233-IVEONTE ATTRAVERSA L'ARCO DELLA SACRALITÀ

Non tardò a giungere il giorno in cui Francide doveva sottoporsi al giudizio del dio Matarum. Di buon mattino, allora Iveonte si svegliò e badò a prepararsi per la grande prova. Così, dopo essersi occupato della pulizia e dell'ordine del proprio corpo, il giovane se ne uscì dall'alloggio che gli era stato riservato, essendo sua intenzione raggiungere l'amico re al più presto. Ma già dopo i primi metri di percorso, i quali potevano essere una ventina, egli si accorse all'istante che qualcosa non andava intorno a sé, poiché ogni persona gli appariva strana. In particolar modo, notava che il mondo esterno a lui, naturalmente quello riferito all'elemento umano, non lo riconosceva più come la persona che era stato fino al giorno precedente, ossia l'Iveonte di sempre, per cui ciò gli risultava un fatto incredibile. I rapporti nei suoi riguardi di quanti incontrava si mostravano decisamente mutati; essi erano diventati ben altri, siccome non lo facevano più apparire la medesima persona delle altre volte. Difatti tutti i suoi conoscenti, nello scorgerlo, anziché salutarlo cordialmente come gli altri giorni, gli si rivolgevano con una certa soggezione e con deferente inchino. Perfino le sentinelle, quelle che stavano di guardia agli angoli dei corridoi, lo accoglievano con il presentatarm, il quale era un onore riservato al solo sovrano. Perciò non riusciva a spiegarsi l'insolito atteggiamento assunto nei suoi confronti dalle sue conoscenze incontrate e dai gendarmi!

Come mai egli veniva accolto in quella maniera da tutti coloro che lo conoscevano? Iveonte ebbe modo di risolvere il rebus, soltanto dopo avere imboccato il corridoio, in fondo al quale era situato l'alloggio dell'amico Francide. Percorrendolo a grandi passi, ad una trentina di metri dal suo appartamento, egli s'imbatté nella regina abdicataria. Nel vederselo davanti, ella dapprima trasalì per lo stupore, non sapendo come spiegarsi lo strano fenomeno che si ritrovava davanti; ma poi, una volta che si fu ripresa da tale stato psichico, gli esclamò:

«Come hai fatto, figlio mio, a trovarti qui già bell'e vestito, se proprio un attimo fa ti ho lasciato mezzo nudo nel tuo calidario?! Inoltre, perché mai hai indossato l'abbigliamento del tuo amico Iveonte? Vuoi spiegarmi entrambe le cose, per favore, se non ti dispiace? Attendo che tu mi risponda e mi tolga dall'imbarazzo che mi soggioga!»

«Non soltanto l'abito è del suo amico, nobile Talinda; ma lo è anche il corpo che lo indossa, se lo vuoi sapere! Al contrario di quanto hai affermato, io sono Iveonte e non tuo figlio Francide! Ma come hai potuto confondermi con lui?! Si vede che il torpore del sonno è rimasto ancora a persistere nei tuoi occhi appannati! Non è forse vero?»

«Possibile, Iveonte?!… Ma tu, fisionomicamente, ora sei diventato identico a mio figlio! Sembri proprio il suo gemello monovulare! Soltanto grazie al timbro della tua voce, adesso riesco a distinguerti dal mio Francide! Sono certa che ne eri del tutto all'oscuro pure tu, per meravigliartene quanto me, come adesso stai facendo! Non può essere altrimenti?»

«Adesso capisco, principessa Talinda, lo speciale trattamento che mi hanno riservato le persone che ho incontrate lungo i corridoi della reggia, mentre venivo dal mio amico! Esse avranno giustamente pensato che fossi il re tuo figlio! Si vede che la divina Kronel è già intervenuta a modificarmi l'aspetto esteriore, rendendolo identico a quello del sovrano! E, a quanto pare, ella ha fatto davvero un lavoro coi fiocchi!»

«Ne sono convinta anch'io, Iveonte, considerato che adesso tu e mio figlio in questo momento siete come due gocce d'acqua! Perciò raggiungiamo immediatamente Francide nel suo alloggio e mettiamolo al corrente del miracolo operato dalla diva tua protettrice. Ma nessuno dovrà venire a saperlo, a parte noi due, Astoride e la mia amica Retinia. Se solo sospettassero qualcosa, i sacerdoti del tempio potrebbero mandare tutto a monte!»

