239°-LA PRINCIPESSA GODESIA INCONTRA I NONNI MATERNI E LA ZIA CLENINA

L’indomani, essendo il giorno delle udienze civili e penali, il re Francide si presentò nella sala del trono per amministrarvi la giustizia. Allora il cerimoniere di corte gli fece presente che quella mattina c’erano soltanto due casi da essere sottoposti al suo giudizio. Nel primo, egli si sarebbe dovuto pronunciare su un reato di latrocinio, per cui l’accusatore reclamava la restituzione di quanto gli era stato rubato. Nel secondo, invece, avrebbe dovuto giudicare un reato di omicidio, che era stato consumato da una donna ultratrentenne. L'accusata dichiarava di esserci stata costretta a commetterlo, per cui giustamente invocava dal re la legittima difesa. Ma essendo già abbastanza informato sul primo caso, anzi lo aveva perfino risolto nel proprio ambito familiare, il sovrano lo portò a termine in poco tempo. Infatti, quando il mercante Cussio fu in sua presenza, fece subito intervenire le guardie alle dipendenze di Urimmo. Allora esse lo tradussero subito in una cella delle carceri.

In riferimento al secondo caso, il sovrano non poté cavarsela con la stessa rapidità, poiché il processo prese corpo su due versioni dei fatti. L’una veniva promossa dalla moglie della vittima, il cui impianto accusatorio tendeva a colpevolizzare ad ogni costo l’accusata. L’altra era portata avanti da colei che si dichiarava non colpevole, per aver commesso il fatto unicamente per difendersi da uno stupro. Difatti l’uomo ucciso, approfittando della momentanea assenza della moglie da casa, aveva deciso di perpetrarlo con la violenza nei suoi confronti. Quindi, per capirci meglio come stavano realmente le cose, il re Francide invitò ciascuna di loro ad esporre i fatti che avevano portato all’assassinio del marito dell’accusatrice. La prima a parlare fu la consorte della vittima, la quale si diede a fare la dichiarazione che viene qui sotto riportata.

"Il mio nome è Suinna, mentre quello del mio povero marito defunto era Bluiso. Era appena un anno che avevamo assunto nella nostra casa la qui presente assassina, perché mi desse una mano nel disbrigo delle varie faccende domestiche. Noi le concedevamo la massima fiducia, lasciandola molto spesso da sola in casa nostra. Ciò capitava, quando andavamo a fare visita ad un nostro parente o conoscente. Comunque, già dopo un mese che faceva i mestieri in casa nostra, ella, a mia insaputa, si diede a fare la smorfiosa con il mio consorte, facendogli intendere che volentieri le si sarebbe concessa, se egli fosse stato generoso con lei. Il mio Bluiso, però, essendo innamorato pazzo di me, non si è mai lasciato sedurre da lei. Inoltre, ad evitarmi una grande amarezza, ha sempre cercato di nascondermelo, anche perché avevo bisogno dei suoi servizi, dopo essere divenuta di salute abbastanza cagionevole.

L’altro ieri, invece, mio marito è rientrato, mentre stavo dalla mia vicina di casa. È stato allora che egli l’ha sorpresa in casa che rubava i miei gioielli; anzi, in quel momento se li stava nascondendo in uno dei suoi indumenti personali. A quella vista, il mio caro Bluiso le si è avventato contro e ha cercato di toglierglieli. Essi, però, sono caduti per terra, per cui mio marito si è chinato verso il pavimento con l’intenzione di raccattarli. È stato allora che la ladra ne ha approfittato per impossessarsi di un pugnale appeso alla parete vicina e colpirlo malvagiamente con esso alla schiena. Mentre veniva pugnalato, il mio disgraziato consorte ha emesso delle grida di dolore, le quali mi hanno fatto precipitare immediatamente in casa. Dove ho trovato mio marito steso morto per terra e i miei gioielli buttati qua e là sul pavimento alla rinfusa. Invece ella maneggiava ancora il pugnale insanguinato. Adesso ho finito."

