237°-I FIGLI DI TIO NELLE CARCERI DI ACTINA

Nei giorni appena trascorsi, il racconto del nobile Ipione aveva commosso in modo indicibile il re Francide e la madre Talinda. Essi, nello stesso tempo, avevano giustificato il suo silenzio sull'esistenza di Godesia, poiché egli aveva continuato a tacere sempre per motivi di sicurezza. Se il medico avesse parlato, avrebbe potuto mettere a repentaglio l'incolumità della ragazza e quella della sua famiglia. Inoltre, entrambi avevano preteso che la principessa Godesia si trasferisse a corte e cominciasse a vivervi il calore della nuova famiglia. Ma non avevano voluto che la ragazza tagliasse i ponti per sempre con il suo vecchio nucleo familiare, che era stato quello del medico Ipione. In seno al quale, ella aveva trascorso gli anni più belli e felici, essendo essi appartenuti alle sue prime tre fasi evolutive, le quali erano state l'infanzia, la fanciullezza e l'adolescenza. Riguardo poi al fidanzamento della loro rediviva congiunta con Astoride, che da poco aveva ricevuto la carica di comandante della Guardia Reale, il parere del re Francide e quello della nobildonna madre erano stati senz'altro concordi. L'uno e l'altro erano risultati positivi al massimo, essendo note a tutti e due l'integrità morale e l'indiscussa affidabilità del nobile giovane di Terdiba, anche perché era figlio del defunto re Elezomene.

In verità, la nobildonna Talinda soltanto da poco ne era stata messa al corrente. Anzi, le regali origini di Astoride l’avevano incuriosita non poco. Inoltre, l'avevano spinta a chiedergli se avesse mai sentito parlare di Tionteo e della sua famiglia, essendo pure lui di Terdiba e di origini regali. Alla sua domanda, il giovane le aveva fatto presente che egli e Tionteo erano stati dei grandissimi amici d'infanzia. Nello stesso tempo, Astoride si era rammaricato parecchio di non essere venuto a conoscenza dell'identità dell’amico, prima che partisse insieme con Iveonte alla volta della città di Casunna. Peccato che egli non fosse riuscito ad identificarlo prima della sua partenza, poiché così gli avrebbe fatto molto piacere riabbracciarlo e trascorrere con lui almeno alcuni giorni di felicità! Stando vicini, entrambi indubbiamente avrebbero ricordato i bei momenti che avevano trascorso insieme per intere giornate nella loro città natale, l’uno accanto all’altro, durante la loro spensierata fanciullezza. Ma adesso ci conviene ritornare al presente della nostra storia.

Una mattina, quando erano già una decina di giorni che Godesia aveva preso stabile dimora nella reggia di Actina, le figlie del nobile Ipione le fecero una improvvisata. Dovendo fare delle compere in città, esse erano andate a corte per proporle di uscire insieme con loro. La ragazza, mostrandosi interessata alla loro proposta, accolse a volo il loro invito, senza pensarci due volte. Astoride, però, non essendogli possibile accompagnarle personalmente, mise a disposizione delle tre donne sei gendarmi al comando di Urimmo. Essi avrebbero dovuto scortarle lungo le strade cittadine, vigilando di continuo su di loro. In quel modo, avrebbero fatto evitare alle stesse i raggiri di qualche bancarellaio truffaldino ed avrebbero anche costretto gli scippatori a tenersi alla larga.

Adesso, avanzando accosto alle numerose bancarelle, le quali erano disposte sul lato destro della strada, di tanto in tanto, Godesia e le figlie del medico Ipione sostavano incuriosite presso qualcuna di loro. Vi si soffermavano soltanto per acquistarvi quei prodotti esposti che risultassero di loro gradimento. Quanto a quei venditori, le cui merci venivano preferite dalle tre donne, vedendole scortate dai gendarmi, cercavano di essere con loro gentili al massimo. A volte erano pure generosi, praticandogli degli ottimi sconti.

Mentre le tre donne continuavano a fare le loro compere, ad un certo momento, un gran trambusto, che si stava avendo poco lontano frammisto ad urla, attrasse la loro attenzione. Qualche istante dopo, esse scorsero cinque gendarmi che si traevano in carcere due giovani di bell'aspetto, i quali venivano costretti a stargli dietro con le mani legate dietro la schiena. A poca distanza, li seguiva invece una donna con i capelli brizzolati, la quale mostrava l'animo affranto. La poveretta andava gridando a gran voce: "Rilasciate i miei figli, poiché sono innocenti! Mai e poi mai, essi avrebbero derubato qualcuno! Le nostre condizioni economiche sono floride, per cui, da parte loro, non ci sarebbe stata necessità di farlo! Il mercante di stoffa, che li ha accusati, è un emerito mentitore. Egli cerca solo di truffare la gente danarosa, accusandola apposta di un latrocinio, che non c’è stato nel modo più assoluto!"

Godesia si lasciò subito impietosire e commuovere dallo spettacolo commiserabile offerto dalla disperata donna. Anche i volti dei suoi due figli, caricandola di una strana sensazione, la convincevano che essi non potevano essere dei comuni ladri. Perciò, volendo far qualcosa a loro favore, subito pregò Urimmo di informarsi presso i colleghi perché mai conducevano in carcere i due giovani. La guardia, da parte sua, con un atteggiamento premuroso, cercò subito di essere utile alla principessa. Perciò, dopo avere avvicinato il gendarme che li comandava, il quale era anche una sua vecchia conoscenza, gli domandò:

«Mi dici, Ectro, che cosa è successo? Per quale motivo avete arrestato questi due giovani, che riescono ad ispirare soltanto parecchia fiducia? Non credi che la loro madre possa avere ragione a difenderli con tanta foga? Ti prego di riferirmi ogni cosa sull'accaduto!»