Dopo che si furono presentati a Francide, costui, nel trovarsi al cospetto dell'amico fraterno, si sbalordì enormemente, poiché gli sembrava come se si stesse guardando allo specchio. Con la differenza, però, che questa volta la sua superficie levigata, oltre a riflettere fedelmente la sua immagine, lo faceva vedere pure vestito! In quell'istante, infatti, pur indossando soltanto un candido telo annodato ai fianchi, il quale gli copriva appena le vergogne e il posteriore, egli si scorgeva vestito per intero. Gli abiti da lui indossati, inoltre, per un fatto stranissimo, non erano i suoi, ma quelli dell'amico Iveonte! Allora la madre Talinda, allo scopo di tranquillizzarlo, si preoccupò di strappare il figlio all'imbarazzante sorpresa, la quale si era momentaneamente impadronita di lui in maniera quasi scioccante. Perciò, prima ancora che egli iniziasse ad impensierirsi più del necessario, a causa dell'arcano fenomeno che aveva davanti, cercò di svelargli il mistero. Così si affrettò ad affermargli alquanto compiaciuta:

«Hai visto, mio caro figlio, come è stata brava la diva Kronel a trasformare l'amico tuo fraterno? Puoi renderti conto che ella ha fatto un ottimo lavoro, visto che è riuscita a farlo diventare identico a te! In questo istante, voi due sembrate proprio due gemelli omozigoti, quelli che sono difficilmente distinguibili l'uno dall'altro! Allora, Francide, che ne dici? Ne sei soddisfatto abbastanza? Certamente, come vedo!»

Soltanto dopo l'intervento materno, il giovane sovrano di Actina si riprese dalla meraviglia. Ma dopo, volendo convincersene senza avere alcun dubbio, domandò all'amico presente:

«Sul serio, Iveonte, sei proprio tu?! Non mi sembra per niente vero! Per un attimo, ho creduto di stare a sognare oppure di essere diventato vittima di un'allucinazione. Anzi, fino a quando non me ne avrai dato tu stesso la conferma, seguiterò a ritenere irreale il cambiamento, che è avvenuto in te questa mattina! Allora me lo attesti?»

«Certo che sono io, Francide!» gli rispose Iveonte «la diva Kronel sa fare le cose come si deve, quando ci si mette d'impegno. Adesso, grazie a lei, nessuno potrà sospettare che nel tuo corpo ci sia praticamente io! Tanto meno potranno avere dei sospetti su di me i sacerdoti, siccome essi, fino a questo momento, non ti hanno mai né conosciuto né sentito parlare in nessuna circostanza!»

«Lo credo anch'io, mio amico fraterno! Se non sto attento, va a finire che ti scambierò anch'io con la mia persona. In quel caso, non saprei in quale dei due personaggi identificarmi, ossia se nel vero me stesso oppure in quello falso, che saresti poi tu! Ad ogni modo, ti posso garantire che riuscirei a sopravvivere ugualmente! A questo punto, però, mi dici cosa si fa adesso, Iveonte? Attendo di apprenderlo da te!»

«Da questo momento in poi, Francide, toccherà a me fare il re di Actina. Invece tu te ne starai buono buono appartato nel tuo alloggio, fino a quando non mi sarò sottoposto alla prova dell'Arco della Sacralità e la diva Kronel non mi avrà restituito le mie reali sembianze. Tra poco, quindi, dopo avere indossato i tuoi abiti, me ne andrò via insieme con la diletta tua madre. Se non lo sai, ci sono ancora un sacco di cose da sbrigare, prima che sopraggiunga mezzogiorno, che è l'ora stabilita per la grande prova! Perciò, scusandomi con te, ti devo lasciare immediatamente, senza perdere altro tempo!»

Mentre poi sua madre ed Iveonte si affrettavano ad abbandonare il suo alloggio, avendo da portare a termine le altre improrogabili faccende inerenti all'importante cerimonia, Francide esclamò all'amico, il quale si accingeva a varcare l'uscio della stanza:

«Allora in bocca al lupo, Iveonte! Spero che la fortuna ti assista in modo speciale e che io possa rivederti al più presto senza neppure un graffio! Naturalmente, aspetto la tua visita, la quale dovrà darmi la meravigliosa notizia che c'è stato da parte tua il superamento della prova. Essa, per me e per mia madre, ha una particolare importanza!»

«Contaci, Francide! Dopo averla superata, volerò da te e t'informerò del suo esito favorevole. Non appena sarà tutto terminato, vedrai che sarò più veloce di un fulmine nel raggiungerti e nel darti la bella notizia che aspetti, la quale potrà essere soltanto positiva! Lo sai che mi dispiacerebbe farti stare sulle spine un attimo di più! A tra poco, dunque!»