Dopo il suo racconto, la vedova, con molta alterigia, concluse:

«Ecco, illustre sovrano di Actina, come si sono svolti i fatti in casa mia. Per la qual cosa, chiedo la morte per l’accusata, che considero la pena più appropriata per lei! Perciò attendo giustizia da sua maestà.»

«Circa la sua colpevolezza e la relativa pena, sta a me deciderlo, afflitta signora.» le rispose il re Francide «Ma ciò avverrà, solo dopo che avrò ascoltato anche la versione dei fatti della tua controparte, per una questione di giustizia. Perciò tra poco mi farò narrare anche da lei come si sono svolti i fatti nella tua casa. Nel frattempo, però, abbi la compiacenza di attendere il mio verdetto finale!»

Invitata a difendersi dal reato di omicidio che le veniva contestato, pure l’accusata incominciò a dare la propria versione ai fatti accaduti tra le mura domestiche dell'uomo ucciso. I quali la vedevano coinvolta in un brutto caso di assassinio. Essa fu quella che tra poco apprenderemo, attraverso il suo racconto riportato qui di seguito.

"Il mio nome è Clenina e vengo subito al dunque. Non è per niente vero, sovrano di Actina, che i fatti si sono svolti nel modo che la mia ex padrona Suinna ha voluto lasciarti credere. Essendo una ragazza seria, non mi sono mai permessa di fare la smancerosa con suo marito e neppure ho mai tentato di sedurlo, come lei ti ha riferito. Al contrario, è stato sempre lui a farmi una corte assidua e ha tentato in tutti i modi di convincermi a corrispondergli; ma sempre con risultati negativi. Tirava in ballo anche la salute della moglie, a causa della quale egli non aveva più con lei dei soddisfacenti rapporti intimi. Perciò mi chiedeva di essere carina con lui, promettendomi in cambio i tanti gioielli della moglie.

Ieri l’altro egli è rientrato un po’ alticcio. Allora, approfittando che la moglie era assente da casa, prima ha tirato fuori da un mobile i preziosi gioielli, ai quali mi aveva sempre accennato. Subito dopo, lanciandomeli tutti addosso, egli mi ha dichiarato che me li regalava. Inoltre, mi ha specificato che, anche se li avessi rifiutati, ugualmente mi avrebbe posseduta, che io fossi d’accordo oppure no. Espressosi in quei termini, il brillo padrone di casa mi ha assalita e mi ha avvinta a sé. Ne è seguita una colluttazione, durante la quale siamo finiti entrambi a terra. È stato allora che egli, avendomi trovata distratta perché ero intenta a dolermi per la caduta, è riuscito ad avere ragione di me e a penetrarmi. In seguito, però, mentre il farabutto consumava il suo stupro, sono riuscita a sottrargli il pugnale che aveva alla cintola. Così l’ho colpito più volte con esso, finché non l'ho visto crepare.

Nobile mio re, ti giuro che, nel raccontarti tali fatti, ho detto nient’altro che la verità. Perciò ti chiedo di scagionarmi, liberandomi dall’accusa di omicidio volontario, dal momento che ci sono stata costretta ad ammazzare il mio ubriaco violentatore."

Una volta che ebbe ascoltato anche il succinto resoconto della brutta vicenda, che era capitata alla donna, il re Francide si espresse così:

«Per emettere il mio giusto verdetto finale, sono costretto a valutare entrambe le vostre versioni alla luce dell’obiettività. Comunque, sarebbe solo a suo vantaggio, se qualcuna di voi volesse esibirmi altre notizie su di sé, al fine di indirizzare il mio verdetto verso una valutazione positiva di quanto dichiarato in questo processo, poiché esso non si presenta ancora chiaro. Dalle vostre opposte versioni dei fatti, non sono stato in grado di ricavare elementi probatori sufficienti per deliberare, visto che entrambe si prestano ad essere reputate probanti. Allora datemi voi una mano, affinché io possa giudicare senza errori sul vostro difficile caso.»

