245°-A BRENCO, IVEONTE AFFRONTA ED UCCIDE IL MOSTRUOSO REPTILUK

Iveonte, Tionteo e Speon verso mezzogiorno pervennero nelle vicinanze del quarto villaggio, che era Brenco, gli abitanti del quale al massimo potevano essere ventimila. I Brencani erano da considerarsi un popolo amante della pace, per cui avevano sempre evitato di farsi coinvolgere in una guerra con qualche popolo limitrofo. Secondo Speon, essendo persone laboriose, essi coltivavano la terra con passione; ma sapevano anche divertirsi, quando non si dedicavano ai lavori campestri. Pur di non annoiarsi, si davano a gare sportive e si inventavano giochi molto divertenti, i quali li tenevano applicati non mostrandosi oziosi, bensì in modo costruttivo ed intelligente. Quando il padre Vusto si dedicava al commercio, Speon, in periodi differenti, aveva avuto l'occasione di visitare il villaggio di Brenco almeno una decina di volte. Il genitore ci era andato sempre per motivo di lavoro, conducendo con sé ogni volta il figlio, dovendogli insegnare i trucchi del mestiere. Infatti, da grande, il suo unigenito, una volta che lui si fosse ritirato in pensione, quasi certamente avrebbe svolto la sua stessa professione.

Nel villaggio di Brenco, Speon aveva anche allacciato alcune amicizie. Ma era costretto a frequentarle saltuariamente, cioè quando il padre vi si conduceva con lui per motivi commerciali. Il giovane, che gli era risultato più simpatico e con il quale aveva anche stretto una grande amicizia, era stato Linkro. A proposito dell’amico, non vedendolo da quasi tre anni, gli avrebbe fatto molto piacere incontrarlo di nuovo. La sera precedente, perciò, mentre era dedito a consumare la cena con i suoi due salvatori, fra le altre cose, il Borchiese aveva voluto parlargli di lui.

«Amici,» si era dato a dire ad entrambi «dopo che avremo ripreso il nostro cammino, la qual cosa avverrà domani mattina, ci vorranno ancora cinque ore di galoppate, prima di raggiungere Brenco. In quel villaggio, ho un caro amico di nome Linkro, che rivedrei volentieri, se voi mi consentiste di andare a trovarlo. La gente che vi abita è molto cordiale verso i forestieri ed ama godersi la vita, evitando a tutti i costi di piangere e di essere pessimista. Anche la morte, per il popolo brencano, rappresenta un giorno di festa, per questo essi non l’accolgono mai con le lacrime; al contrario, si danno a festose manifestazioni, ossia a danze e a conviti. Inoltre, dopo la morte di qualcuno, il primo che nasce nel villaggio deve prendere il suo nome, anche se non si tratta di un loro congiunto. Anzi, una volta ricevuto il nome dell’estinto, in modo automatico il neonato diventa anche parente dei familiari della persona deceduta. Ovviamente, in questo caso viene tenuto presente il sesso del neonato, che deve essere uguale a quello del conterraneo morto, non potendo un uomo avere il nome di una donna e viceversa. Tale usanza non si rinviene in nessun altro villaggio della Regione dei Laghi. Comunque, non ho mai avvertito la necessità di criticarla in senso sia positivo che negativo. Il motivo? Io sono un tipo che accetta le tradizioni di qualsiasi popolo, come pure rispetta qualunque confessione religiosa.»

Tionteo allora lo aveva contraddetto, facendogli presente:

«Ma non possiamo criticare in senso negativo, Speon, quella persona che, essendo abituata ad agire diversamente, troverà una usanza del genere assai bizzarra e si rifiuterà di comprenderla. Tale suo atteggiamento, a mio avviso, sarebbe più che giustificabile, dal momento che nessuno può opinare che esso sia del tutto errato.»

«Invece, Tionteo,» gli aveva fatto presente Iveonte «non puoi fare un discorso simile, siccome anche un Brencano potrebbe allora comportarsi alla stessa maniera, riferendosi al nostro modo di gestire l'evenienza della morte. Non ti sembra? Perciò la cosa migliore è quella di non meravigliarci, quando vediamo altre persone fare cose a cui noi non ci abitueremmo mai. Naturalmente, soltanto per una questione di diversità culturale, la quale ci è stata fatta assimilare da bambini. In ogni società civile, invece, rispettare ciò che ci differenzia dagli altri deve diventare una delle regole fondamentali della nostra vita sociale.»

«Riflettendoci meglio, Iveonte, non posso darti torto. Il tuo ragionamento mi ha fatto valutare meglio la situazione, la quale mi ha convinto che prima mi ero immesso in una visione errata dell’esistenza umana. Ma adesso smetto di seguirla, essendo intenzionato ad allinearmi alla tua idea, la quale finisce sempre per essere quella più giusta.»

«A questo punto, Tionteo, considerato che abbiamo terminato di cenare, è giunto il tempo di metterci a dormire. Così domani all’alba riprenderemo il cammino, il quale ci condurrà direttamente a Brenco. Vedrai che raggiungeremo il nuovo villaggio intorno a mezzogiorno.»

Il mattino seguente, i tre giovani, rimontati sui loro freschi cavalli, si diedero ad una galoppata che aveva tutta l'intenzione di continuare, fino a quando non fossero giunti a Brenco. Dove si sarebbero riposati, ristorati ed avrebbero visitato l'amico di Speon, come gli avevano promesso.