In quella stessa mattina, anche l'amico Astoride e la sacerdotessa Retinia furono messi al corrente che Iveonte, per opera della divina Kronel, aveva già assunto le sembianze del re Francide. In pari tempo, essi erano stati pure avvertiti di non tradirsi, in presenza di altre persone; ma di rivolgersi a lui, come se fosse il vero sovrano. Avrebbero dovuto comportarsi in quel modo specialmente davanti ai sacerdoti, durante il cerimoniale della prova pretesa dalla maggioranza di loro! Allora essi promisero che non avrebbero fatto passi falsi durante tutto il tempo della cerimonia, ad evitare di mandare tutto a catafascio.


A mezzogiorno in punto, tutti i sacerdoti erano già schierati in semicerchio davanti ai due ingressi dell'Arco della Sacralità. Esso era situato nel grande patio annesso al tempio, il quale si trovava nella sua parte posteriore. Facendo oscillare senza sosta i loro argentei turiboli, i religiosi si davano ad incensare lo spazio antistante all'arco. Questo, essendo lungo una ventina di metri, poteva ritenersi una piccola galleria, la quale, formando un arco a tutto sesto, presentava entrambi gl'ingressi posti frontalmente alla parte orientale. In riferimento alla sua struttura, essa constava di un unico fornice semicircolare formato da due piedritti paralleli di diversa lunghezza, essendo quello interno più corto di quello esterno. Essi erano distanti fra di loro quattro metri ed erano sormontati da un arco carenato, la cui sommità era a forma cuspidale. Le pareti esterne dei piedritti, invece, riportavano bassorilievi commemorativi della vittoria del dio Matarum sul dio Strocton. Invece le pareti interne e l'intradosso riprendevano lo stesso motivo; esso, però, questa volta era riprodotto con arte pittorica. Su entrambi gli spessori frontali dell'arco, ovvero quelli relativi ai due ingressi dell'Arco della Sacralità, poteva essere letta la seguente scritta: "Colui che tenterà di attraversarlo, con tale suo gesto, dimostrerà di voler sfidare il dio. Allora, così facendo, egli finirà per decretare la propria morte! Per questo nessun essere umano s'illuda di percorrerlo indenne, non potendo egli averla vinta contro la potente e gloriosa divinità dell'Edelcadia!"

Al pari della classe sacerdotale, si trovavano al loro posto anche il sacerdote Temurio, il quale non avrebbe voluto esserci, ed Iveonte, quest'ultimo ovviamente nelle sembianze di Francide. Per l'esattezza, il primo stava davanti all'entrata di sinistra; mentre il secondo si trovava davanti all'ingresso di destra. Sia l'uno che l'altro, erano in attesa che il Sommo dei Sacerdoti, che adesso era Dumio, impartisse l'ordine d'iniziare l'attraversamento dell'arco dedicato al divino Matarum, il quale ne esprimeva la divina potenza.

Poco prima della prova che stava per avere inizio, la sacerdotessa Retinia e l'autorevole sacerdote suo amico si erano incontrati per puro caso nel tempio. In quell'occasione, l'eminente personaggio religioso di Actina, nell'imbattersi nell'amica religiosa, mostrandosi assai amareggiato, non aveva potuto fare a meno di farle presente:

«Retinia, mia cara consorella, non immagini quanto mi dispiaccia che sia giunto questo momento! Avrei preferito che il re Francide avesse sfidato la nostra autorità, abrogando in modo dispotico la legge del suo antenato Tutuano, anziché vederlo tra poco affrontare l'impossibile impresa e trovarvi la morte, allo stesso modo degli altri due suoi predecessori. La sua iniziativa per niente ortodossa, dopo un breve periodo di rumore, non avrebbe più destato alcun interesse nella Città Santa e ben presto sarebbe cascata nel dimenticatoio. In seguito, mi sarei adoperato per appianare i contrasti che si erano creati fra la casta sacerdotale e il nostro sovrano. Così avrei ottenuto una definitiva rappacificazione tra il re, che è il rappresentante del potere temporale, e la classe sacerdotale, quale rappresentante del potere spirituale. Invece le cose stanno andando altrimenti e potranno terminare solo tragicamente!»

«Non preoccuparti per il re Francide, Dumio, e rispàrmiati ogni commiserazione per lui!» gli aveva risposto la sacerdotessa «Il nostro sovrano supererà felicemente la prova, poiché egli è protetto da una divinità molto più potente del nostro divino Matarum, della quale sono venuta a conoscenza appena qualche giorno fa. Coloro che hanno bisogno di essere commiserati in questa circostanza, invece, sono soltanto quei sacerdoti che hanno votato a favore della proposta del nostro confratello Pullico. Essi saranno strozzati dal nostro glorioso dio, non appena il confratello Temurio sarà eiettato morto e carbonizzato dall'Arco della Sacralità. Perciò in seguito ci toccherà occuparci anche della surroga dei sedici confratelli oppositori, poiché essi tra breve verranno a mancarci! Quindi, Dumio, comincia a rallegrarti per il re Francide!»

