religiosa e l'edificazione di un tempio dedicato al Grande Lupo, che avrebbe personificato sé stesso, unitamente alla neutralizzazione della crudeltà della propria natura bestiale. Questa, che doveva avvenire per prima, la si poteva realizzare soltanto con la costruzione di un luogo sicuro. Il quale avrebbe dovuto ospitarlo durante i giorni della sua esistenza da lupo, senza permettergli di uscirne in nessun modo. Oramai le sue dimensioni corporee, quando si trasformava in bestia, si erano stabilizzate e non tendevano più ad aumentare. Esse avevano smesso di crescere ad ogni trasformazione, solo dopo aver raggiunto gli otto metri di lunghezza, senza considerare la coda, i tre metri di altezza e un diametro di quattro metri. Le quali dimensioni gli conferivano una corporatura così enorme e spaventosa, che gli animali più grandi della terra, al suo cospetto, potevano solo provare terrore. Inoltre, avrebbero cercato di evitarlo, ad evitare di venirne uccisi e divorati.
Tusco era consapevole che, per attuare delle opere del genere, doveva poter contare su molte braccia e su alcune valide menti, le quali si sarebbero dovute mettere a sua completa disposizione, concedendogli la loro effettiva collaborazione. Egli poteva andare a reclutare un numero di persone così ragguardevole soltanto fra le popolazioni dei due villaggi più vicini, che erano quelli di Calput e di Abruok. Quei due centri abitati, come si presumeva, presi insieme, potevano raggiungere anche i ventiquattromila abitanti; inoltre, essi si trovavano ad una distanza relativamente vicina, rispetto al Bosco dei Gemiti. Se le miglia di distanza dal primo erano quindici, quelle dal secondo non dovevano superare i venti. Ma bisognava anche vedere se tali popoli si sarebbero trovati d'accordo con la sua proposta, dopo che egli fosse andato a farla ad entrambi. Tusco, invece, pur prevedendo che essa non avrebbe riscosso dei larghi consensi fra i Calputiani e gli Abruokesi, non aveva potuto astenersi dal rivolgersi a loro. Anche perché gli uni e gli altri costituivano la sola fonte di maestranze da ingaggiare per concretizzare il suo maestoso progetto. Secondo lui, nel caso che i due popoli si fossero mostrati di diversa opinione, li avrebbe costretti ad accondiscendere alla sua proposta con le buone o con le cattive. Ed egli sapeva come spaventarli, pur di convincerli! L'unigenito di Bulkar, però, era stato dell'avviso che sarebbe stato meglio per tutti, se le sue richieste avessero trovato unanime consenso presso le persone a cui sarebbero state indirizzate. In quel modo, non ci sarebbero stati per nessuno problemi di sorta: né per sé né per quei due popoli. Inoltre, il suo progetto non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad essere attuato, come la mente gli dettava.
Così il giorno seguente, dopo aver tumulato le ossa dei suoi cari congiunti da lui stesso trucidati, Tusco si era messo immediatamente in cammino alla volta del villaggio di Calput. Intrapreso il lungo viaggio, egli non aveva potuto fare a meno di rivolgere la sua mente ai miseri genitori che, anche se nell'incoscienza, aveva condannato ad una morte precoce ed orribile. Al ricordo di quanto essi avevano rappresentato per lui, all'inizio il giovane era stato invaso da un'ombra di mestizia. Ma in seguito si era sentito avvolgere l'animo dapprima da una cupa malinconia e in seguito da un tremendo rimpianto. Anzi, ad un certo punto, gli era parso che il cuore gli si stesse comprimendo a tal punto, che per un attimo aveva temuto che una forza arcana volesse schiacciargli l'organo vitale. Nello stesso tempo, però, lo sventurato aveva rivissuto i bei momenti della fanciullezza, quelli trascorsi insieme con i suoi genitori e con i suoi amici lupi. Allora essi lo avevano fatto commuovere e gioire come non mai. Lo aveva anche fatto esultare l'amore fragrante, che gli era derivato da loro due sempre illimitato, incessante e disinteressato; ma soprattutto carico di un sentimento intenso di calore e di affetto. Rammentando così quei beati istanti della sua trascorsa esistenza, Tusco si era emozionato teneramente ed aveva pianto come un vero fanciullo. Dopo erano seguiti anche dei momenti di disperazione, di turbamento e di profondo dolore, i quali avevano fatto di lui il destinatario infelice delle accuse più infamanti e delle invettive più oltraggiose. Esse, perciò, alla fine lo avevano sommerso sotto una insostenibile montagna di immani rimorsi e di una vergogna insopportabile.
