216°-IVEONTE, FRANCIDE E ASTORIDE GIUNGONO AD ACTINA

Iveonte, Francide e Astoride, essendo andati incontro a diverse peripezie, le quali erano venute a movimentare il loro viaggio l'una dopo l'altra, avevano impiegato quasi un mese e mezzo, prima di arrivare ad Actina. Volendo essere precisi, il loro arrivo presso le mura della città ci fu alla vigilia dell'inaugurazione dei festeggiamenti in onore del divino Matarum. Essi, però, essendovi giunti a notte inoltrata, trovarono le sue porte ancora chiuse, per cui non poterono mettervi piede prima del mattino successivo. Allora furono obbligati a pernottare all’esterno di essa all’addiaccio, come avevano fatto fino a quel giorno, dopo aver lasciato la città di Casunna. Comunque, nella mattinata del giorno seguente, fu loro consentito di accedere alla Città Santa.

Appena avvenuto il loro ingresso, essi furono presi da un grande stupore. Actina, infatti, non poteva dare ai tre giovani la medesima impressione che aveva suscitato in loro Dorinda. Questa, infatti, era apparsa ai loro occhi come un qualcosa di macchinoso, di potente, di egemonico e di invitto. Al contrario, la nuova città, avvolta com'era nel suo alone di inviolabile misticismo, si presentava agli occhi estasiati del visitatore in un dispiegamento sublime ed incantevole. Per questo essa, dando luogo ad una visione leggiadra quasi trascendentale, finiva per intenerire gli animi estasiati di tutti coloro che la visitavano. A detta della totalità dei pellegrini che pervenivano alla Città Santa, le sue strade ben squadrate e i suoi edifici sobriamente dipinti formavano un armonico raccordo. Il quale, nel medesimo tempo, riusciva a conferire ad essa tanto il senso della grandiosità quanto quello dell’intima religiosità.

Nella tarda mattinata, le vie principali della città risultavano invase da un formicolio di gente. La quale, alternativamente, non smetteva mai di disgregarsi in infiniti pezzetti oppure di comprimersi in una unica massa carnosa semovente. Ma era indubitabile che l'attenzione della maggior parte dei visitatori, come quella dei tre giovani dorindani d'elezione, veniva attirata dal tempio consacrato al dio Matarum. La sua parte superiore, la quale si mostrava interamente protesa in uno slancio verticale altero e solenne, appariva come una selva intricata di guglie, di pinnacoli, di monoliti, di obelischi, di cippi e di statuine. Invece, nella parte laterale della massiccia mole dell'edificio religioso, spiccava mirabilmente l'intrecciarsi di archi rampanti e di violacee ghirlande di trine. Le quali, a guisa di un vivace zampillio, si riportavano al poderoso tiburio centrale, che terminava con una guglia esilissima. A ogni modo, come si poteva notare, accenti di solennità rilevanti venivano raggiunti dalle preziose decorazioni scultoree, che erano diffuse all'esterno e si presentavano miste a gaie ornamentazioni plastiche. Insomma, a causa di quell'imponente e grandioso complesso architettonico di natura religiosa, dai cuori della gente si levavano senza cessazione delle nobili aspirazioni alle più alte vette della spiritualità e della sacralità.

Allora, prima di ogni altra cosa, Iveonte e i suoi due amici si diressero all’ingresso del tempio sacro, all’interno del quale era prossimo l'inizio delle cerimonie religiose. In quel modo, pure la loro fervida preghiera, insieme con quella degli altri fedeli, si sarebbe fatta sentire dal dio taumaturgo. Ma non appena vi furono entrati, le bellezze architettoniche, scultoree e pittoriche, che vi erano profuse, li fecero meravigliare ulteriormente, siccome essi le trovarono assai artistiche in ogni senso.