«Ma sei certa di ciò che stai dicendo, Retinia? O sei fuori di testa?! Come fai a dichiarare che esiste una divinità che sta più in alto del nostro dio Matarum?! A mio avviso, codesta tua affermazione è irriverente nei suoi riguardi e potrebbe già non farti più godere delle sue grazie! Dunque, ritratta all'istante quanto mi hai asserito poco fa sul conto del nostro glorioso dio Matarum, se non vuoi avere da lui dei guai molto seri!»

«Stai tranquillo, Dumio, che nelle mie parole non c'è stato niente di blasfemo verso la nostra somma divinità. Di sicuro anch'egli è al corrente che nell'universo sono Kron, il dio del tempo, e Locus, il dio dello spazio, a primeggiare su tutte le altre divinità. Ebbene, il nostro sovrano è protetto proprio dal potentissimo dio Kron, che gli permetterà di superare la prova senza riportare alcun danno fisico! Presto ne avremo tutti la dimostrazione, amico mio! Per tale motivo, t'invito a scacciare da te ogni timore per il nostro re Francide! Mi hai ascoltato per bene?»

«Come ho sempre saputo, mia consorella Retinia, Kron e Locus sono divinità che esistono solo nella leggenda dei Kloustiani. Perciò non possono essere considerati realmente esistenti! Invece adesso tu me le stai presentando come divinità reali e anche come le più potenti del mondo in cui viviamo! Mi dici chi te ne dà la certezza?»

«Altro che divinità leggendarie, Dumio! Se ci tieni a saperlo, ho avuto già qualche prova tangibile, riguardo alla loro esistenza, che per il momento non posso rivelarti. Ti anticipo che tra pochi minuti ne seguiranno ancora altre. Aspetta ed assisterai a dei fenomeni mirabolanti, che neppure immagini! Adesso, però, raggiungiamo gli altri confratelli!»

Dopo l'ultima confutazione della sacerdotessa, i due religiosi, che erano legati da lunga e sincera amicizia, avevano posto fine alla loro breve conversazione. Poi, insieme, essi si erano avviati verso il patio, intenzionati a raggiungere gli altri sacerdoti, i quali, già da una buona mezzora, si trovavano riuniti intorno all'Arco della Sacralità. Nel patio del tempio, che era qualcosa di eccezionale, a presenziare le due prove ordaliche, ossia quella del re Francide e l'altra del sacerdote Temurio, oltre ai sacerdoti, c'era anche una componente laica. Quest'ultima, per la precisione, era rappresentata da un numero limitato di persone, ossia dalla nobildonna Talinda, da Astoride e dal comandante Tionteo. Le prove della verità si sarebbero dovute effettuare in simultaneità, ma dopo che il Sommo dei Sacerdoti avesse rivolto al dio Matarum la supplica della loro apertura ed avesse percosso con un colpo di mazzuolo il sonoro gong, che era stato già predisposto nel patio, nel luogo previsto.

Prima che avesse inizio la supplica, il sacerdote Pullico ebbe a ridire del fatto che il sovrano Francide si fosse presentato armato alla prova, ossia con la spada in pugno. A tale riguardo, egli non si astenne dal dichiarare che quel suo comportamento, oltre ad essere una impudenza oltraggiosa nei confronti del loro dio, rappresentava un indubbio sacrilegio. Allora Iveonte, nelle vesti di Francide, lo contraddisse, dicendogli:

«Io mi reputo un guerriero e, come tale, mi dispiacerebbe soccombere sotto la potenza distruttiva del dio Matarum, senza impugnare la mia spada. Se poi questo mio atto è da qualcuno ritenuto sacrilego, sappia egli che non spetta a lui esprimere giudizi in merito, ma alla somma divinità dell'Edelcadia, la quale è il divino Matarum! Perciò unicamente il dio in questione dovrà decidere se il mio atteggiamento è empio e costituisce una blasfemia. Come pure spetterà alla medesima divinità infliggermi la punizione più appropriata, nel caso che dovessi risultargli sacrilego! Così la penso io e nessuno può vietarmi di pensarla a modo mio, a parte il dio Matarum, il cui solo giudizio è insindacabile! Tra breve vedremo se egli è d'accordo con me oppure non lo è!»