Nel villaggio, a cui erano pervenuti da poco, Iveonte e Tionteo, anziché trovarvi la gaiezza alla quale aveva accennato il Borchiese, vi scorgevano unicamente un mortorio ed una desolazione indescrivibili. La giornata, presentandosi fortemente ventosa, lo rendeva ancora più squallido e minaccioso. Molte capanne apparivano disastrate e l'ilarità di un tempo sembrava che avesse abbandonato tutte le sue strade. Se ogni tanto veniva scorto qualche passante in una di esse, egli era solo intento a sottrarsi rapidamente a qualcuno o a qualcosa, ma non si era in grado di capire da chi o da cosa fuggisse. Allora, davanti a quel paesaggio spettrale, Iveonte si affrettò a chiedere all’amico di Borchio:

«Speon, se non erro, non è così che ieri sera ci hai descritto questo villaggio! All'inverso di quanto ci hai fatto credere tu, esso ci appare come un luogo di sfacelo e di infelicità! Riesci ad immaginarti cosa possa esservi successo, dall'ultima volta che ci sei stato con il tuo defunto padre? Se lo vuoi sapere, ho l'impressione che ci toccherà abbandonarlo alla svelta, non risultandoci esso il luogo ideale dove poter trascorrere delle ore spensierate, oltre che riposare e pranzare!»

«È vero, Iveonte, oggi anche a me Brenco appare un villaggio disastrato e non so spiegarmi questa sua brutta fine. Se non ti dispiace, vorrei andare a chiedere al mio amico cosa ha causato un simile terribile cambiamento del suo villaggio. Qui qualcosa di brutto sarà successo senz'altro e forse qualcuno continua ad usare il pugno di ferro contro tutti i Brencani. Perciò intendo domandarlo a lui personalmente, ammesso che riusciremo a trovarlo in casa. Allora tu e Tionteo mi fate questo grande favore, permettendomi di incontrarlo presso la sua abitazione, la quale è una delle poche in Brenco costruita interamente in pietra? Attendo il vostro generoso consenso, amici miei.»

«Ebbene, Speon, io e Tionteo riteniamo giusto accontentarti, per cui ti permettiamo di fare una veloce visita al tuo amico. Ad esserti sincero, più che conoscere lui, mi interesserà apprendere dalle sue labbra se nel suo villaggio qualcosa è andato storto in questo periodo. In caso affermativo, sarà mio dovere intervenire e riportare i suoi abitanti all'esilarante clima di un tempo, liberandoli da quanto non gli fa più vivere dei giorni beati di un tempo. Comunque, prevedo che i Brencani sono alla mercé di un guaio serio, che non è disposto ad abbandonarli!»

«Grazie, Iveonte, per aver deciso di farmi incontrare con il mio amico Linkro; ma soprattutto per esserti reso già disponibile ad aiutare i suoi conterranei, nel caso che li trovassimo in cattive acque. Ma non serve dirti che il tuo raro altruismo ti fa molto onore e ti accende di una luce, il cui splendore giammai si estinguerà nello scorrere dei secoli, a testimonianza delle tue azioni filantropiche, che non vengono mai meno.»

«Se agisco in questo modo, Speon, è perché in me è innata questa voglia di mettermi a disposizione degli altri, tutte le volte che essi hanno bisogno del mio aiuto. Adesso, però, affrettiamoci a raggiungere la casa del tuo compagno, ad evitare che il nostro viaggio venga a risentire di un’altra perdita di tempo, senza che ci sia una buona ragione.»

Di lì a poco, Iveonte e i suoi due amici erano già diretti alla casa di Linkro, facendo andare le loro bestie al trotto. Ma il villaggio seguitò a mostrarsi sempre uguale, siccome il suo squallore e il suo degrado non venivano mai meno; anzi, continuavano a produrre nei tre forestieri uno sgomento inimmaginabile. Inoltre, li lasciavano assai perplessi, a causa di quella strana situazione in cui versavano sia il villaggio che i suoi abitanti, che apparivano elusivi e sfuggenti, quando li incontravano. Dopo qualche miglio, invece, finalmente un passante si degnò di rivolgere loro la parola, ma solo per gridargli: "Andate via! Andate via, forestieri! Il Reptiluk può giungere a momenti! In quel caso, non ci sarà più salvezza per voi tre! Tutti i Brencani lo sanno e si tengono nascosti!"

A quelle grida dell'uomo, il quale stava rincasando in fretta, i tre giovani non sapevano come interpretare le sue parole. Tutto ciò che potevano fare in quella circostanza era chiedersi chi mai fosse il Reptiluk, a cui si era riferito lo spaventato passante. Egli, come aveva fatto comprendere, non intendeva starci un minuto di più in strada. Ma era stato Tionteo a porsi per primo le seguenti domande sull’accaduto:

«Avete sentito, amici, che qui si ha paura del Reptiluk? Mi domando cosa tale essere possa rappresentare di spaventoso per tutti i Brencani. Dalle poche frasi pronunciate da uno di loro, potremmo già arguire che si tratta di un terribile mostro. Invece voi due cosa pensate di tale nome, che non si fa ancora inquadrare in un contesto ad esso confacente?»

«Per il momento, Tionteo,» gli rispose Iveonte «c'è poco da pensare oppure da fantasticarci sopra, non avendoci egli detto nulla su questo Reptiluk. Ma dopo che avremo raggiunto l'amico del nostro Speon, ci faremo spiegare da lui quanto ce lo farà conoscere meglio nella realtà.»

«Hai ragione, Iveonte, a parlare così.» Speon approvò «Anche perché tra poco saremo a casa di Linkro e gli chiederemo ciò che sta succedendo nel suo villaggio e chi sarebbe poi questo Reptiluk, a cui si è riferito il suo conterraneo lungo la strada. Oramai ci separa dal suo palazzo circa mezzo miglio e presto lo contatteremo di persona!»