La parte interna del tempio si presentava molto spazieggiata e luminosa. Inoltre, vi si scorgevano numerose colonne, che si susseguivano in quadruplice fuga fino all'abside, il cui catino era dorato. Ma l'ariosità vi proveniva dalla larghezza della navata maggiore, dalla lenta sequenza delle tre campate interne e dall'alto della cupola, la quale era a pianta ottagonale. Quest’ultima, nella sua solennità, era rivestita con decorazioni a policrome tarsie marmoree, le quali finivano per ravvivare il pavimento, i due amboni, i paliotti, le trifore e le rimanenti parti sottostanti del tempio. Dove l'intensità cromatica e la fantasia ornamentale, considerate nell'insieme, risaltavano pregiatamente e si esprimevano in saldi contorni geometrici davvero stupendi. Per la qual cosa, non si poteva fare a meno di apprezzarne la finezza e di ammirarli con la massima meraviglia. Invece l’elevazione della navata mediana finiva per espandersi anche negli ampi loggiati dei matronei, i quali, nel travalicare il transetto, offrivano uno spettacolo scenografico potente e suggestivo. Comunque, maestosamente ammirevoli apparivano anche i fusti delle colonne, sulle quali poggiavano dei capitelli sormontati da abachi a forma di stelle a sei punte. Il presbiterio, dal canto suo, essendo anch'esso alquanto ampio, era inondato da una incessante cascata di viva luce. Perciò la statua del dio Matarum, posta al suo centro, si presentava ai fedeli in un'area di fulgidezza smagliante e pullulante di giochi policromatici, i quali venivano originati dagli intensi scintillii luminosi. Il suo corpo di marmo, che giganteggiava nella sua posizione seduta, torreggiava maestoso sopra un enorme trono dorato, il quale era alto più di una decina di metri e largo non meno di quattro metri.

Facendosi largo tra la folla dei fedeli, Iveonte, Francide e Astoride avanzarono fin sotto il presbiterio, ai cui piedi si inginocchiarono e si misero a pregare con sentita devozione. Ma essi ebbero appena terminato le loro fervide orazioni, allorquando un primo colpo di gong annunciò l'ingresso nel tempio della nobile sovrana della Città Santa. Stando sotto un lussuoso baldacchino, ella avanzava in mezzo ad una doppia fila di sacerdoti. I quali si scorgevano infagottati nei loro ricchi paramenti sacri, che erano molto sfarzosi. Contemporaneamente alla sua entrata, una ventina di turiferari si erano sporti dal parapetto marmoreo, che era situato ad un'altezza di cinque metri e si prolungava tutt'intorno al semicircolare presbiterio. Adesso essi, agitando i loro splendidi turiboli d'argento, si davano ad incensare il vuoto sottostante. Poco più tardi, si udì anche il secondo colpo di gong, il quale fece ammutolire i fedeli che erano presenti nel tempio. Allora la regina, che era rivolta verso la statua del prodigioso dio, stando ginocchioni e tenendo le braccia protese verso l'alto, si diede ad esclamare con voce solenne:

"Divino Matarum, il mio popolo ed io ti ringraziamo per i tanti benefici, dei quali durante quest'ultimo biennio hai voluto farci dono; per le molte grazie, che continuamente ci hai elargite; nonché per la pace che hai sempre assicurata alla nostra città. Noi vogliamo esprimerti la nostra gratitudine, soprattutto per la tua premura paterna, che non hai mai smesso di dimostrarci, consolando con essa i nostri cuori e i nostri spiriti. In questo giorno, che è di inaugurazione dei tuoi grandi festeggiamenti, ti prego di seguitare a vegliare sul mio popolo con il tuo sguardo benigno, come hai fatto fino ad oggi. Esso se lo merita, poiché non smette mai di essere buono ed onesto, intanto che ti adora con genuina ed ammirevole devozione. Per questo motivo, i miei sudditi mi sono talmente cari, che farei qualsiasi cosa per tutti loro, pur di vederli sereni ed appagati, senza mai avere bisogno di niente!"