«Ben detto!» approvò Dumio, il Sommo dei Sacerdoti, «Solo il dio Matarum può decidere se presentarsi a lui armato, da parte del nostro sovrano, costituisce un sacrilegio. Egli ce lo dimostrerà tra breve, non appena il nostro re Francide s'inoltrerà nell'arco di trionfo della potente divinità, al fine d'iniziare la sua grande prova!»

Le parole di chi figurava come il vero sovrano di Actina, oltre a riscuotere l'approvazione del primo dei sacerdoti, arrecarono molto sconcerto nel giovane comandante della milizia reale. Egli, che non voleva credere alle sue orecchie, quasi frastornato, si rivolse alla sua ex regina. Così, senza alcuna esitazione, si diede a chiederle:

«Sto forse sognando, mia nobile principessa Talinda? Se non mi sono sbagliato, ciò che ho udito un momento fa mi è parso un fatto davvero assurdo! Com'è possibile che nella voce del mio sovrano Francide mi sia parso di udire quella di…»

Ma prima che il Terdibano riuscisse a completare la sua domanda e a pronunciare anche il nome d'Iveonte, la nobildonna Talinda intervenne a zittirlo con tempestività. Perciò ella gl'intimò:

«Basta così, Tionteo, perché non c'è bisogno che tu aggiunga altro! Se lo vuoi sapere, le tue parole mi sono risultate fin troppo fastidiose! Adesso mi sono spiegata abbastanza, per farti smettere di andare oltre? Ritengo senz'altro di sì, essendo tu una persona intelligente!»

«Certamente, nobile principessa Talinda! Più chiara di così non saresti potuta essere! Aggiungo che il tuo richiamo è stato per me molto eloquente! Ti prego di perdonare il mio inopportuno intervento! Da questo momento, siccome questa è la tua volontà, terrò la bocca ermeticamente cucita, a proposito dell'amico del sovrano!»


All'ora prestabilita, il Sommo dei Sacerdoti, dopo avere indossato il suo manto ricco di fregi dorati, nonché tempestato di gemme e di zaffiri, andò a porsi davanti ad una nicchia. Essa era alta tre metri e larga un metro e mezzo. La sua parte superiore, che era di forma ogivale, faceva da abitacolo ad una statua del divino Matarum, le cui dimensioni erano un poco più piccole. Altrimenti non sarebbe stato possibile collocarvela. In quel luogo, tenendo le braccia sollevate ed allargate, egli si diede a supplicare il dio con queste parole:

"Divino ed eccelso Matarum, tra breve due esseri umani si contenderanno la ragione per dimostrare agli astanti, ciascuno per proprio conto, di essere nel giusto. Perciò essi si daranno ad attraversare il tuo arco trionfale, incuranti dei pericoli che possono derivargli da tale attraversamento. In merito a ciò, noi ti supplichiamo di risparmiare la persona che nel suo intimo è scevra d'iniquità e che, nel portare avanti la propria tesi, non ha inteso perseguire secondi fini malvagi. Noi tutti, confidando nella tua somma giustizia, ti preghiamo di non allontanare il tuo occhio benigno da colui che se lo merita, in quanto degno della tua lode!"

Terminata la sua orazione, Dumio diede un colpo di mazzuolo sulla lucente lastra del gong che gli stava al fianco, permettendo ad essa di vibrare ed echeggiare tutt'intorno. Al suono dello strumento metallico, Iveonte e il sacerdote Temurio, con passi lenti e circospetti, si mossero ciascuno verso il rispettivo ingresso per attraversare l'Arco della Sacralità e per uscire dall'altra parte della costruzione. Subito dopo avere imboccato il sacro arco, forse perché soggiogato dalla paura, Temurio si mostrò precipitoso ad attraversarlo, volendo superarlo prima possibile. Ma non appena il sacerdote si ritrovò nella sua parte mediana, ossia nella curva, fu avvolto da una grande fiammata, la quale lo fulminò e lo carbonizzò in un baleno. Un istante più tardi, sempre per opera della stessa forza oscura, il suo corpo ridotto in un tizzone fu saettato all'esterno, tra lo sgomento di quanti assistevano alle due prove ordaliche.