«Ad un centinaio di metri da qui, Urimmo, un mercante di stoffa è stato derubato di parecchio denaro ed ha riconosciuto nei due giovani da noi arrestati i suoi borseggiatori. Noi li abbiamo acciuffati, mentre erano con la loro madre presso una bancarella di suppellettili per la casa e vi stavano facendo i loro acquisti. Questo è tutto!»

«Ma la refurtiva, in questo caso il denaro rubato, è stata trovata addosso a loro due? Oppure avete fatto basare l’arresto da voi effettuato sulla sola accusa del mercante? In tal caso, se fosse vero, avreste commesso una vera leggerezza! Allora mi confermi, sì oppure no, la flagranza di reato, riguardo ai due accusati di latrocinio?»

«In verità, Urimmo, la questione non è semplice, come pensi, non essendo riusciti a sapere se si tratta di refurtiva oppure di denaro pulito! Sappiamo solo che i due giovani avevano con loro parecchie monete d'oro e d'argento. Le quali, secondo quanto afferma il mercante, appartenevano a lui, prima che i due furfanti gliele sottraessero. I due indiziati di borseggio e la loro madre, dal canto loro, hanno respinto ogni addebito a loro carico e si ostinano ad affermare che il mercante ha mentito nei loro confronti, unicamente per impossessarsi del loro denaro, dopo averlo adocchiato in precedenza. Essi ammettono di essere stati presso la sua bancarella e di avere anche acquistato un regalo per la madre. Quanto al furto, però, i due giovani dichiarano che è stata tutta un’invenzione del mercante. Secondo loro, il disonesto venditore ha progettato il suo turpe disegno, subito dopo essere venuto a conoscenza che essi erano in possesso di molto denaro. Come vedi, è difficile decidere da che parte si trova la verità! Urimmo, tu cosa avresti fatto al posto mio? Ossia, a chi avresti creduto, senza alcuna possibilità di errori?»

«Probabilmente, avrei agito come hai fatto tu, Ectro, visto che è la stessa persona derubata ad accusarli! Ma non è escluso che il mercante abbia mentito appositamente, allo scopo di appropriarsi dell'altrui denaro. Una evenienza, questa, del tutto probabile, considerato l’esorbitante numero di persone disoneste che oggi ci sono in giro! Perciò, se venissero condannati, i due onesti giovani, ipotizzandosi per loro due l’innocenza, subirebbero due ingiustizie, cioè la perdita del loro denaro ed una condanna immeritata! La qual cosa mi dispiacerebbe tanto, amico mio! Inoltre, dubito fortemente che dei ladri se ne vadano derubando il prossimo, facendosi accompagnare dalla loro madre! Così pure dubito del fatto che il mercante avesse tante monete d’oro con sé, evento del tutto improbabile! Non credi anche tu che la cosa puzzi di bruciato?»

«È senz'altro vero ciò che affermi, Urimmo. Ma non è compito mio giudicare se i due giovani sono oppure non sono colpevoli. Io mi limito all'arresto di coloro che vengono accusati di un reato qualsiasi. Dopo spetta al nostro sovrano giudicarli ed emettere nei loro confronti il verdetto di colpevolezza oppure di innocenza. Egli, inoltre, commina la pena appropriata contro gli stessi, se sono riconosciuti dei trasgressori di una o più leggi dello stato. Sono cose che già conosci bene pure tu, senza che sia io a spiegartele, dal momento che adesso frequenti le alte sfere della società, per tua fortuna!»

«Comunque,» intervenne a dire Godesia, che fino a quel momento aveva solo ascoltato «i due giovani non mi sembrano persone di malaffare. Sui loro volti leggo unicamente l'onestà e la sincerità. Così pure la loro madre mi ispira la massima fiducia. Perciò, gendarme, se tu li liberassi, sono sicura che non prenderesti nessuna decisione errata. Al posto tuo, invece avrei dei forti dubbi sul mercante che li ha accusati!»

«Purtroppo, graziosa gentildonna,» le rispose l'esecutore dell'arresto «nel nostro mestiere non si può andare appresso alle apparenze degli accusati e alle nostre impressioni nei loro confronti! Sono le prove e le testimonianze a contare nel nostro mestiere! Ma adesso vuoi dirmi con chi ho l'onore di parlare, se non ti dispiace? Per essere accompagnata da sette gendarmi, devi essere sicuramente una donna di alto rango!»

Prima che la splendida ragazza gli si presentasse personalmente, al suo posto si preoccupò la guardia Urimmo di rispondere con sollecitudine al collega. Egli, mostrandosi ossequioso nel riferirsi a colei che stava accompagnando, si affrettò a fargli presente:

«Ectro, la ragazza, che ha preso le difese degli arrestati, è una persona molto speciale! Si tratta della principessa Godesia, la quale è la sorella del nostro illustrissimo sovrano! Inoltre, ella è la futura consorte di Astoride, che è stato da poco nominato comandante della Guardia Reale! Per questo le si deve il massimo rispetto!»

Allora il gendarme Ectro, senza più badare a rispondere all'amico Urimmo, con molta palese riverenza si rivolse all'istante alla stessa sua interlocutrice e le disse:

«Ai tuoi ordini, nobile principessa! Se desideri che io lasci liberi i due giovani, da parte mia, non ci sono problemi. Basta che tu me lo ordini ed io non esiterò ad ubbidirti! Senza dubbio, la tua parola vale più di quella del mercante Cussio. Egli, in un certo senso, anche a me non dà affidamento e mi fa pensare ad un vero imbroglione!»

Urimmo, però, intervenendo ancora una volta nel dialogo a tre, non si astenne dal fare presente alla ragazza:

«La penso anch'io come il mio collega Ectro, nobile principessa. Comunque, ti consiglierei di essere più prudente, prima di dare un ordine del genere, poiché esso potrebbe irritare l'illustre tuo fratello. Domani di sicuro il mercante si presenterà a corte e reclamerà giustizia dal re Francide. Ma se gli accusati risulteranno già messi in libertà, prima ancora che egli li abbia processati e giudicati, mi dici come farà il sovrano, nella fattispecie, ad amministrare la giustizia? Perciò potrebbe adirarsi contro chi ha autorizzato la loro liberazione, senza avergli dato il tempo di sottoporli a processo ed emettere la sentenza nei loro confronti!»