All’invito del re Francide, l’accusatrice Suinna, si affrettò a prendere per prima la parola. Convinta che quanto stava per dichiarare avrebbe spinto il sovrano ad accogliere con maggiore favore quanto era stato dichiarato da lei, con orgoglio ci tenne a precisare:

«Saggia maestà, a dimostrazione che la mia parola è più degna di essere creduta, rispetto a quella della mia controparte, tengo a farti presente che la nonna paterna del mio defunto marito era la sorella del Sommo dei Sacerdoti Chione. Perciò l’assassinato mio Bluiso apparteneva ad una illustre famiglia di Actina e risultava pure cugino del nobile Adrino, il quale vantava delle aderenze nelle alte sfere di casa reale.»

Nel sentire pronunciare quel nome odioso dalla sua accusatrice, Clenina all’istante si sentì ribollire il sangue per lo sdegno. Anzi, si infuriò a tal punto, che sbottò a dire: “Adesso capisco, Suinna, di che razza era tuo marito. Per essere cugino del porco Adrino, non poteva comportarsi diversamente nei miei confronti! Tu non sai quante volte il tuo lurido parente acquisito, che era indegno di essere un nobile, ha tentato di far rapire mia sorella Flesia per possederla. Per fortuna, grazie al continuo aiuto del suo fidanzato, ha fatto sempre un buco nell’acqua. Anzi, alla fine egli ci ha perfino rimesso le penne, a causa del suo comportamento da maiale. A quel tempo, avevo appena superato i cinque anni e la mia famiglia veniva ospitata in casa del nobile Ipione, l’illustre medico di corte. Peccato che egli non ci sia più nella nostra Actina, poiché, per seri motivi, dovette lasciare la città. Altrimenti sarebbe stato lui a prendere le mie difese, garantendo per me e per la mia indubbia onestà.”

A quei due nomi menzionati prima dall’accusatrice Suinna e dopo dall’accusata Clenina, ossia il nobile Adrino e la giovane Flesia, il re Francide si era sentito scuotere intimamente. Solo che nel primo caso il sangue gli si era agitato negativamente; mentre nel secondo esso gli si era mosso positivamente. Per la quale ragione, tutto a un tratto, egli fu certo di potere finalmente emettere il verdetto finale relativo al processo in corso. Allora, rivolgendosi alle due donne, gli annunciò pacatamente:

«Dopo quanto ho appreso dalle vostre ultime dichiarazioni, adesso mi sento in grado di deliberare senza il minimo dubbio. Ebbene, prosciolgo dall’accusa di latrocinio e di omicidio volontario la signora Clenina, ingiustamente accusata dei reati che le sono stati contestati. Perciò il processo può ritenersi concluso. Inoltre, mentre la signora Suinna può congedarsi da me e lasciare questa sala, la signora Clenina è pregata di restarvi. Ella deve ancora assolvere degli obblighi riguardanti il processo. Quindi, abbia la compiacenza di attendere, prima di avere da me il permesso di accomiatarsi!»

Quando poi l’accusatrice se ne fu andata, il re Francide, al fine di tranquillizzare la donna prosciolta, la quale giustamente non riusciva a comprendere il motivo per cui la si tratteneva ancora in quel luogo, si affrettò a giustificarle il suo invito a restare, dicendole:

«Non temere, Clenina, per il fatto che non ti abbia lasciata andare via, cosa che ho permesso alla sola tua accusatrice. Ma la tua permanenza qui non ha niente a che vedere con il processo, come ho dichiarato prima alla tua ex padrona. Invece voglio disporre di te per un’altra ragione, la quale tra poco ti farà molto piacere. Adesso, perciò, cerca di seguirmi, senza fare domande!»

Chiarito quel particolare alla donna in ansia, il sovrano si avviò poi con lei verso il patio della reggia, dove raggiunsero sua madre e sua sorella Godesia. Una volta presso di loro, entrambe non riuscivano a comprendere perché il loro congiunto avesse accompagnato la donna al loro cospetto. In verità, neppure Clenina ci capiva niente, per cui lei e le altre due donne si diedero a squadrarsi da capo a piedi per tentare di conoscere il motivo che aveva spinto il re ad agire in quella maniera.