In quel momento, anche la nobildonna Talinda, la sacerdotessa Retinia e Tionteo rimasero sbigottiti, a causa della miserabile fine toccata al sacerdote Temurio. In pari tempo, essi temettero che pure ad Iveonte potesse essere inflitta una sorte identica da parte del dio Matarum. Astoride, da parte sua, non se ne preoccupò per niente, ritenendo l'amico protetto dalla più potente delle forze divine. Ma si poteva essere certi che l'orribile morte toccata al sacerdote Temurio in quella circostanza sarebbe stata la sola a destare sgomento tra quanti assistevano alle prove? Certo che no! A breve distanza di tempo, infatti, un'entità arcana, come per punirne una parte, si diede a falcidiare la casta sacerdotale, uccidendo altri quindici dei suoi membri. La loro morte, che era avvenuta palesemente per strozzamento da parte del dio, fece viva impressione nella rappresentanza laica e nei dodici sacerdoti rimasti illesi. Soprattutto i religiosi superstiti ne rimasero terrorizzati e si mostrarono lieti di essersi schierati dalla parte della loro consorella Retinia. Essi ebbero modo di constatare ancora una volta che il suo vaticinio si era puntualmente avverato. Perciò si convinsero altresì che, in avvenire, era un grave errore non prendere in seria considerazione le sue predizioni, siccome esse non fallivano mai.

Come abbiamo visto, in contemporaneità con il sacerdote Temurio, anche Iveonte aveva fatto il suo ingresso nell'arco di trionfo del divino Matarum, ovviamente dall'entrata opposta, che era ad essa adiacente. Nell'immettersi nell'interno del cunicolo, egli teneva la sua spada sguainata ed aveva incominciato ad avanzare con l'arma in pugno nella piccola galleria, la cui altezza non superava i tre metri. Quel suo gesto, scambiato come un atto provocatorio, era stato giudicato da tutti i sacerdoti del tempio una inutile precauzione, in quanto a nulla esso gli sarebbe valso contro il potente dio. Al contrario, il divino Matarum, considerando l'atteggiamento del sovrano come una vera sfida, si sarebbe scatenato maggiormente contro di lui con tutta la sua ira furibonda e spietata, punendolo come aveva fatto con il loro confratello. Invece ciò non sarebbe affatto accaduto.

Nel frattempo, il nostro eroe si stava avvicinando al punto critico della sua traversata. Cioè, lì dove ogni volta gli altri erano stati investiti da una forza misteriosa, la quale, dopo averli carbonizzati con una grossa fiamma, li aveva scaraventati con sgarbo all'esterno. Allora, a un tempo, mentre la spada divenne di un rosso fiammeggiante, l'anello incapsulò sia il giovane che la sua arma in una sfera energetica. Questa, da parte sua, si preparò ad opporre un'adeguata resistenza ad un'altra energia di cui essa aveva avvertito già la presenza, per non farla essere di nocumento alla diva e al giovane.

Poco dopo, quando Iveonte si spinse in avanti ancora di un passo, avvenne il cozzo tra le due forze invisibili, delle quali quella del luogo mirava a dissolvere l'intrusa, mentre l'energia allogena tendeva a resistere a quella locale. Ma la lotta non andò per le lunghe, poiché intervenne direttamente il dio Kron a stroncare gli equilibri esistenti fra le due energie e a permettere a quella dell'anello di transitare liberamente sotto l'Arco della Sacralità del divino Matarum. Il potentissimo dio del tempo, operando sull'altra forza, volle solo ottenere in essa uno squarcio energetico a ferro di cavallo, mantenendolo poi per tutto il tempo necessario. Esso, frapponendosi tra le due energie contrapposte, teneva in bilico le loro tensioni, intenta ciascuna a schiacciare la sua rivale. Con tale provvedimento, non permetteva a nessuna delle due di avere il sopravvento sull'altra. Allora Iveonte, usandolo come un sicuro passaggio scevro di pericoli, vi poté avanzare indenne e condursi infine all'esterno dell'Arco della Sacralità.

Venuto fuori dall'arco consacrato al dio Matarum, egli fu accolto con festose ovazioni dai sacerdoti, che erano stati risparmiati dalla precedente falcidia del dio. Ma essi ignoravano che egli non era il loro re Francide. Anche la ex regina Talinda, Astoride e Tionteo, volendo congratularsi vivamente con lui, gli andarono incontro e se lo abbracciarono con immensa gioia e con affetto, come se fosse il vero sovrano. Invece il Sommo dei Sacerdoti Dumio, che appariva strabiliato fino all'inverosimile, mostrando un certo orgoglio, ci tenne a porre l'accento sul prodigioso evento. Perciò dichiarò a quanti erano presenti che il re Francide, fra tutti i sovrani che avevano regnato sulla città di Actina, era da considerarsi l'unico re benedetto dal divino Matarum. Quindi, egli era il più degno di essere magnificato dal popolo e dalla casta sacerdotale. Da lassù, anche il dio si compiacque per quel prodigio che egli giammai avrebbe potuto ottenere, benché in quella circostanza ci fosse stato in lui un forte desiderio di farlo avverare a favore del sovrano.