Accettato il consiglio del gendarme, la rinsavita ragazza, volendo rimediare, gli rispose:

«Sì, hai proprio ragione, assennato Urimmo! Ti ringrazio vivamente per avermi evitato di commettere un madornale errore, dal quale mi sarebbe potuta derivare una bella ramanzina da parte di mio fratello Francide. Egli, da quanto ho potuto comprendere, è uno strenuo difensore della giustizia e, nell'amministrarla, non tollera interferenze da parte di nessuno, neppure se si tratta della propria germana! Che la giustizia abbia il suo regolare corso! Per il momento, quindi, gendarmi, traetevi nelle carceri i due giovani accusati. Così domani mattina, essendo la giornata in cui mio fratello si dedica all’amministrazione della giustizia nella sala del trono, ci penserà lui stesso a giudicarli con la dovuta equità! Ma sono convinta che il suo verdetto sarà conforme a giustizia e punirà chi troverà veramente in colpa! Ve lo garantisco!»

Non appena i soldati ebbero ripreso il loro cammino verso le carceri regie, la madre dei due giovani fratelli, avendo seguito con attenzione l'intera conversazione che c'era stata tra i due gendarmi e la sorella del sovrano, subito si inginocchiò davanti a Godesia. Poi, stando in quella posizione scomoda, incominciò a dirle rispettosamente:

«Grazie, nobile principessa, per avere espresso un giudizio positivo sulla mia prole e su di me. Il tuo intuito non ti ha ingannata affatto, considerato che in questa vicenda i veri offesi si devono considerare i miei figli. Essi sono stati calunniati ingiustamente, anzi subdolamente, dal mercante che ha solo cercato di venire in possesso del loro denaro! Devi sapere che noi siamo persone degne del massimo rispetto. Sì, fu soltanto grazie a mio marito, se oggi tutti gli Edelcadi non si ritrovano ad essere schiavi dei Berieski invasori. Perciò ai miei figli Zelio ed Ucleo dovrebbe andare la stima e il rispetto di tutti i popoli dell'Edelcadica! Invece, al contrario, li fanno trovare immischiati in un latrocinio, come se essi fossero sul serio dei volgari ladri!»

Una volta che ebbe invitato la donna ad abbandonare l’umiliante posizione da lei assunta poco prima, la principessa Godesia l’aiutò a rialzarsi. Poi, essendo stata incuriosita dalle sue ultime parole, per averle trovate molto strane, cercò di conoscere qualcosa di più sulla donna che le stava davanti. Perciò ella provò a domandarle:

«Brava donna, chi sarebbe tuo marito e perché non è qui con voi?»

«Il mio caro consorte è deceduto, giovane principessa! Il suo nome era Tio e un tempo gli eserciti di tutta l'Edelcadia l'osannarono! Grazie alla sua inimitabile perizia nelle armi, l’Edelcadia evitò di farsi sottomettere dal popolo dei Berieski. A quel tempo, prima ancora che l’esercito dorindano facesse ritorno nella sua città, perfino Nortano, il re di Actina, si rivolse a lui per perfezionare la sua scherma!»

«Davvero dici, signora, che tuo marito fece da maestro d'armi a mio nonno?!» le chiese la ragazza, mostrandosi alquanto scettica.

Prima però di ricevere la risposta dalla madre dei due giovani arrestati a cui aveva fatto la domanda, la principessa Godesia si rivolse al loro accompagnatore e gli domandò:

«Urimmo, tu avevi già udito parlare di questo famoso Tio?»

«Principessa, il suo nome mi giunge nuovo, probabilmente a causa della mia giovanissima età. Di Kodrun, il leggendario re di Dorinda, sì che ho sentito fare menzione! Mio padre e i suoi amici ne hanno sempre esaltato le gesta memorabili! Ma se devo esserti sincero, di questo Tio, nonostante la sua grande fama, non ho mai sentito niente in vita mia. Forse, se lo domandassi al mio genitore, ne verrei a sapere qualcosa!»

«Come posso rendermi conto!» fu l'amara considerazione della donna «nella storia c'è posto solo per i re e i titolati; mentre le persone comuni, anche se viene a rifulgere in loro l'eroismo più leggendario, ne sono escluse! Senza togliere alcun merito al re Kodrun, giustamente entrato nella leggenda, voglio darvi la seguente certezza. Anche mio marito era degno di trovare un posto nella memoria degli Edelcadi e di essere additato ai posteri come il più grande campione nelle armi e nelle arti marziali. Egli riusciva ad operare prodigi sia nelle une che nelle altre. Nessuno poteva reggere al suo confronto! Ma, a quanto sembra, questo suo speciale valore non gli è servito proprio a niente, poiché non gli ha procurato nella storia il posto che egli meritava!»

«Se è vero quanto affermi, brava donna, e non ho motivo di dubitarne,» le suggerì Godesia «ti consiglio di farlo presente domattina al sovrano di Actina. Vedrai che il saggio mio fratello, in considerazione di ciò, darà più credito alla versione dei fatti che gli forniranno i tuoi figli e non a quella del mercante accusatore! Nell'attesa che giunga il nuovo giorno e comincino i processi nella sala del trono, ti conviene andartene a riposare in piena tranquillità, ammesso che tu abbia già un posto dove potere andare. Brava donna, fai quello che ti ho suggerito, poiché, per il momento, è la cosa migliore che puoi fare!»