Il giovane licantropo era ancora in preda ad un rammarico indescrivibile, quando era giunto in vista del villaggio calputiano. A quel punto, egli aveva deciso di ancorare nel porto dell'oblio l'intera onda di emozioni, che stava vivendo in quella circostanza. Esse, se pochi istanti prima lo avevano rallegrato, adesso invece lo stavano additando come l'essere più abietto della terra. Infatti, era giunto il momento che egli doveva iniziare a pensare a come rivolgersi al capo dei Calputiani, se voleva colloquiare con lui e convincerlo amichevolmente a farsi dare una mano nel suo grandioso progetto. Magari sarebbe ricorso a qualche menzogna, pur di averlo dalla sua parte senza qualche contrasto. Non c'era dubbio che, con l'attuazione del disegno da lui ideato, Tusco tendeva a perseguire un fine altamente nobile e generoso, oltre che degno della più grande ammirazione. Per cui egli merita da parte nostra una grande stima e un certo rispetto.
Contrariamente a quanto di solito si è portati a credere, tra i popoli dei due villaggi confinanti, i quali erano distanti l'uno dall'altro appena dieci miglia, intercorrevano degli ottimi rapporti. Per tale motivo, non si era mai avuto in seno a ciascuno di loro un qualunque tipo di campanilismo. Il quale avrebbe potuto spingere l'uno ad avere la velleità di essere superiore all'altro. Dalle loro enfasi campanilistiche, che invece non c'erano, si sarebbero potute originare pure delle melense vanterie oppure delle stolide polemiche pretestuose, con l'obiettivo di accendere tra i loro due popoli delle fanatiche contese. All'inverso, si poteva affermare con certezza che tanto nel popolo calputiano quanto in quello abruokese si ignorava del tutto ogni tipo di rivalità. Come pure si rifuggiva, in qualsiasi occasione, da atteggiamenti strafottenti, i quali sistematicamente scaturiscono dallo spirito di parte. Quando essi si incontravano per festeggiare qualsiasi avvenimento che li accomunava, vigeva sempre la stessa norma. In base alla quale, nelle diverse gare sportive o ludiche che venivano a svolgersi tra di loro, i concorrenti di entrambe le squadre che dovevano disputarsi la vittoria non potevano far parte del medesimo popolo, con l'intento di misurarsi con quelli dell'altro. In ciascun gruppo antagonista dovevano essere compresi competitori appartenenti all'uno e all'altro popolo, in quanto essi venivano formati non per appartenenza ad una etnia o ad un'altra. Volendo precisare meglio il criterio della loro formazione, ogni volta esso si rifaceva rigorosamente alle caratteristiche esteriori della persona. Ciò voleva dire che le varie gare avvenivano fra biondi e bruni, tra alti e bassi, tra grassi e magri, ecc…, proponendosi per la stessa gara prove diversificate, delle quali avrebbero potuto privilegiare ora una squadra ora l'altra. Infatti, se alcune di esse favorivano una categoria di concorrenti; le altre, naturalmente di uguale numero, risultavano favorevoli alla parte contrapposta, venendo a rispettarsi in tal modo il criterio delle pari opportunità. Non bastando quanto già fatto presente, per rinsaldare ulteriormente il loro gemellaggio, da tre secoli fra i due popoli era invalsa la consuetudine che gli uomini di un villaggio potevano contrarre matrimonio esclusivamente con le donne dell'altro. Così i Calputiani e gli Abruokesi, anche se abitavano in villaggi differenti, potevano essere considerati un unico popolo a tutti gli effetti. A tale riguardo, bisogna conoscere la singolare peculiarità, con la quale veniva attuata la formazione delle coppie e venivano congiunti gli interessati in un matrimonio collettivo davanti allo stregone del villaggio delle spose.