Dopo aver pregato la somma divinità dell’Edelcadia come da noi udito, la sovrana di Actina si alzò in piedi e si rivolse verso la folla dei fedeli. Essi da alcune ore stavano accalcando ogni angolo del tempio, quasi fossero delle alici in un barile. Quando poi li ebbe di fronte, tutti desiderosi di ascoltarla, ella si diede a fare loro il seguente discorso:

"Miei sudditi devoti, il divino Matarum vi illumini la via del bene e vi preservi da ogni tribolazione; come pure vi conceda la prosperità e il benessere! Sono soddisfatta del vostro comportamento, della vostra laboriosità e della vostra condotta. Le quali vostre virtù mi hanno sempre resa molto felice e fiera del vostro agire. Desidero che vi mostriate orgogliosi della presenza nella vostra città di una così eccelsa divinità, la quale è origine di luce, di bene e di vita. Il dio Matarum è grande, è misericordioso, è giustiziere, per cui molto presto la sua grazia consolerà Actina. Vi prometto che l'ira del dio sta per abbattersi sulla persona che, per oltre ventisei anni, ha inquinato il clima rasserenante della nostra città. Colpirà anche tutti i lerci individui che lo hanno sempre appoggiato e ogni volta si sono schierati dalla sua parte! Voi sapete benissimo a chi mi riferisco, dal momento che pure a voi egli ha avvelenato l'esistenza. Ma ormai per lui i giorni sono contati. Grazie all'intervento del divino Matarum, il colpo fatale lo raggiungerà a breve termine. Perciò, a questo mio annuncio, esultatene e gioitene tutti, miei cari e fedeli sudditi!"

Nel sentirla adoperare un linguaggio così tagliente, del quale si conosceva bene il destinatario, il principe Verricio si stupì moltissimo. Negli anni precedenti, infatti, ella non si era mai permessa di assumere un atteggiamento simile. In quell'istante, perciò, egli ricollegò le parole della cognata a quanto gli aveva riportato l’ancella Urtesia sul nipote redivivo. Per questo si andò chiedendo se le sue notizie non fossero conformi al vero. Ma poi, soprassedendo, si avvicinò alla cognata regina e le borbottò sottovoce: “Bada a te, Talinda! Se anche nel giorno di domani la tua lingua dovesse ritornare ad essere mordace come questa mattina, un incidente potrebbe non farti più presentare al tempio nel giorno seguente e in quelli successivi! Per il tuo bene, ti sconsiglio dall’usare domani lo stesso linguaggio odierno. Donna avvisata mezza salvata!”

Le parole del principe non erano sfuggite all'orecchio dell’attento Francide, il quale stava poco distante da loro ed aveva ascoltato il suo breve intervento verbale rivolto alla sovrana. Il giovane si rese immediatamente conto che la regina di Actina aveva subito un'aperta minaccia, senza che ella avesse reagito all'uomo, come avrebbe dovuto fare. La qual cosa venne a rodergli così fortemente l'animo, che alla fine non resistette più e si decise ad agire come nessun altro in Actina avrebbe mai osato. Allora, dopo aver scavalcato di scatto la balaustra che lo separava dalla regina, le si avvicinò. Quando poi si trovò al suo cospetto, le si rivolse con le seguenti parole:

«Nobile sovrana di Actina, per quanto è vero che esiste il dio Matarum, quest'uomo un momento fa ti ha palesemente minacciata. Inoltre, da parte tua, senza reagire per niente, lo hai lasciato fare impunemente. Io mi chiedo perché non hai provveduto a denunciarlo al tuo popolo e a farlo punire come si merita. Secondo me, non è giusto che, all'insaputa dei tuoi sudditi, lasci passare impunito il reato di lesa maestà, del quale si è macchiato questo individuo scellerato, che ti sta indegnamente accanto! Il tuo atteggiamento potrei anche considerarlo un vero tradimento nei confronti delle leggi e delle istituzioni, se in esso non scorgessi esclusivamente indifferenza e nobiltà d'animo. Ma non devi fare uso né dell'una né dell'altra, quando hai di fronte degli esseri abietti come questo spregevole individuo e non hai a che fare con persone che ne sono davvero degne. Ecco, mia nobile e generosa regina di Actina, ciò che la giustizia pretende da te nei confronti di quest'uomo infame. Ti consiglio di non scordartelo in avvenire!»