«Invece, principessa, non potrò mai riposare, sapendo che i miei adorati figli si trovano a penare ingiustamente in una lurida cella. Tra poco me ne andrò fuori le carceri, dove dormirò all’addiaccio e vi sosterò, fino a quando essi non saranno tradotti davanti al re tuo fratello per essere giudicati dalla sua giustizia. Domani li accompagnerò fino alla reggia, dove li difenderò e convincerò il sovrano della loro innocenza!»


Una volta tradotti in carcere, Zelio ed Ucleo furono rinchiusi in una cella angusta e scarsamente illuminata. Al suo interno, i due fratelli avviliti ben presto si accorsero della presenza di un altro detenuto. Costui, però, non avendo di meglio da fare, proprio in quell'istante se la dormicchiava sopra il suo rustico giaciglio, il quale non poteva che risultare scomodo. Nel vedersi segregato come un topo tra le quattro scarne pareti di quel lercio buco, Zelio fu assalito da una lieve forma di ipocondria. Intanto si rendeva conto che sulle superfici murali abbondavano vari ghirigori, i quali sembravano più graffi di rabbia che qualcosa dettato dalla fantasia. Allora il giovane, assumendo un atteggiamento taciturno ed immusonito, si distese sul saccone che gli era stato assegnato come letto. Dal canto suo, il fratello Ucleo gli si sedette al fianco con le gambe flesse e le dita intrecciate sistemate sopra le ginocchia. Tenendo poi appoggiato il mento sopra le nocche, anch’egli appariva alquanto triste e pensieroso, siccome aveva gli occhi fissi nella sua penosa angoscia. Alcuni attimi dopo, però, lo sventurato, desiderando tirare su di corda l'abbacchiato fratello maggiore, si diede a parlargli in questo modo:

«Non fare quella faccia, Zelio, perché domani saremo già fuori da questa specie di sordida topaia. Lo so che non ci fa per niente piacere venire ospitati in una cloaca simile; ma per adesso non possiamo privarcene. Ti assicuro che domani il sovrano di Actina ci renderà giustizia e punirà quel truffatore di mercante. Senza scrupolo, egli ha voluto accusarci di furto, quando invece è lui che ha mirato ad estorcerci il denaro con il suo malavitoso espediente! Perciò abbi fede nel divino Matarum!»

«Ma se le cose dovessero andare storte, ossia al contrario di come affermi, caro fratello? Questo te lo sei ancora domandato oppure non ci hai pensato per niente? I sovrani non si sa mai come interpretano la verità, quando amministrano la giustizia! Mi chiedo perché proprio a noi doveva capitare una cosa del genere! Quando ci penso, mi viene il nervoso ed impazzisco per l'immensa stizza!»

«Non prendertela in questo modo, Zelio! Essere pessimista non è mai servito a niente. Lo sai anche tu che adesso sul trono di Actina c'è un giovane re molto saggio. Come dicono tutti gli Actinesi, egli si mostra veramente amante della giustizia. Inoltre, fuori di qui c'è sempre nostra madre, la quale si adopererà con tutte le sue forze per farci uscire da questo letamaio. Ella è capace anche di farsi ricevere dal sovrano in persona! Comunque, diciamoci la verità, che tu lo voglia ammettere oppure no, la colpa è stata unicamente tua, se adesso ci troviamo in questa cella. Se tu non avessi commesso l'imprudenza di farti accorgere dal venditore di stoffa delle monete d’oro che erano in nostro possesso, poco dopo egli non sarebbe stato tentato di estorcercele con la calunniosa denuncia, alla quale è ricorso immediatamente dopo!»

«Tu, fratello, avresti mai immaginato che nella Città Santa potesse verificarsi una cosa simile, a danno di persone innocenti? Certo che no! E poi dovevo pur pagare quel mercante disonesto, per avere acquistato da lui la stoffa da cui nostra madre doveva ricavare il suo caffettano! Sai dirmi come avrei fatto a cavare fuori dalla scarsella il denaro occorrente per il suo pagamento, senza metterci dentro la mano per prenderlo? Per questo non ho avuto affatto alcun torto nel fare ciò, come ingiustamente tu vuoi farmi credere!»

«Hai ragione, Zelio, non ti si può incolpare totalmente. Il caso avverso ha voluto che incontrassimo proprio noi quel farabutto di un imbroglione, il quale ha imparato bene il mestiere di come derubare legalmente le persone dabbene! Speriamo soltanto che egli non la spunti con noi e che finisca per incappare, una buona volta per sempre, nella rete della giustizia, senza che il suo amministratore si lasci ingannare da lui!»

«Auguriamocelo sul serio, Ucleo. Altrimenti, per noi due le cose si metteranno veramente male! Adesso, però, fratello, se non ti dispiace, vorrei riposare un poco. Perciò non rivolgermi più altre tue domande, poiché ti avverto che non risponderò più a nessuna di esse! Ti sono stato chiaro a sufficienza? Per il mio bene, spero proprio di sì!»

Detto fatto, Zelio voltò all'istante le spalle al congiunto e si mise a dormire sul suo fianco destro, con tutti e due gli occhi chiusi e rivolti verso il muro. Dal canto suo, Ucleo non poté fare a meno di sentirlo russare subito dopo, mentre il suo russamento si accordava con il ronfare dell'altro recluso, il quale era loro coinquilino e poteva avere una sessantina d'anni. Così trascorsero circa un paio di ore, senza che nessuno dei due dormiglioni si decidesse ad aprire gli occhi e a svegliarsi, allo scopo di fare un po' di compagnia al secondogenito di Tio. Allora, non potendo parlare con nessuno di loro due, egli iniziava ad annoiarsi a morte in quella cella cupa ed ammuffita. Ma qualche istante più tardi, quando ormai mezzogiorno era prossimo, un movimento insolito provenne dal corridoio su cui si affacciava la loro cella. Esso attrasse Ucleo allo spioncino della porta, attraverso il quale diede una sbirciata all'esterno. Fu così che egli intravide, in avvicinamento, un gendarme che indossava una splendida uniforme, che ne esplicitava l'autorevolezza. Egli era seguito dalla sua scorta personale, la quale era composta da una ventina di guardie, che indossavano le loro splendide uniformi.