Con le parole del Borchiese ebbe termine la discussione fra i tre giovani, poiché dopo essi badarono solamente a pervenire alla casa dell'amico di Speon. Quando infine la ebbero raggiunta, si arrestarono, smontarono dai loro cavalli e si prepararono a bussare alla sua porta. Infatti, ora ci si trovava davanti ad una modesta abitazione costruita con pietre di tufo, la quale non aveva nulla a che vedere con le numerose capanne costruite con materiale deperibile, ossia con rami e foglie. Anche in quel posto, come essi si avvedevano, non si riusciva ad avvistare anima viva, per cui non c'era la possibilità di chiedere ed ottenere qualche informazione utile da parte di qualcuno, sebbene adesso non ce ne fosse più bisogno, essendo a due passi la casa dell’amico di Speon. Il quale, dopo che si fu avvicinato al suo ingresso, si diede a bussare alla porta con moderati colpi di nocche della mano destra. Vedendo poi che nessuno gli apriva dall'interno, il giovane cercò di colpire i due battenti con maggiore vigoria. Intanto però si dava a gridare forte: “Linkro, per favore aprimi! Sono Speon, il figlio di Vusto, il tuo amico di Borchio! Non puoi esserti dimenticato di me e di mio padre, dopo un biennio che non ci siamo più visti! Ti prego di aprirmi questa benedetta porta!”

Alla nuova vigorosa bussata, la quale questa volta era stata fatta accompagnare da parole chiarificatrici, si aprì subito l'uscio di casa e si affacciò un uomo anziano. Egli, avendo riconosciuto Speon, con gli occhi pieni di lacrime, si lanciò ad abbracciarlo. Subito dopo gli disse:

«Entra pure, benedetto ragazzo! Anche i tuoi amici possono accomodarsi, poiché l'ospitalità nella mia casa è estesa anche a loro due. Perciò mettetevi comodi nell’interno di essa tutti e tre!»

Quando i tre giovani ne ebbero oltrepassato la soglia e vi ebbero posto piede, l'uomo si preoccupò di richiudere la porta, facendo apparire dal suo volto un malcelato terrore. Anzi, le tre persone ospitate, avendo notato che il suo animo era prostrato dal dolore, si chiedevano cosa mai glielo avesse reso affranto in quel modo angosciante. Ma esse, come vedremo, avrebbero avuto molto presto la risposta alla loro domanda.


Una volta che i tre giovani si furono messi a loro agio, sedendo su aggraziati sofà, il padrone di casa, il cui nome era Hertos, chiamò anche la moglie Itran e il figlio Nour, siccome essi erano in un altro locale. Quando poi i due familiari fecero la loro comparsa, li invitò a ricevere i loro ospiti e a fargli compagnia. Allora la donna e il figlio diciassettenne, avendo riconosciuto Speon, non gli fecero mancare il loro abbraccio e il loro caloroso saluto, prima che si desse inizio alla loro conversazione con gli inattesi visitatori. Il primo dei presenti a prendere la parola fu l'anfitrione, il quale si affrettò a domandare al figlio di Vusto:

«Vuoi dirmi, mio caro Speon, cosa ha condotto te e i tuoi amici nel nostro villaggio? Ad ogni modo, devo avvisarvi che non potevate scegliere un momento peggiore per visitare Brenco!»

«Se lo vuoi sapere, Hertos, noi siamo soltanto di passaggio da queste parti. E siccome mi sono ricordato che in Brenco c'era il mio grande amico Linkro, cioè il tuo primogenito, ho chiesto ai miei attuali due compagni qui presenti di appagare il mio desiderio, che era quello di vederlo. A proposito, perché mai egli non si è precipitato a salutarmi e ad abbracciarmi, come mi sarei aspettato, memore della nostra bella amicizia? Forse egli in questo momento si trova fuori casa?»

A quella domanda di Speon rivolta all'intero nucleo familiare, subentrò in casa un clima di tristezza, peggiore di quello che già predominava prima. Alla padrona di casa, invece, essa provocò una costernazione profonda, per cui i suoi occhi cominciarono a versare parecchie lacrime di afflizione, le quali si diedero a scenderle lungo le gote, bagnandole il viso. Allora, essendo sopravvenuto il nuovo quadro della situazione ad avvelenare ulteriormente l'atmosfera dolorosa che si respirava in casa, Speon si sentì legittimato ad intervenire nelle inquietanti faccende della famiglia del suo amico. Perciò si espresse in questo modo a loro tre:

«Qualcuno di voi, vuole riferirmi cosa sta succedendo in questa casa? Se poi è già accaduto, mi aspetto da voi che mi mettiate al corrente di tutta la verità. Ma sono sicuro che quanto nella vostra casa suscita immenso dolore ha attinenza con quanto di funesto ci è apparso di scorgere nell'intero vostro villaggio. Quindi, vorremmo apprendere da voi le brutte novità che ci sono state nella vostra casa e fuori di essa, dall'ultima volta che vi sono stato e vi ho trascorso delle ore felici insieme con il mio compagno Linkro. Se non sbaglio, per vostra disgrazia, tali cattive novità seguitano a permanervi!»

Dopo che il giovane borchiese ebbe parlato in quella maniera, per aver preso spunto dall'assenza dell'amico e dal pianto improvviso della madre, gli rispose l'uomo di casa:

«Speon, Linkro, non è più tra noi, poiché la sorte ha voluto portarselo via un mese fa, quando i suoi anni erano solamente ventidue. Ma noi non piangiamo la sua morte, poiché noi Brencani non ci facciamo impressionare da essa; anzi, come anche tu sai, l'accogliamo con danze e feste. Invece ci ha messi in un gran dissesto psichico e spirituale il modo in cui essa si è presentata al nostro congiunto. La sua dipartita non è stata causata né da un morbo maligno né da una calamità naturale, le quali cose ci avrebbero permesso di celebrargli delle onoranze funebri e di bruciare le sue spoglie sopra un rogo, perché venissimo in possesso delle sue ceneri e ce le conservassimo con cura e devozione. La stessa cosa sta avvenendo anche a tantissime altre persone del nostro villaggio, per cui nelle loro case e nelle loro capanne si sta consumando la medesima disperazione, che non si ha difficoltà a scorgere anche tra queste mura domestiche.»