Ogni sei mesi, quello abruokese nell'equinozio di primavera e quello calputiano nell'equinozio d'autunno, sul far del giorno, il capo in carica riuniva tutti gli scapoli e i vedovi del proprio villaggio. Dopo si muoveva insieme con loro in direzione del villaggio gemello, dove venivano ricevuti dai suoi abitanti con un calore adatto alla solennità del momento. Perciò si largheggiava in effusioni e si metteva in moto la macchina dei festeggiamenti, i quali si svolgevano secondo il programma che viene qui appresso specificato. Al loro arrivo, tutti i residenti del villaggio ospitante li accoglievano con battiti di bongos, suoni di corni e caldi abbracci. Inoltre, venivano distribuite delle ottime focaccine, le quali venivano consumate come frugale refezione mattutina. Dopo la leggera ristorazione, essi si conducevano nel grande spiazzo del villaggio, che aveva una forma rettangolare. Per l'occasione, esso si presentava ornato di festoni lungo l'intero suo perimetro. In quel posto, così, si dava inizio prima alle danze folcloristiche e poi ai giochi. Le une e gli altri si svolgevano in onore dei giovani giunti dal villaggio gemello e delle ragazze del luogo, cioè quelle che stavano per essere unite in matrimonio con loro.
Al termine delle danze e dei giochi, seguivano l'abbinamento degli aspiranti sposi e la cerimonia nuziale, che era collettiva. Ma per giungere a quest'ultima si osservava una particolare procedura, la quale non era in uso presso nessun altro popolo della zona. L'unione matrimoniale così ottenuta, sanciva in via definitiva le coppie formate in base ad essa. In verità, si trattava di un abbinamento operato alla cieca, nel senso che i componenti di ogni coppia si ritrovavano scelti e sposati puramente per caso, senza essersi conosciuti prima nemmeno per un attimo. Insomma, la scelta, pur essendo stati gli interessati stessi ad operarla in concreto sotto un certo aspetto, in pratica veniva però fatta dipendere dalla sorte. Ad ogni modo, tra poco ce ne renderemo conto in modo dettagliato.
Per prima cosa, ai giovani nubendi veniva affiancata una persona, la quale doveva assisterli durante l'intera cerimonia. Essa era una donna per le femmine e un uomo per i maschi. In seguito, tanto gli aspiranti al matrimonio quanto i loro assistenti, se ne restavano al bordo del sopraddetto spiazzo. La cui superficie in quella circostanza si presentava interamente sgombra, in attesa che si facesse udire il primo suono di corno. Quando poi lo strumento corneo veniva a farsi sentire per la prima volta forte e cupo, ogni assistente donna, reggendo con la mano sinistra una benda rossa, prendeva con l'altra mano la propria assistita. Così l'accompagnava al centro del campo, dove tutte insieme, stando ad una certa distanza fra di loro, formavano un grande circolo. Al secondo suono di corno, invece, erano gli assistenti uomini, che erano forniti di una benda nera, a far eseguire le medesime azioni ai propri assistiti. Solo che il cerchio, che essi venivano a formare, questa volta era esterno a quello delle femmine e rimaneva distanziato da esso una ventina di passi. Al terzo suono di corno, infine, i vari assistenti, sia maschi che femmine, bendavano gli occhi ai propri assistiti, privandoli della facoltà della vista. Al quarto suono, gli stessi assistenti, prendendo per mano i loro assistiti, cominciavano a farli muovere in circolo. Esattamente, le femmine venivano fatte avanzare in senso orario; mentre i maschi, con movimento retrogrado, venivano fatti procedere in senso antiorario. Nel frattempo che essi si muovevano nella maniera citata, ad un certo punto, si udiva il quinto suono di corno. All'udirlo, gli assistenti di entrambi i sessi, stoppavano l'avanzamento circolare dei loro assistiti. Subito dopo, impartendo ai medesimi il comando di fianco sinistro, li facevano posizionare in modo che i maschi e le femmine si trovassero gli uni di fronte alle altre. Ma essi non potevano vedersi, essendo bendati e privati della vista. Assolto anche tale ultimo compito, con molta fretta gli assistenti lasciavano soli sul campo i rispettivi assistiti e se ne ritornavano ai margini dello spiazzo.