Nel mentre che il drappello dei gendarmi sfilava sotto i suoi occhi, Ucleo credette di ravvisare Astoride nel loro fiero comandante. Sì, proprio l'amico di Iveonte e di Francide e non un'altra persona! Com'era possibile un fatto del genere?! Senza meno, egli aveva traveduto, a causa del forte abbattimento d'animo in cui versava. Il volto dell’autorevole gendarme, però, era tutto il suo e non differiva da quello del loro conoscente di Terdiba! Alla fine, volendo farsi sorreggere da quella cauta e dolce speranza che si era accesa in lui, Ucleo, dandosi a scuoterlo energicamente, si mise a gridare al germano, che continuava a dormire:

«Su, svégliati, Zelio, e cerca di ascoltarmi sia con gli occhi spalancati che con le orecchie bene aperte! Ho una bella notizia da darti! Anzi, direi che essa possa essere considerata addirittura meravigliosa! Allora mi stai sentendo sì o no, mio benedetto fratello?»

«Ma sei impazzito, Ucleo?! Hai forse perso il controllo dei nervi, per svegliarmi dal mio profondo e beato sonno?! Non ti avevo detto che non ti avrei dato più ascolto perché intendevo dormire?»

«Al contrario, Zelio, io sto benissimo e forse pure meglio di te! Voglio farti sapere che un momento fa, mentre guardavo dallo spioncino della nostra cella, ho intravisto una persona di nostra conoscenza. Dopo che ti avrò rivelato di chi si tratta, te ne rallegrerai anche tu con me! Te lo garantisco, mio caro fratellone dormiglione!»

«Spero, Ucleo, che tu non abbia scorto nostra madre transitare per il corridoio, dove si trova la nostra cella! Sarebbe senz’altro una grande scalogna per noi due, se venissimo a sapere che pure lei è stata imprigionata dai gendarmi di Actina, per essersi ribellata alla nostra cattura! Non ti pare? In tal caso, altro che rallegrarcene!»

Subito dopo, prima di apprendere la notizia che il fratello intendeva dargli, egli si diede alla seguente implorazione: "Te ne prego, divino Matarum, che sei sommamente giusto, almeno a nostra madre risparmia la terribile esperienza da reclusa! Ella, essendo una donna anziana, potrebbe anche non sopravvivere ad essa!"

«Ma che ti salta in mente, Zelio!» lo riprese il fratello «La notizia, che stavo per darti, era ben altra! Stavo per comunicarti che attraverso il finestrino della porta ho visto un giovane che somigliava tantissimo ad Astoride. Rammenti l'erculeo amico di Iveonte e di Francide, il quale è stato anche a casa nostra con loro? Ebbene, era proprio lui ad aggirarsi per il corridoio! Io l'ho riconosciuto, non appena l'ho veduto fuori!»

«Certo che mi ricordo della sua maestosa sagoma, Ucleo! Non dirmi che hanno arrestato pure lui! Non ci voleva proprio! E come mai non si trovava con i suoi amici Iveonte e Francide?»

«Che dici mai, Zelio! Per favore, svégliati per davvero, una buona volta per sempre! Sennò noi due seguiteremo a non intenderci per niente! Mi hai compreso adesso nel senso giusto?»

«Ucleo, vuoi spiegarmi allora come faceva il Terdibano a trovarsi in questa lurida prigione, in un modo diverso da quello da me supposto poc'anzi? Se sul serio lo hai intravisto, sicuramente egli si sarà messo nei guai, proprio come noi! Non può esserci un’altra spiegazione!»

«Per tua informazione, Zelio, io l'ho visto che comandava un drappello di guardie regie. Perciò la mia opinione in merito è la seguente: il nostro amico Astoride sarà diventato indubbiamente qualcuno che conta a corte! Avresti dovuto vederlo nella sua smagliante divisa fregiata: essa lo rendeva superbamente stupendo alla vista!»

«Ti assicuro, Ucleo, che hai preso quasi certamente una svista! L'Astoride, che noi abbiamo conosciuto qualche anno fa, attualmente starà in chissà quale parte dell'Edelcadia, in compagnia dei suoi due amici! Per me, sono tutti e tre a Dorinda, poiché è lì che essi erano diretti, dopo che ci hanno lasciati. Perciò rinuncia a questo tuo clamoroso errore, non potendo trattarsi d'altro! Mi sono spiegato in modo chiaro?»

«Invece, Zelio, insisto ad asserirti che era proprio lui, ossia l'Astoride che noi conosciamo. Se fossi stato tu a vederlo al posto mio, adesso saresti qui a giurarmi che si trattava esattamente di lui. Anzi, staresti facendo di tutto, pur di convincermene a qualsiasi costo! Non dimenticartelo! Ad ogni modo, presto sapremo la verità!»

«Visto che hai la testa dura, mio caro fratello Ucleo, e non vuoi prendere atto che hai preso un grossolano abbaglio, intanto che dormivo placidamente, adesso ci penserò io a persuaderti del tuo errore. Così, quando ti avrò convinto, mi darai finalmente ragione e smetterai anche di insistere in ciò che può essere soltanto impossibile!»

Parlato al fratello in quel modo, il primogenito di Tio si alzò dal suo giaciglio e andò a raggiungere la porta della cella. Subito dopo, attraverso il piccolo spioncino, si diede a chiamare a gran voce il carceriere che se la sonnecchiava. Quando infine il secondino si fu presentato alla porta della sua cella, per essersi stufato di sentirlo gridare in quella maniera, ossia a squarciagola e anche per lungo tempo, Zelio gli domandò:

«Se non ti dispiace, guardia carceraria, saresti così gentile da dirmi come si chiama il comandante del drappello di guardie regie, il quale pochi minuti fa è passato attraverso questo corridoio? Te ne prego, sii buono e non rifiutarti di rispondermi!»