Non appena il breve panegirico del sacerdote Dumio ebbe termine, Iveonte riuscì a sgattaiolarsela insieme con Astoride. Così essi raggiunsero immediatamente l'amico Francide per liberarlo dalla sua snervante attesa. Comunque, quando i tre amici si abbracciarono pieni di gioia, Iveonte non aveva più le sembianze di Francide. Infatti, la diva Kronel, nel medesimo istante che il suo protetto ebbe varcato la soglia dell'alloggio del re di Actina, senza indugio si era preoccupata di restituirgli il suo volto di sempre. Così aveva fatto ritornare il suo pupillo ad essere il vero sé stesso, quello che anch'ella intimamente amava. Anzi, ella gioiva moltissimo, soltanto ad immaginarselo con quel volto, che tanto la inteneriva e le infondeva una speciale passione amorosa.


La mattina del giorno successivo, la nobildonna Talinda, il figlio Francide e i suoi amici, essendo l'ora giusta per soddisfare i loro stomachi vuoti, si trovavano nella spaziosa stanza da pranzo ed erano intenti a consumare la loro parca colazione. Ad un certo momento, la madre del neo sovrano, rivolgendosi al giovane che adesso riteneva l'indiscusso protetto delle due divinità più potenti dell'universo, volle domandargli:

«Potrei sapere, Iveonte, chi sono i tuoi genitori e dove si trovano attualmente? Sono certa che essi saranno felicissimi di avere un figlio fortunato come te! Anch'io ne sarei molto orgogliosa, se Francide avesse avuto una fortuna sfacciata, come quella tua!»

«Nobile Talinda,» le rispose il giovane «mi chiedi ciò che non so neanche io e che tanto bramo conoscere! Comunque, è difficile venire a saperlo, fino a quando non arriverà il tempo adatto che opererà tale miracolo. Ma mi è stato assicurato che un giorno riuscirò ad apprendere chi essi sono. Prima di allora, mi sarà negato di giungere alla verità su di loro. Se non fosse così, la diva, la quale mi protegge, mi avrebbe già fatto i nomi dei miei genitori, per cui adesso starei a godermeli!»

«Allora rassicùrati, amico fraterno di mio figlio, perché oggi stesso pregherò la sacerdotessa Retinia di aiutarti a rintracciarli. La mia amica è molto in gamba a calarsi nel passato delle persone, siccome la ispira il dio Matarum. Devi sapere che è stata lei, in una delle sue ispirazioni, ad individuarvi senza difficoltà. Pensa che ella è stata in grado di ripercorrere i momenti salienti della vita del mio Francide, fino al vostro ingresso in Actina. Ha previsto perfino che sareste andati a pernottare nella Taverna del Pipistrello! Non credi anche tu, Iveonte, che ella sia stata abbastanza brava in ciò e, volendolo, potrebbe farlo anche nei tuoi confronti? Oppure lo metti in dubbio?»

«Se ha fatto quanto affermi, generosa Talinda, la tua amica sacerdotessa si è dimostrata senz'altro straordinaria. Ma ho il timore che, per quanto riguarda il mio caso specifico, ella non potrà fare assolutamente niente. Nessuno mai, fosse egli anche un dio molto potente, potrà svelarmi il mio destino. Me lo ha assicurato un giorno il dio Osur, l'inviato dell'eccelso dio Kron. In caso contrario, ci avrebbe pensato lui stesso a rivelarmi i nomi dei miei genitori. Non ti sembra? Per tale motivo, ritengo assurdo che possa riuscirci la tua amica religiosa! Quindi, è meglio non parlarne neppure!»

«Comunque, Iveonte, noi ci proveremo lo stesso, non avendo nulla da perderci e tutto da guadagnarci. Non sei della mia stessa idea? Perciò ti garantisco che, anche se la sacerdotessa si dimostrerà impotente a conoscere la verità sui tuoi genitori, avrai indicata da lei almeno la strada da seguire per arrivare fino a loro. E questo sarebbe già un gran passo avanti, da parte tua, nella loro ricerca! Magari nel tuo destino è già stato previsto che da lei riceverai l'aiuto necessario che ti condurrà nel luogo dove potrai venire alla loro conoscenza. Dunque, secondo me, ci converrà affidarci al suo utile responso!»

«Va bene, nobile Talinda, permetterò alla sacerdotessa Retinia di scandagliare anche la mia esistenza, come ha già fatto con quella di Francide. Così vedremo che cosa ne uscirà fuori oppure cosa saprà consigliarmi in merito ad essa, come mi hai prospettato! Può darsi che tu abbia ragione nel prevedere una tale evenienza!»