Era allora che veniva emesso il sesto suono di corno. All'udirlo, le ragazze, impugnando il crotalo e dandosi a suonarlo ripetutamente, incominciavano a muoversi alla cieca all'interno del loro cerchio. Si trattava di uno strumento idiofono, che era formato da due valve lignee. Queste, se venivano fatte cozzare l'una contro l'altra, erano in grado di emettere un suono stridulo dal timbro secco. Volendosi indicarlo con una maggiore precisione, il crotalo, se non proprio uguale, era da considerarsi molto simile alle nostre odierne castagnette, denominate anche nacchere. Allora, nello stesso istante che le femmine si mettevano a fare fracasso con il loro strumento sonoro di cui erano dotate, i maschi iniziavano ad avanzare verso di loro. Muovendosi a tentoni, essi cercavano di farsi guidare dagli stridenti richiami emessi dai vari crotali che le aspiranti spose facevano funzionare di continuo, come indicatori della loro presenza. Quando un maschio riusciva a raggiungere una femmina, le sfiorava il viso e la prendeva per mano, facendola diventare automaticamente la sua compagna a vita. Da quel momento in poi, la loro unione era decisa e neppure loro stessi potevano opporsi a quella scelta avvenuta fortuitamente e alla cieca. In un certo senso, essa era ritenuta da ambedue i popoli come guidata dalla mano del destino, per cui nessuno più avrebbe potuto opporsi ad esso. Ogni volta che si aveva tale incontro fortuito, senza perdere tempo, i loro assistenti, ma questa volta due per coppia, correvano a trarli fuori dal gruppo e li accompagnavano davanti allo stregone del villaggio. In quel posto li lasciavano per sempre, poiché a quel punto terminava la loro opera di assistenza ai due sposi novelli. I quali, però, dovevano continuare a stare con gli occhi bendati, almeno fino a quando non si concludeva sul campo la formazione accidentale di tutte le coppie. Infatti, poco più tardi, in conformità della prassi vigente, lo stregone procedeva alla celebrazione del rito, essendo esso di sua competenza. Perciò, dopo avere ordinato ai componenti di ciascuna coppia di tenersi abbracciati l'uno all'altra, li sposava con una cerimonia religiosa collettiva. Alla fine invitava le coppie a togliersi la benda dagli occhi e le ammoniva a non infrangere il vincolo del matrimonio.
In seguito, da parte delle spose, venivano fatte le presentazioni dei loro familiari e dei loro parenti ai rispettivi freschi consorti. Al termine delle quali, venivano allestite sul campo numerose tavole, le quali finivano poi per essere imbandite di squisite leccornie, siccome si doveva procedere ad un unico solenne banchetto nuziale in onore di quelli che si erano sposati. Quanto ai genitori delle spose, ciascuno di loro, come bene dotale, aveva solo l'obbligo di donare alla propria figlia un cavallo. Esso doveva servire a farla trasferire nel villaggio dello sposo, dove già era pronta la loro dimora. Il viaggio veniva intrapreso dalle novelle coppie di coniugi nel pomeriggio. Così, salvo imprevisti, si riusciva a raggiungerlo prima di sera. Perciò gli sposi, giunti nel loro villaggio, avevano il tempo di presentare le loro fresche mogli a parenti ed amici.