«Mi dici perché vuoi saperlo, giovanotto? Ti risponderò, solo dopo avermi detto il motivo! Allora esso sarebbe?»

«La tua risposta dovrà indurre mio fratello a ragionare, facendogli comprendere di aver preso una grande svista a scambiarlo con un nostro caro amico! Ora conosci pure il motivo della mia curiosità.»

«Se è così, recluso, considero la tua domanda del tutto fuori luogo! Comunque, egli non ha assolutamente niente da spartire con tuo fratello! Te lo posso garantire!»

«Invece, paziente carceriere, la tua risposta servirà a convincere mio fratello che si è sbagliato a scambiare il comandante del drappello con una persona di nostra conoscenza, essendogli sembrato la copia perfetta di un nostro amico! Perciò, dopo che avrò appreso il suo nome, saprò se si è sbagliato oppure no. Allora ti reca forse qualche fastidio, se gentilmente me lo riveli e mi metti così l'anima in pace? Non lo credo nel modo più assoluto, per come la penso io!»

«Questa sì che è bella! Adesso va a finire che il comandante della Guardia Reale è amico di un detenuto borsaiolo! Non avevo mai udito una fandonia simile nella mia vita! Dopo quanto mi hai dichiarato, stupido carcerato, mi viene quasi da sbellicarmi dal ridere: lo sai? Cosa mi doveva capitare proprio quest'oggi! Ce ne vuole davvero di pazienza!»

«Se proprio ci tieni, guardia carceraria, scompìsciati pure dalle risa, poiché la cosa mi è del tutto indifferente! Prima, però, per cortesia vorrei che tu mi rivelassi il nome della persona a cui mi sono riferito, il quale mi interessa tantissimo! Eppure non ti costa niente a dirmi il suo nome!»

«Ebbene, illuso recluso, il nome dell'illustre personaggio è Astoride. Nel caso poi che tu ci tenga a conoscere anche il resto di lui, egli è il fidanzato della sorella del re, cioè della principessa Godesia. Dopo averti detto ogni cosa sul vostro presunto amico, adesso mi permetti di andare a riposare, considerato che oggi ne ho davvero molto bisogno?»

Vedendo che il suo interlocutore carcerato si era completamente ammutolito, dopo aver pronunciato quel nome, il secondino, mostrando un viso stravolto, gli chiese:

«Allora, sognatore, non hai più niente da dirmi a tale riguardo? Forse egli non è più la persona che tuo fratello ha creduto il vostro amico? Comunque, se ti rifiuti di rispondermi, tanto la verità la scorgo ugualmente sul tuo volto assai rammaricato!»

«Invece, carceriere, mio fratello sarà costretto ugualmente a ricredersi! Anche se il nome è proprio il suo, devo ammettere che il nostro amico non può trovarsi a coprire una carica così importante nella Città Santa. Si vede che egli si è sbagliato di grosso nei suoi confronti, come volevo fargli intendere prima! Spero che adesso se ne convincerà!»

«Peccato!» aggiunse lo spiritoso aguzzino «Avevo già seriamente pensato di farmi raccomandare da voi due per ottenere da lui un posto più di prestigio! Ma sarà per la prossima volta, quando ci ripenserai e verrai a dirmi che è il re Francide il tuo nuovo amico e non il comandante della Guardia Reale! Ah, ah, in quel caso mi verrebbe da ridere un sacco, grazie a voi due, che siete abituati a vivere di sogni!»

Al nome anche di Francide, il volto di Zelio all'istante si irraggiò di gioia; mentre il germano Ucleo andò in solluchero. Per questo, alcuni attimi dopo, i due felici fratelli, all'unisono, ricominciarono ad urlare dalla loro cella con tutto il fiato che avevano. Adesso essi si esprimevano alla scocciata guardia carceraria presente con le seguenti frasi:

«Carceriere, sia il re Francide che il comandante Astoride sono davvero dei nostri cari amici! Se vuoi fare una cosa buona, avvertili senza perdere tempo che noi, ossia Zelio ed Ucleo, ci troviamo in questa prigione senza alcuna colpa! Ti garantiamo che entrambi accorreranno immediatamente nelle carceri per liberarci di persona!»

Allora il secondino, essendosi convinto che i due fratelli erano impazziti per davvero, si allontanò in gran fretta da loro, poiché non voleva più sentirli dire banalità di quel tipo. Ciò, perché non credette ad una sola parola di quanto essi andavano affermando con convinzione. Né poteva esserlo, considerato il loro stato di freschi carcerati!


Così i due figli di Tio, che non ne potevano più di vociare invano, alla fine si ritrovarono nella loro cella del tutto sconfortati e con il terzo incomodo. Il quale si era appena destato dal suo sonno, a causa delle loro grida. In quel momento che essi avrebbero voluto trovarsi soli per sfogarsi a vicenda, risultava loro scomodo averlo tra i piedi! Ma l'estraneo, il quale era il loro coinquilino e si era svegliato appena in tempo per sentir fare il nome della principessa Godesia, ben presto si rivelò un tipo simpatico, oltre che interessante. Dopo un breve periodo di freddezza iniziale, la quale fu dovuta alla circostanza, oltre al fatto che essi si ignoravano, per cui si guardavano come autentici sconosciuti, a un tratto il sessantenne ruppe il ghiaccio, mettendosi a dire ai due avviliti germani:

«Dovete sapere, amici, che la cella di una prigione non si lascia digerire facilmente da chi è costretto a soggiornarvi e non gli ispira di certo del buonumore. Ma voi, con il vostro mutismo, l'avete trasformata addirittura in un mortorio. Su, allegria, miei primi compagni di cella e di sventura! Adesso, visto che ci tenete a conoscere il mio nome, perché ve lo leggo sul volto, non ho alcuna difficoltà a riferirvelo. Io mi chiamo Gruvio e sono abitante della città di Cirza. Il mio soggiorno in prigione dura da appena un semestre. Ho aggiunto "appena", poiché sono stato condannato a dieci anni di carcere senza avere nessuna colpa. Adesso posso conoscere qualcosa di voi due? Sapete, a volte parlarne fa bene allo spirito, poiché ci fa obliare la disperazione e la stizza, le quali in una prigione sono sempre pronte ad assalirci e a rammaricarci!»