«Allora, Hertos, perché non ci dici come avvengono le morti nel vostro villaggio, dal momento che le malattie e i fortuiti incidenti mortali qui non c'entrano? Ti esorto a riferircelo, poiché dopo il mio caro amico Iveonte, che vedi alla mia destra, potrebbe fare in modo che ciò non vi succeda più. Ti prego di avere la massima fiducia in lui!»

«Tu non puoi immaginare, Speon, con chi in Brenco abbiamo a che fare! Quindi, non venire a dirmi cose che non potrebbero mai avverarsi, specialmente poi se il loro compimento dovrebbe esserci da parte di un solo uomo! Senza alcuna intenzione di offendere il tuo amico, mi riferisci quale impresa eccezionale egli ha già compiuta, per avere di lui la massima considerazione e per reputarlo idoneo a risolvere il nostro problema, di cui non ti ho ancora parlato né in generale né in particolare?»

«Hertos, non ti basta sapere che il mio amico Iveonte ha affrontato ed ucciso i fratelli Kirpus, per cui la loro morte priverà tutti i villaggi della Regione dei Laghi della loro pestifera presenza e recherà ai loro abitanti sollievo, serenità e molto gaudio?»

«Senza dubbio, la sua è stata una splendida impresa; ma non posso affatto considerarla tale, da essere paragonata a quella che ci vorrebbe per liberare il nostro popolo dal terribile Reptiluk. Si tratta di un essere mostruoso che neppure mille uomini bene armati riuscirebbero a neutralizzare mediante ammazzamento, del quale è rimasto vittima anche mio figlio Linkro. Perciò, dopo quanto ti ho fatto presente, puoi soltanto ricrederti sul giudizio manifestato nei confronti del tuo amico, non potendo egli essere all'altezza della situazione. Ciò vuol dire che noi Brencani dobbiamo continuare a convivere con la nostra disgrazia e con il nostro terrore, tollerando l'una e l'altro con immensa rassegnazione.»

Alle parole del padrone di casa, se Speon si strinse nelle spalle e non osò controbatterlo, intervenne invece Tionteo a prendere le difese del suo amico. Secondo il suo parere, non potevano esserci ostacoli insormontabili per lui. Perciò fece presente al padrone di casa:

«Hertos, non puoi parlare così del mio compagno citato da Speon. Se di questo Reptiluk non conosciamo un accidente qualsiasi, neanche tu conosci alcuna cosa di Iveonte, ad incominciare dalle sue potenzialità in ogni campo. Ma sono convinto che, qualunque siano le caratteristiche perniciose di questo essere mostruoso, esse giammai potranno risultare tali, da non permettergli di batterlo e di ucciderlo.»

«Allora, Tionteo, dal momento che le nostre vedute non collimano in merito ad un ipotetico scontro tra il Reptiluk e il vostro prodigioso amico, adesso mi metto a riferirvi i danni che il mostro riesce ad arrecare al nostro villaggio e le stragi che esso vi compie tra i suoi abitanti. Riguardo poi alle sue caratteristiche fisiche, sarà mio figlio Nour a descrivervele, poiché egli assistette ad una sua apparizione improvvisa insieme con il fratello maggiore, durante la quale mio figlio Linkro ne rimase l’ennesima vittima. Così, dopo che Iveonte avrà appreso ogni cosa sul Reptiluk, sarà lui stesso a dirci se è in grado di potercela fare contro il mostro di Brenco, il quale è diventato il nostro carnefice.»

A quel punto, il padre del defunto amico di Speon si mise a raccontare le disavventure che venivano causate al popolo brencano dal mostro, iniziando il racconto daccapo, ossia dalla sua prima disastrosa comparsa nel loro tranquillo villaggio. Esso fu il seguente:

"Si era nel cuore della notte, quando il mostruoso essere, che era stato da noi nominato Reptiluk, ci fece la sua prima visita. In verità, esso non si presentò in modo turbolento e non provocò il batticuore in nessuno degli abitanti del villaggio. Ad una parte della popolazione ogni cosa sembrò non aver subito danni; come pure a quanti erano svegli la nottata parve uguale alle altre, poiché essi non avvertirono nelle vicinanze neppure il minimo scricchiolio oppure il più esile lamento. Invece fu l'arrivo del nuovo mattino a mettere la nostra gente di fronte al fatto compiuto. Esso aveva riguardato la distruzione di una ventina delle capanne e la sparizione della quasi totalità delle persone che le abitavano, visto che qualcuna riuscì a cavarsela. Quelle poche rimaste illese, però, non seppero dare delle notizie certe sull'essere che aveva deciso di disturbare in modo devastante e cruento le loro abitazioni. Esse avevano solamente avvertito un enorme fruscio che si aggirava nei dintorni, buttando giù le loro capanne e divorandosi coloro che vi dormivano dentro. Durante le ricerche effettuate sotto il materiale disfatto che era servito a formarle, c'era stata la scoperta di diverse macchie di sangue, per la qual cosa ipotizzammo che le vittime erano state sbranate ed uccise, prima di venire fagocitate.