In relazione all'intera cerimonia delle nozze in uso presso i due popoli appena conosciuti, vanno precisati tre punti fondamentali. Il primo concerneva il numero degli aspiranti al matrimonio, visto che quasi sempre c'era una disparità fra i maschi e le femmine partecipanti. Per cui, al termine della cerimonia, qualcuno o qualcuna si ritrovava ancora celibe o nubile. In quel caso, lui o lei doveva attendere un altro anno, prima di ritentare il suo addio al celibato. Il secondo punto riguardava i due equinozi, che i Calputiani e gli Abruokesi avevano scelto per lo svolgimento della cerimonia nuziale. Tale scelta era molto significativa e stava ad indicare che, come in quelle due occasioni le ore di luce e quelle di buio si spartivano a metà il giorno, così anche i due consorti dovevano dividersi paritariamente le responsabilità, i doveri e i diritti di una vita intera. Ossia, la loro unione doveva fondarsi su un rapporto paritetico in ogni senso e in ogni momento della loro vita coniugale. Il terzo ed ultimo punto, infine, interessava l'amore. Ebbene, entrambi i popoli non credevano che un uomo ed una donna potessero innamorarsi, conoscendosi solo di vista, cioè senza prima aver percorso insieme il difficile sentiero della conoscenza reciproca. A loro parere, il matrimonio che veniva fatto basare sull'infatuazione e sull'esaltazione dell'aspetto estetico da parte dei suoi contraenti, nella maggioranza dei casi, era destinato a fallire e, quindi, era avviato verso un sicuro insuccesso.
L'amore, al contrario, doveva rivelarsi soprattutto una conquista per l'uno e per l'altro consorte. Difatti entrambi potevano comprenderlo, sperimentarlo, cementarlo, perseguirlo e viverlo autenticamente, soltanto restando uniti e marciando fianco a fianco lungo il cammino tortuoso della vita matrimoniale, il quale non era sempre facile. Una volta che venivano superati insieme i difficili frangenti che venivano ad affrontare nella loro esistenza a due, essi imparavano a rispettarsi e ad amarsi nel vero senso della parola. Allora tutto ciò che marito e moglie rappresentavano esteriormente sfumava e si diradava, fino a perdere ogni sua efficacia. Per tale motivo, due sole cose sarebbero rimaste indelebili nel loro rapporto coniugale e vi avrebbero fatto splendere il vero amore. Si trattava, in primo luogo, del grado di comprensione e di sopportazione dell'uno verso l'altra e viceversa. In secondo luogo, non poteva essere esclusa la volontà di ciascun coniuge di riuscire ad accettare l'altro con tutti i suoi difetti. Per la quale ragione, ognuno di loro due doveva accoglierlo con sincera simpatia ed impegnarsi a dargli tutto sé stesso, senza nulla pretendere in cambio dall'altro. In ultima analisi, l'amore non poteva essere considerato un sentimento uscito dalla fantasia o dal capriccio oppure da un'attrazione puramente estetica. Invece doveva essere inteso come germinato in seno alla bufera di una vita intensamente vissuta e all'intensità della passione felicemente goduta. La quale si era andata scoprendo e sviluppando in entrambi, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ecco perché, con una interpretazione dell'amore di quel tipo e in quei termini, si presentava del tutto ininfluente la procedura che veniva adottata dai popoli di Calput e di Abruok nella formazione delle coppie e nella cerimonia nuziale, al fine di conseguire un matrimonio che risultasse fra un uomo e una donna il più possibilmente saldo e duraturo.