Il secondogenito di Tio, sentendolo parlare in quel modo, istantaneamente rimase calamitato dal modo di fare e di esprimersi del compagno di cella, del quale ignoravano ogni cosa. Così, senza perdere altro tempo, anche perché il fratello maggiore non lo faceva, egli si sentì incoraggiato a rispondergli. Perciò gli si espresse con le seguenti parole:

«Il mio nome è Ucleo e quello di mio fratello è Zelio. Stamani siamo stati denunciati di borseggio da un imbroglione mercante di stoffa. Ma egli ha mentito alle guardie, allo scopo di frodarci legalmente il denaro in nostro possesso. Secondo me, egli lo fa proprio per mestiere, trovando il suo espediente assai redditizio! Sei d'accordo con me, simpatico Gruvio, oppure neppure tu credi alla nostra versione dei fatti?»

«Certo che egli ha mentito ai gendarmi, giovanotto! Ma vi assicuro che nessuno più della mia persona può darvi ragione! Avete di fronte proprio colui che può comprendervi meglio di qualunque altro uomo! Se adesso ne dubitate, dopo ve ne convincerete.»

«Come fai a credere in noi ciecamente, se neppure ci conosci, Gruvio? Stai facendo forse dell'ironia sulla mia affermazione veritiera? Guarda, amico, che nessuno ti sta costringendo a credere in noi con la forza! Se ci tieni a saperlo, sei libero anche di mostrarti dubbioso verso quanto ti ho riferito, nel caso che la coscienza ti debba dettare ciò!»

«Ben me ne guarderei, simpatico Ucleo! In cella i rapporti di una buona amicizia sono quanto mai preziosi! Ti ho creduto subito, per il semplice fatto che anch'io ho vissuto la vostra medesima esperienza e sono rimasto vittima dello stesso ladro. Non si chiama forse Cussio, il venditore di stoffa, che vi ha incastrati con l’accusa di borseggio? Solamente lui può essere stato, poiché egli lo fa per mestiere!»

«Esatto, Gruvio: è stato proprio lui il nostro birbante accusatore! Ma siamo convinti che questa volta egli è cascato male, poiché con noi non l'avrà vinta domattina al processo! Vedrai che sarà punito come si merita dal re di Actina, il quale è un nostro amico! Egli dovrà pentirsene, dopo che sarà stato giudicato dal sovrano!»

Rivolgendosi poi al fratello per riceverne conferma, gli domandò:

«È vero, Zelio, che egli domani non avrà vita facile davanti al sovrano della Città Santa, poiché questa volta si ritroverà ad accusare due suoi grandi amici, che sono del tutto innocenti? Diglielo anche tu al nostro compagno di cella che avverrà proprio come gli ho appena asserito!»

«Non ci sono dubbi, Ucleo. Nella giornata di domani, il suo animo perverso finirà per sempre di arrecare danno al prossimo! Il farabutto mercante di stoffa troverà in noi gli artefici della sua disfatta definitiva! Così si pentirà di essersi dato alla sua disonesta attività redditizia, a danno di persone innocenti, come noi e te, Gruvio!»

«Non vi illudete, giovanotti, perché a voi le cose andranno, esattamente come andarono a me sei mesi fa. Cioè, sarete condannati a dieci anni di detenzione, dal momento che la parola del mercante avrà un peso maggiore della vostra, per il fatto che è lo stesso derubato ad accusarvi. Io fui giudicato dalla regina Talinda, anche se fu il cognato principe Verricio ad emettere il verdetto e a comminarmi la pena. Invece voi sarete giudicati dal nuovo re, il quale è il figlio della regina abdicataria. Perciò vi auguro che egli si mostri più indulgente verso di voi e, se vi condanna, vi dimezzi almeno la pena!»

«Non preoccuparti per noi, amico Gruvio. Stanne certo che domani già staremo fuori di questa prigione e ritorneremo a respirare l’aria pura della città! Non potrà andarci in modo diverso, poiché il processo si risolverà del tutto a nostro favore, con l’immediata nostra scarcerazione!»

«Ditemi, fiduciosi giovanotti: Su che cosa fate basare la vostra certezza? Sempre su quanto avete asserito testé alla guardia carceraria? La qual cosa, fatevelo dire, mi sa davvero di fantastico. Prima, essendomi svegliato in tempo, ho sentito tutto quanto le avete dichiarato! Ad esservi sincero, non mi sognerei mai di crederlo!»

«Certamente!» gli rispose Zelio «Il re Francide e il comandante della Guardia Reale Astoride sono nostri grandi amici. Se qualcuno andasse ad avvertirli della nostra situazione, essi correrebbero subito da noi e ci trarrebbero di persona fuori da questa umida cella. Inoltre, essendo divenuti consapevoli che anche tu sei incappato nella nostra stessa trappola, ti facciamo solenne promessa che faremo scarcerare pure te dal re Francide nostro amico. Il mercante, invece, non soltanto si pentirà di aver tentato di derubarci; ma anche avrà la punizione che si merita, per aver cercato di far condannare delle persone innocenti! Sei contento, Gruvio, del fatto che domani pure tu verrai scarcerato insieme con noi? Già, come potresti non esserlo, amico nostro!»