Dopo quella notte maledetta che si ebbe tre mesi fa, in Brenco seguì un clima di paurosa attesa, siccome in ognuno di noi venne a spadroneggiare il timore che quanto prima l'ignoto mostro sarebbe ritornato nel villaggio a reclamare il suo alto tributo di sangue e di grave rovinio di capanne. Ma non si sapeva se esso sarebbe stato capace di abbattere anche una casa costruita con blocchi di tufo, come la nostra. Ce ne convincemmo soltanto dopo la sua terza visita notturna, quando cioè ne rimase abbattuta e sgretolata anche una di tali costruzioni. Di regola le sue scorrerie avvenivano sempre di notte, senza assegnare alle medesime un andamento ciclico, che potesse far prevedere quando sarebbe avvenuta la successiva sua incursione per prevenirla. Invece le sue comparse si rivelavano delle autentiche razzie repentine, senza mai presentarsi dopo lo stesso numero di giorni. Almeno fino a quando non trascorsero due mesi dalla nottata in cui ce lo trovammo tra i piedi per la prima volta, le cose certe che lo riguardavano erano soltanto due: la prima ci diceva che le sue apparizioni si avevano sempre di notte; mentre la seconda ci rendeva consapevoli che ignoravamo le sue esatte caratteristiche fisiche. Invece, ad un bimestre esatto dall'inizio delle sue stragi e delle sue devastazioni, il Reptiluk decise di cambiare almeno l'abitudine che lo spingevano a visitarci solo di notte. Infatti, la sua visita improvvisa avvenne in pieno giorno e proprio quando i miei due figli erano fuori casa, i quali ebbero la disgrazia di trovarsi in sua presenza. Perciò adesso ci penserà il mio Nour a parlarvi di quell'orrendo episodio, il quale cagionò una terribile morte ad una decina di Brencani, tra i quali ci risultò essere anche il mio primogenito, e scioccò quanti assistettero allo sterminio di persone e allo sfascio di cose da lui provocati. Egli, suo malgrado, si trovò sul posto, in qualità di testimone oculare."

All'invito del padre di andare avanti al posto suo nel racconto da lui iniziato, il secondogenito di Hertos immediatamente si diede a parlare di quel terrificante e tragico giorno della sua apparizione.


"Si era a metà pomeriggio, quando mio fratello ed io uscimmo di casa perché dovevamo incontrarci con alcuni nostri amici per stare un poco insieme e darci alle nostre abituali conversazioni pomeridiane. Infatti, era quella l'ora del giorno che noi giovani eravamo soliti riunirci, convinti che il Reptiluk non faceva le sue apparizioni durante le ore di luce. Di preciso, ci incontravamo nello spiazzo che si trova al centro del nostro villaggio, la cui ampiezza ci permetteva anche di darci a volte a svariati giochi, i quali ci facevano dimenticare la paura. Quel giorno la nostra discussione verteva esattamente sul mostruoso Reptiluk. Essa cominciò, dopo esserci stato il confidenziale saluto fra noi giovani. Allora, per primo, il nostro compagno Uriul ci propose:

«Amici, oggi perché non ci interessiamo al mostro Reptiluk? Così cercheremo di immaginarcelo in qualche maniera, anche perché, a causa delle tenebre, nessuno mai è riuscito a vederlo dal vivo e a conoscere le sue caratteristiche fisiche. Allora ci state tutti a parlarne?»

«Ma cosa ti salta in testa, Uriul!» lo riprese Carpes, che faceva pure lui parte della nostra comitiva «Noi veniamo qui per distrarci e per non pensare a tale malefica creatura; invece tu ci proponi addirittura di occuparci di lui per prefigurarcelo nella mente come esso potrebbe essere realmente. Io ti suggerisco di rinunciare all'istante a questa tua idea bislacca, se non vuoi andare incontro alla nostra totale riprovazione!»

«Al contrario di te, Carpes, ci tengo a parlare del Reptiluk. Vuoi conoscerne la ragione? Secondo me, quanto più parliamo del mostro, tanto meno ne proviamo spavento. Ne sono certo!»

«Se la pensi così, Uriul, possiamo anche darti ascolto ed intraprendere la nostra conversazione sulla mostruosa creatura. Se poi qualcuno di noi si sentirà male, ti prenderai tu la responsabilità del suo breve malore, il quale potrebbe anche procurargli uno svenimento!»

A quel punto, non ci fu tempo neppure di ascoltare la risposta di Uriul, quando all'improvviso scorgemmo un certo numero di persone che scappava da ogni parte, alcune anche nella nostra direzione. Si trattava di un fuggifuggi generale di gente, la quale tentava di sottrarsi a qualcosa che l'aveva atterrita e continuava a farlo. Da parte nostra, non sapevamo come comportarci e quale iniziativa prendere. Anche se avessimo voluto fuggire, ignoravamo in quale direzione, poiché i nostri conterranei, dandosi ad un frenetico movimento, non ci facevano capire in quale posto esatto era situato il pericolo da cui bisognava allontanarsi il più possibile e alla svelta. Alla fine il frastornamento e l'indecisione consigliarono ognuno di noi di prendere la via di casa, incuranti della reale minaccia che nel villaggio incombeva su ciascun abitante, senza che nessuno potesse considerarsi estraneo ad essa.

Allora anch'io e il mio fratello maggiore decidemmo di fare la medesima cosa, cercando di raggiungere con la massima velocità la nostra abitazione, sicuri di trovarvi un sicuro rifugio. Lungo la strada fummo raggiunti dal Reptiluk, il quale già aveva iniziato da tempo a devastare capanne e a seminare vittime, che poi divorava; ma prima le abbrancava con la bocca e le stritolava con le zanne. Ebbene, mentre eravamo dediti alla nostra corsa precipitosa, ad un certo punto, in un attimo mi ritrovai senza avere più al fianco il mio caro germano. Non vedendolo più, mi fermai di colpo e mi volsi a guardare alle mie spalle, volendo rendermi conto della fine che egli aveva fatto. Allora scorsi la mostruosa bestia, mentre maciullava il corpo senza vita di Linkro, tenendoselo stretto nel cavo orale. Se la sua testa si trovava già nelle fauci del mostro, le sue gambe invece penzolavano ancora all'esterno del suo grosso muso. In quella circostanza, compresi che, se le vittime non emettevano nessun urlo, ciò era dovuto al fatto che il Reptiluk le sorprendeva con un morso istantaneo dato alla loro testa. Il quale, nello stesso tempo, riusciva a strozzarle e a reprimere il loro apparato fonatorio.