Nel pomeriggio, la sacerdotessa Retinia, dopo aver conosciuto l'oracolo del dio Matarum, ovviamente previa l'effettiva compenetrazione con la somma divinità e la propria trasformazione abituale, parlò al giovane nella maniera seguente:

«Avevi ragione, Iveonte, quando hai affermato che sulla tua persona è assolutamente vietato sondare! Tutto ciò che ti appartiene è occultato da una tenebra impenetrabile, per cui il tuo destino si presenta oscuro ed imperscrutabile perfino al divino Matarum. Grazie alla sua illuminazione, però, sono riuscita ad ottenere su di te qualcosa di una certa rilevanza, la quale ti risulterà di un aiuto molto prezioso.»

«Sarebbe, sacerdotessa Retinia, questo qualcosa a cui mi hai accennato?» le chiese Iveonte, preso dall'ansia di venirne a conoscenza «Me lo vuoi riferire, per favore?».

«Iveonte, adesso so che c'è al mondo chi potrebbe rivelarti i nomi dei tuoi genitori, se tu lo costringessi a farlo. Il suo nome è Zurlof, il quale si fa chiamare Mago dei maghi. Egli dimora sull'isola di Tasmina, detta anche Isola della Morte. Questo suo secondo nome è dovuto al fatto che quanti vi sono sbarcati nel passato non sono stati più in grado di salparne per fare ritorno sulla terraferma. Si tratta di un'isola maledettamente stregata e niente possono contro di essa le sole forze umane. Si dice che delle potenti divinità malefiche proteggono il suo padrone Zurlof. Per questo motivo, approdare sull'isola di Tasmina e salparne equivale a morire e a resuscitare! Ma nel caso tuo, essendo protetto dalle più potenti divinità benefiche dell'universo, sono convinta che le cose non ti andranno male, come è accaduto a tanti altri. Perciò sono fiduciosa che supererai vittoriosamente la prova e conseguirai l'intento che ti sarai proposto!»

Iveonte, nel quale ardeva il desiderio di ritrovare i suoi genitori, non si lasciò intimorire da ciò che si diceva su quell'isola maledetta. Per questo le si espresse con queste parole:

«Se sbarcare a Tasmina significa morire e salparne equivale a risuscitare, ebbene, Retinia, a dispetto di ogni previsione, io morirò ed anche risusciterò! Così saprò finalmente chi sono i miei veri genitori e nessuna forza al mondo potrà vietarmelo! A costo di costringere il mago ad agire contro la sua volontà, piegandolo ai miei voleri e facendomi dire l'intera verità sulla mia famiglia, che non conosco!»

Dopo avere avuto quella bella notizia dalla sacerdotessa Retinia, Iveonte decise di affrontare l'ardua impresa, quella che per tutti gli altri esseri umani aveva significato e continuava a manifestarsi un vero suicidio. Prima d'intraprendere il lungo e rischioso viaggio, però, egli ritenne giusto darne notizia alla sua Lerinda e a Lucebio. Nel raggiungere il saggio uomo, ne avrebbe approfittato per riaccompagnare a Dorinda le tre donne, le quali erano rimaste a Casunna e stavano appunto aspettando sia lui che i suoi due amici per ritornare tutti insieme a casa.

Invece né Francide né Astoride poterono accompagnarlo nel suo viaggio di ritorno a Dorinda, avendo essi altri impegni improrogabili nella Città Santa. Il primo, in quanto sovrano di Actina, si ritrovava ancora sommerso da una montagna di pratiche burocratiche da sbrigare a corte. Il secondo, invece, stava per essere nominato dall'amico sovrano comandante della Guardia Reale, la quale era la ex Milizia della Regina. Perciò avrebbe preso il posto, che era stato di Tionteo fino a quel momento. Il giovane Terdibano, infatti, volontariamente aveva rinunciato a tale carica, siccome riteneva per lui più utile stare accanto al prodigioso Iveonte. Perciò lo avrebbe seguito prima a Dorinda e poi nel suo lunghissimo viaggio alla volta di Tasmina. Egli era sicuro che, stando accanto al grande eroe, ne avrebbe ricavato un insperato vantaggio sotto tutti i punti di vista. Secondo lui, nessuno, meglio d'Iveonte, poteva insegnargli un perfetto uso delle armi e fargli apprendere le arti marziali. Come pure nessuno sarebbe stato più in grado di lui di erudirlo nei tanti campi dello scibile umano, grazie alla sua vasta cultura che dimostrava di possedere. Anche se il suo amico re Francide era ugualmente preparato quanto lui, il sovrano di Actina di certo non avrebbe avuto lo stesso tempo libero, del quale presto sarebbe venuto a disporre Iveonte nei suoi due prossimi viaggi che stava per intraprendere.