«Vi ringrazio, amici, per la generosità che mostrate nei miei riguardi. Ma corrisponde poi a verità la vostra amicizia con personaggi actinesi così altolocati? Dovete ammetterlo, miei simpatici giovanotti, che è difficile dar credito a ciò che affermate. Invece è facile farvi ritenere dei millantatori, se non proprio degli autentici mentecatti! Se non chiedo troppo, potrei sapere perché mai entrambi sarebbero vostri amici?»

«Perché il nostro genitore, Gruvio,» si offrì di rispondergli Ucleo «ha cresciuto fin da piccoli il re Francide e il suo amico Iveonte, i quali oggi possono ritenersi i due guerrieri più formidabili dell’intera Edelcadia. Ciò, grazie sempre all'alta professionalità di nostro padre nelle armi e nelle arti marziali, che egli ha trasmesso a loro due. Astoride, invece, è diventato loro inseparabile amico soltanto da poco. Tutti e tre sono stati anche ospiti a casa nostra, se vuoi saperlo, dopo averci liberati dalla banda del feroce predone Kuercos! Adesso dubiti ancora che essi possano essere dei veraci nostri amici?»

«Spero proprio che quanto dici, Ucleo, sia vero, per il vostro bene e per quello mio. Ma se la vostra storia dovesse essere frutto della fantasia, sappiate che anch'io, grazie a voi, adesso ho il mio asso nella manica da giocare, il quale è senz'altro reale! Ne sono venuto a conoscenza durante la conversazione di Zelio con il secondino. Perciò domani, quando sarete davanti al sovrano di Actina, potrete permettermi di giocarlo. Così vinceremo la nostra partita con quel delinquente, grazie al vostro colloquio con il carceriere da cui è venuto fuori il nome di Godesia!»

«Quale sarebbe, Gruvio, questo tuo asso nella manica?» gli domandò Zelio con alquanto interesse «Che bello sarebbe, se esso potesse veramente giovarci, nel caso che mio fratello un momento fa abbia preso inconsapevolmente un vero granchio!»

«Il mio asso è dovuto alla mia amicizia con il nobile Ipione. Egli, al tempo del re Nortano e di suo figlio re Godian, fu il medico di corte. Con quest'ultimo re, poi, che era il genitore dell'attuale re Francide, aveva stretto una grande amicizia. Il mio amico medico, quando il principe Verricio fece assassinare il fratello Godian, per evitare una sua vendetta, preferì allontanarsi da Actina con tutta la sua famiglia. Così se ne venne ad abitare a Cirza, dove acquistò una casa proprio accanto alla mia. Oltre alle sue figlie ormai mature, viveva con il medico una bambina di nome Godesia, la quale aveva cinque anni ed era coetanea della mia piccola Agelia. Le due bambine ben presto allacciarono ottimi rapporti e divennero intime amiche, prima di infanzia e poi di gioventù. In seguito, mia figlia sposò un notabile di Cirza e Godesia smise di frequentare sia la sua amica del cuore sia altre ragazze. Allora si ritrovò sola con le figlie del nobile Ipione, che ella chiamava zie. Oggi invece sono venuto a sapere dal carceriere, e l'avete sentito pure voi, che Godesia era una principessa, ossia la sorella dell'attuale re Francide, la quale si è fidanzata con il vostro amico Astoride. Come vedete, voi ed io abbiamo dei numi protettori, ai quali affidarci nella giornata di domani!»

«Ci racconti come avvenne che capitasti nell'insidia del disonesto mercante actinese, Gruvio?» gli chiese poi il secondogenito di Tio «Per quale motivo avesti a che fare anche tu con il maledetto mercante truffatore? In quella circostanza, è mai possibile che ti trovavi proprio solo nella Città Santa, senza alcun familiare appresso?»

«Avvenne allo stesso modo vostro, Ucleo. Volendo fare un regalo a mia figlia Agelia, decisi di comprarle della stoffa da cui poter ricavare una palla. Si tratta di un tipo di abbigliamento molto in voga in Cirza. Malauguratamente, però, capitai a fare spesa proprio presso la bancarella di quel disonesto di Cussio. Egli, poco dopo la mia compera, mi raggiunse con dei gendarmi e, accusandomi di avergli sottratto tutto il denaro, mi fece arrestare da loro. Così il giorno successivo venni condannato a dieci anni di galera. A quel tempo, non potetti fare menzione della mia grande amicizia con il nobile Ipione, poiché ero convinto che così avrei peggiorato la mia situazione. Per questo domani vi prego di riferire ogni cosa al nuovo sovrano di Actina, quando vi troverete in sua presenza. Sono sicuro che egli, non appena avrà saputo chi sono, nonché avrà appreso i rapporti di amicizia esistenti tra sua sorella Godesia e mia figlia Agelia, mi farà scarcerare all'istante. Naturalmente, anche a voi, per opera mia, verrà resa giustizia! Allora questa cella, la quale già vi opprime dopo neppure un giorno di prigione, rappresenterà per voi soltanto un brutto ricordo della vostra esistenza. Parola di Gruvio!»

«Senz'altro esaudiremo la tua preghiera, Gruvio,» Ucleo gli rispose «nel caso che dovesse risultare che ci siamo sbagliati sul conto dei nostri due grandi amici Francide ed Astoride. I nomi dei quali potrebbero anche essere una pura coincidenza rispettivamente con quelli del re di Actina e del comandante della Guardia Reale. Ma almeno adesso, grazie a te, possiamo contare anche su un'altra possibilità di potercela cavare! Per questo, se verrà meno la nostra opportunità, approfitteremo senz'altro volentieri di quella che sei venuto ad offrirci tu. In attesa che quanto desideriamo si avveri domani al nostro processo, ti ringraziamo, generoso nostro amico!»

«Vi assicuro, miei cari giovani onesti, che sarà senza meno come vi ho detto, per cui possiamo considerare imminente la nostra scarcerazione. Adesso, però, cerchiamo di riposare!»