In merito poi alle sue caratteristiche mostruose, adesso passo a descrivervele. La sua costituzione fisica era simile a quella di un serpente dalle dimensioni enormi, poiché la sua lunghezza superava i cinquanta metri, mentre il suo corpo cilindrico poteva avere un diametro di un metro. In riferimento alla sua testa, essa risultava tre volte più grande di quella di un grande alligatore, con la quale aveva anche una certa somiglianza. Invece il suo spesso tronco aveva un'agilità uguale a quella dei serpenti e una forza dieci volte maggiore di quella che aveva la proboscide di un elefante. Per cui esso non ci metteva niente a sradicare alberi, a demolire capanne e case, comprimendole con le sue gigantesche spire. Il cui numero intorno alla sua preda, vivente o non vivente che fosse, dipendeva dalla grandezza e dalla resistenza che essa poteva opporgli. Così più ne erano, più poteva contare su una forza maggiore, poiché la sua compressione era proporzionata al numero delle sue spire. La sua tecnica, nel caso di un essere animale o di un uomo, consisteva nel cogliere prima la sua vittima di sorpresa, arrivandole alle spalle in modo silenzioso. Dopo, prendendole in bocca la testa, le reprimeva il respiro e la privava della fonazione. Infine si dava a triturarla e a buttarla giù nello stomaco attraverso le sue gigantesche fauci.

Il giorno dopo, nel villaggio si venne a sapere che le vittime dell'ultima aggressione del mostro erano state una decina tra donne e uomini. Vi erano compresi, oltre a Linkro, i miei amici Carpes ed Uriul. Ma ora, voi che mi avete ascoltato fin qui, per favore non mi chiedete di soffermarmi sulla tragica morte del mio povero fratello. Se lo faceste, mi costringereste ad una sofferenza immane, a cui non voglio sottopormi."

«Puoi starei tranquillo, ragazzo,» gli rispose Iveonte «perché non abbiamo intenzione di farti rivivere una esperienza così traumatica e crudele, non essendo noi abituati a far soffrire la gente. Al contrario, cerchiamo di trarla dalla sofferenza, ogni volta che essa la subisce.»

«Anche nel nostro caso, intrepido giovane,» intervenne poi a domandargli il padrone di casa «altruisticamente ti prenderesti la briga di venirci incontro? Siccome prima ci hai manifestato l'intenzione di aiutarci, anche dopo quanto hai appreso da mio figlio Nour, rimani della stessa idea e ti senti di affrontare e di uccidere il Reptiluk?»

«Puoi esserne certo, Hertos! La vostra sventura è troppo grande, per non lasciarmi impietosire da essa e per non venire in vostro soccorso. Quindi, oggi stesso mi metterò alla ricerca del mostro, il quale in Brenco vi ha reso la vita un vero inferno. Te lo prometto! Nel frattempo, però, i miei amici Tionteo e Speon resteranno protetti qui nella tua casa, siccome non posso mettere a rischio la loro vita, mentre essi mi accompagnano. Sono sicuro che il Reptiluk ha la sua dimora all'interno del bosco ed io andrò a scovarlo proprio in quel luogo!»

Iveonte fece anche presente che sarebbe andato a caccia del mostro subito dopo pranzo, come appunto fece. Prima di lasciare la casa dove erano ospitati, però, egli ricevette dai suoi due amici e dai tre familiari di Linkro un sincero "In bocca al lupo!". Quando poi il giovane eroe ebbe lasciato la sua casa, Hertos chiese ai suoi amici:

«Siete sicuri che Iveonte è in grado di combattere contro il Reptiluk e di uscirne pure vittorioso? Io ne dubito, per cui già avverto che dovrò piangermi anche la sua morte!»

«Hertos, non preoccuparti per il mio amico Iveonte,» gli rispose Tionteo «perché non esiste al mondo un pericolo che egli non sia in grado di eliminare. Te lo garantisco! L'impresa condotta contro i fratelli Kirpus è ben misera cosa a paragone delle altre compiute in terre molto lontane da qui. Quindi, puoi stare tranquillo che a lui non succederà nulla di male; invece dovrà essere il mostro a temerlo, poiché oggi stesso la sua esistenza avrà fine. Con la sua morte, avranno termine anche le sofferenze e le paure degli abitanti del villaggio di Brenco. Essi finalmente ritorneranno a sorridere alla vita, proprio come facevano un tempo.»