Alla fine, però, il re Francide, rivolgendosi alla sorella, le disse:

«Godesia, ti presento tua zia Clenina, che non hai mai conosciuta! Ella è l’unica sorella della tua defunta madre Flesia.»

Alla loro ospite invece, altrettanto soddisfatto, dichiarò:

«Clenina, ti presento tua nipote Godesia, che hai avuto modo di conoscere solo fino a quando aveva cinque anni. Cioè, prima che il medico Ipione e le sue figlie la conducessero con loro a Cirza.»

A quelle inattese presentazioni, che c’erano state tra le due congiunte da parte del sovrano, Clenina avvertì il desiderio di lanciarsi tra le braccia di Godesia, gridandole:

«Che immensa gioia, nipote mia, poterti riabbracciare forte, dopo tantissimi anni di lontananza, per cui non ti ho vista neppure crescere sotto i miei occhi. Adesso ti rivedo che sei diventata già grande, oltre che una bellissima principessa, essendo tu la figlia del defunto re Godian, nonché la sorella dell’attuale sovrano Francide!»

«Anch’io ti rivedo con somma felicità, zia Clenina, dopo che sono trascorsi un sacco di anni! Sai che ho ancora un labile ricordo di te, poiché spesso eri tu a coccolarmi in casa del medico Ipione? Anzi, essendo la più piccola dei miei familiari, prediligevo le tue coccole in modo particolare, siccome ti consideravo la mia compagna di gioco preferita. Ma i miei nonni materni dove sono finiti e perché mai non sono qui con te? Mi piacerebbe molto incontrarli ed averli vicini per rallegrarmi con loro e godere anche della loro compagnia! Allora mi dici, zia, dove essi sono finiti, per non vederli con te? Voglio saperlo a qualunque costo!»

«Dovrebbero essere ancora rinchiusi nelle carceri di Actina, Godesia, perché è lì che furono tradotti tre anni fa dai gendarmi. Io non ero presente, quando furono arrestati, ma ciò mi fu riferito dalle persone che avevano assistito al loro arresto.»

«Mi sai anche dire, zia carissima, in quale circostanza e per quale motivo avvenne il loro fermo da parte dei gendarmi, che allora eseguivano gli ordini dell’indegno mio zio Verricio?»

«Un pomeriggio essi mi lasciarono detto che andavano a fare la solita controllatina alla casa del nobile Ipione, per vedere se vi erano state effettuate razzie da parte di rapinatori. Allora, vedendo che entrambi non ne ritornavano, pur essendosi fatto tardi, pensai di farci anch’io un salto. Ma lì venni a sapere dai vicini di casa che essi erano stati sorpresi nell’abitazione dell’assente medico dai gendarmi. I quali, dopo averli scambiati per veri ladri, li avevano arrestati e portati via con loro. Io sono propensa a credere che fossero stati loro stessi a spacciarsi per persone avvezze al furto, non volendo far sapere ai gendarmi che erano amici dell’assente medico. Nel qual caso, essi sarebbero andati incontro ad una punizione maggiore, magari anche alla condanna a morte, da parte del principe Verricio. Ecco: adesso sai tutto di loro due!»

A quel punto, intervenne il re Francide a rassicurare zia e nipote che avrebbe dato disposizione all’amico Astoride di eseguire delle immediate ricerche nelle carceri, allo scopo di trovarvi una coppia di coniugi, i cui nomi erano Alisto ed Ucilla, e di farli scarcerare all’istante. Ma dopo egli avrebbe dovuto anche accompagnarli a corte, dove li attendevano la loro figlia e la loro nipote. Per fortuna, essi furono trovati ancora vivi nelle carceri e furono liberati in brevissimo tempo, con la grande gioia della principessa Godesia e di sua zia Clenina. Allora la felicità dei due anziani nonni non fu da meno, dopo che si furono visti di nuovo liberi con accanto le due carissime congiunte.