Iveonte si mosse dal villaggio, quando mezzogiorno era trascorso da due ore. Nel dare la caccia al Reptiluk, più che lasciarsi guidare dal suo fiuto, egli si serviva della vista, dal momento che il mostro, a causa della sua conformazione fisica tubolare che lo costringeva a muoversi come un serpente, lasciava sul terreno una impronta molto visibile. Per la qual cosa, esso non poteva sfuggire agli occhi di chi si metteva sulle sue tracce per individuare la fine del suo percorso e anche la sua dimora. Dunque, seguendo la lunga orma lasciata dal suo corpo sul suolo, la quale vi appariva come una leggera pressione a forma di arco prodotta sul terreno, Iveonte era convinto di giungere fino al suo rifugio, dove avrebbe ingaggiato l'ardua lotta contro di esso nel modo possibile. Ma, anche dopo averle seguite per una buona mezzora, le sue tracce seguitavano ad andare avanti nella vasta zona boschiva. Esse, pur avanzando nel sottobosco e in mezzo ad alberi secolari di altissimo fusto, proseguivano senza alcuna interruzione, la quale avrebbe potuto far pensare alla sua presenza in loco o in un suo covo riposto e tranquillo nelle vicinanze. Allora ci fu bisogno di un altro quarto d’ora di ricerca, prima che si arrivasse alla loro fine. In quel luogo in cui Iveonte la ritenne raggiunta, la vegetazione si presentava rada, come pure gli alberi non erano molto vicini fra loro. Al centro di esso, però, si elevava un albero gigantesco, la cui altezza poteva raggiungere i centocinquanta metri. Perfino il suo tronco alla base si mostrava incredibile, poiché ci sarebbero volute almeno cinque persone adulte per cingerlo per intero con le loro braccia allungate lateralmente. Ebbene, le impronte del Reptiluk avevano termine proprio ai piedi di tale albero, dove non si intravedeva alcuna buca profonda che avesse potuto dargli ricetto e nasconderlo alla vista di coloro che venivano a trovarsi in quel posto.

Quel fatto strano fece stupire abbastanza il nostro eroe, siccome un mostro della stazza del Reptiluk non poteva celarsi facilmente dietro nessun elemento cespuglioso, per quanto grande potesse essere. Per questo non era possibile che esso in quella zona ristretta riuscisse a scomparire alla vista di quanti vi capitavano. Anzi, agli occhi di ogni persona in quel luogo non sarebbe potuto sfuggire neppure un capriolo che si fosse trovato a muoversi anche ad un centinaio di metri di distanza. Perciò cosa bisognava pensare di un essere mostruoso, il quale, pur avendo una stazza enorme, nei dintorni non si lasciava intravedere, pur rinvenendosi in quel luogo le sue ultime orme? Esse facevano notare che il mostro, dopo esservi pervenuto, non se n’era più allontanato. Così Iveonte, essendosi applicato a sufficienza alla questione del Reptiluk da lui ricercato, alla fine il ragionamento lo condusse alla seguente conclusione: se non si scorgeva su quel territorio circoscritto alcuna tana profonda in grado di dargli ricetto, era giocoforza pensare che esso si trovasse nascosto tra i rami dell'altissimo albero, il quale riusciva ad ospitarlo senza difficoltà. Quindi, secondo lui, il mostro doveva trovarsi attorcigliato intorno al suo tronco, la cui lunghezza verso l’alto si presentava tripla di quella del suo corpo. Il quale adesso di sicuro formava varie spire, alternandosi ai suoi rami frondosi, che se ne dipartivano.

Allora, essendosi il giovane eroe convinto che la sua ipotesi poteva essere soltanto giusta, non essendocene altre da formulare al riguardo, ora andava cercando l’efficiente rimedio che fosse stato in grado di costringerlo ad abbandonare la sua dimora, la quale poteva essere costituita unicamente dalle varie parti dell'albero. L'espediente, però, avrebbe dovuto anche permettergli di colpire con la sua spada la parte del mostro che conteneva il cervello, ossia il lato superiore della testa. Assestandogli un poderoso colpo su quella sua parte anatomica, egli gli avrebbe troncato anche l'intera mascella. La qual cosa, però, sarebbe dovuta avvenire, mentre il viscido corpo del mostro si staccava dal tronco dell'albero alla stessa maniera che vi si era insinuato nella salita. Ma, secondo il pensiero del giovane, il distacco da esso dell'inusitato serpente poteva avvenire alla base dell'enorme vegetale, ad iniziare dalla sua testa. Per questo egli lo avrebbe atteso al varco per portare a termine la sua impresa umanitaria. Circa poi il mezzo ingegnoso che doveva obbligare il Reptiluk a lasciare l'albero, a parere di Iveonte, esso poteva avvenire, soltanto se egli avesse acceso alla sua base un piccolo fuoco e vi avesse prodotto molto fumo. Il quale, spingendosi verso l'alto, avrebbe messo sul chi va là il feroce rettile. Infatti, al primo segnale del fumo che avanzava verso la cima, ad evitare di bruciare vivo, il bestione si sarebbe affrettato a sfrattare dall'albero su cui si trovava sistemato. Inoltre, per accendere il fuoco con dei rami secchi, gli occorrevano un acciarino e una pietra focaia, che egli si portava sempre appresso, conservati l'uno e l'altra nella scarsella appesa alla sella del proprio cavallo.

Una volta messosi all’opera, l’eroe dorindano, dopo avere ottenuto le prime fiamme, cercò di attizzarlo il più possibile, per ricavarne un bel fuoco. Dopo esserci riuscito, si diede ad alimentarlo con rami e foglie verdi, poiché tali prodotti vegetali avrebbero dato origine a molto fumo. Quando infine quest'ultimo iniziò ad espandersi verso l'alto e a penetrare la parte frondosa dell'albero, Iveonte attese con pazienza la discesa del Reptiluk dall'alto fusto, poiché essa ci sarebbe stata senza meno e con la massima sollecitudine. Ma avendo il tronco dell'albero una considerevole circonferenza, esso poteva non permettergli di intravederlo, intanto che discendeva verso il suolo. Egli, però, propendeva che la sua discesa sarebbe avvenuta sullo stesso lato dove aveva acceso il fuoco. Per questo, tenendosi seminascosto alla sua vista, aspettò che il mostro si presentasse a terra, da un momento all'altro. La sua ipotesi fu azzeccata, siccome lo vide strisciare lungo il tronco già a cinque metri di altezza sul lato frontale del fuoco. Da parte sua, Iveonte lo attendeva, stando celato sul suo lato destro e controllandolo a vista dal suo posto di osservazione, evitando di fargli notare la propria presenza.

Così, tenendolo sottocchio in quella maniera, Iveonte alla fine riuscì a scorgerlo, mentre la sua testa restava sollevata a circa mezzo metro dal suolo e la presenza del fumo non gli consentiva di scorgere nitidamente le cose che gli stavano accadendo intorno. Fu proprio quello il momento in cui il giovane decise di approfittarne per assestargli il colpo letale e raggiungere così il suo scopo. Infatti, in un baleno, abbandonata la sua posizione seminascosta, assalì il Reptiluk con la spada già sguainata e gli sferrò un colpo poderoso nella parte in cui era situato il cervello. Nonostante però la profonda trafittura da lui operata, il mostro non parve risentirne nella misura sperata dal suo colpitore. Per la qual cosa, esso cercò di reagire in modo pericoloso a chi gli aveva sferrato il colpo. Ma Iveonte, da parte sua, non volle dargli l’opportunità di assalirlo e di agguantarlo tra le sue fauci. Perciò, colpendolo questa volta di taglio sul capo, mettendoci però tutto il proprio vigore, egli riuscì a troncargli la sua parte superiore, lasciando intatta la sola mandibola e scoperchiando l'intera arcata inferiore, che era provvista anch’essa di grosse zanne. In verità lo stesso colpo, troncandogli buona parte della testa, aveva reso morente il Reptiluk, il quale, prima di essere abbandonato del tutto dall’esistenza, attraverso il grosso taglio si diede a versare una gran quantità di liquido ematico, che si sparse ovunque sul suolo.

Ucciso l'essere mostruoso, il quale era stato il terrorizzatore del villaggio di Brenco, divorando tanti suoi abitanti e distruggendo molte sue capanne, Iveonte se ne ritornò al palazzo di Hertos per annunciargli la lieta notizia, ossia la morte del temuto Reptiluk. Allora il facoltoso Brencano, avendola appresa con la massima gioia, volle immediatamente renderne partecipi tutti i suoi conterranei; ma per farlo, dovette uscire di casa, accompagnato dal figlio e dai suoi tre ospiti. Aggirandosi per le vie del villaggio, egli andava gridando ai Brencani che, grazie all'eroico forestiero, da quel giorno non ci sarebbe stato più nel loro villaggio il mostro che gli arrecava solo disperazione ed uccisioni. In verità, la quasi totalità dei conterranei non gli credette; anzi, essi pensarono che Hertos fosse impazzito, dopo che il Reptiluk gli aveva divorato il primogenito Linkro. Invece quei pochi, che stabilirono di concedergli la loro fiducia, pretesero da lui di mostrargli il corpo inanimato dell'orribile mostro. Allora Iveonte non trovò difficoltà ad accompagnarli sul luogo dove lo aveva ucciso. Inoltre, fece loro presente che, per disfarsi del suo corpo, essi erano obbligati a bruciare l'intero albero, ammucchiandogli intorno una grandissima quantità di legna ed appiccando poi il fuoco ad essa.

Dopo che la minoranza brencana si fu accertata che Hertos diceva la verità, essa si diede a convincere gli altri abitanti del villaggio che finalmente la loro lunga odissea era terminata, essendo stato ucciso l'essere odioso che, fino a quel momento, gliel’aveva imposta con la forza. Alla fine si procedette alla sua distruzione totale, seguendo il suggerimento di Iveonte. Per cui, insieme con l'albero, restò incenerito anche l'intero corpo del mostro. Avvenuta la sua cremazione, si procedette alla ricostruzione delle capanne distrutte, affinché i loro superstiti ritornassero ad abitarle con la vitalità di un tempo. Ovviamente, nei tre giorni che seguirono, nel villaggio di Brenco ci furono anche dei festeggiamenti in onore dell'eroe venuto da fuori. Durante i quali, non mancarono danze e pranzi, che si svolsero all'insegna dell'ottimismo e della gioia più sentita, da parte dei loro animi e dei loro cuori. I quali adesso si mostravano in preda ad un giubilo, che non aveva più voglia di giungere al termine.

Anche quando i tre giovani si congedarono dagli abitanti di Brenco, costoro non smettevano di inneggiare al glorioso eroe, che li aveva salvati dal Reptiluk, facendogli dono di numerose ed ottime cibarie da consumare durante il loro viaggio verso l'isola di Tasmina. Ma esso si presentava appena all'inizio. Adesso, secondo l'itinerario previsto, la loro nuova tappa sarebbe stata Polsceto. Ma in quest'ultimo villaggio, essi sarebbero venuti a conoscenza della misteriosa setta delle Teste di Lupo. La quale, nella Regione dei Laghi, aveva iniziato ad operare su vasta scala dei rapimenti di bambini e di vergini ventenni.

In realtà, chi erano le Teste di Lupo? E perché mensilmente esse rapivano una ragazza di venti anni nel villaggio di Polsceto? Inoltre, che destino le medesime assegnavano alle vergini fanciulle da loro rapite? A proposito dei loro ratti mensili, venivano essi effettuati anche negli altri villaggi della zona? Avere la risposta alle quattro domande appena formulate è lo stesso che trovarsi faccia a faccia con una realtà spesso cruda ed esacerbante, a volte perfino traumatica e raccapricciante. Essa, nella sua esplicazione e manifestazione all’interno di contorni quasi sempre foschi ed inumani, ci metterà a nudo una storia impressionante. Inoltre, lungo l’intero suo svolgimento, lascerà dei solchi profondi di una empietà incredibile, che il lettore potrà soltanto avere a sdegno, una volta che l’avrà appresa e l’avrà vissuta con la mente.