Alle parole di Francide, in un primo momento, il principe Verricio si infuriò come un ossesso; anzi, stava sul punto di dare in escandescenze. Ma poi all'improvviso optò per l'autocontrollo. Così, oltre a fingere di non averne tenuto minimamente conto, passò anche a farci dell'ironia sopra. Infatti, dandosi a squadrare da capo a piedi l’altezzoso giovane forestiero, con una calma soltanto apparente, si limitò ad esclamargli:

«Ma guarda un po' cosa mi tocca sopportare stamani! Il pivello, anziché andarsene a poppare, visto che ha ancora l'età per farlo, se ne viene al tempio a sparare guasconate e a sfoggiare dello stupido coraggio! Per sua fortuna, mi trovo nel tempio e non posso reagire di fronte a delle offese del genere, le quali sono state rivolte alla mia persona!»

Da parte sua, Francide non lo fece parlare senza la sua adeguata reazione, dal momento che si era sentito rimescolare le budella. Perciò all'istante lo riprese in questa maniera:

«Il mio è un coraggio che, per tua buona sorte, non posso farti assaggiare in concreto, siccome ci troviamo in un luogo sacro. Nel caso poi che tu volessi farti venire la voglia di sperimentarlo concretamente, ti basterà seguirmi sul piazzale antistante al sagrato del tempio, dove potremo essere liberi di fare incrociare le nostre spade e di affrontarci. Ammesso che in te ci sia del fegato! Ma ne dubito!»

Nel frattempo si era avvicinato ai due litiganti anche il terdibano Tionteo, il quale, con buona parte dei suoi militi, era intento a far rispettare l'ordine all'interno del luogo sacro. Infatti, dopo aver scortato la regina al tempio, il suo compito diventava quello di espletarvi una sorveglianza rigorosa. La sua nuova mansione mirava a prevenire degli atti sacrileghi da parte di qualche facinoroso oppure di qualche avvinazzato, dopo essere riuscito ad introdursi nel tempio. Il capo della Milizia della Regina, avendo fiutato una imminente aria di battibecco in zona presbiterio, aveva ritenuto opportuno raggiungere immediatamente la sua sovrana. Così vi era arrivato giusto in tempo per ascoltare la sfida lanciata dal giovane al principe Verricio. Perciò Tionteo si diede a guardare la sovrana, volendo comprendere da un suo chiaro gesto se era il caso di un proprio tempestivo intervento. Ma la regina Talinda, la quale appariva come immersa in un clima ascetico, in quel momento teneva gli occhi fissi su Francide, poiché pareva rivivere in lui un suo ricordo remoto. Il suo atteggiamento la faceva estraniare da ogni personale intervento nella questione, la quale era sorta repentina fra il malvagio cognato e il retto giovane forestiero, che si era proposto di fare da giustiziere.

Nell'attesa di un suo ordine, però, l'autorevole Terdibano non aveva potuto fare a meno di riflettere sulle parole di Francide, dandosi a commentarle per conto suo. Per questo, conoscendo il principe Verricio come la migliore lama di Actina, egli aveva giudicato insana la sparata del sensibile suo coetaneo. Quindi, per il bene del poveretto, sperava che l'odioso principe si rifiutasse di raccogliere il guanto che il giovane gli aveva improvvidamente gettato nel luogo sacro. Invece l'alterezza adoperata da Francide nello sfidarlo, che si era manifestata con un tono di voce alto, aveva scosso solo l’indignazione del principe. Il quale non aveva voluto dare un seguito alla sfida, che gli aveva lanciata il difensore della cognata. Anche perché non faceva parte della sua natura scendere così in basso, da mettersi addirittura a duellare con giovinastri da strapazzo. In quella circostanza, perciò, con fare supponente, egli si stava rivolgendo di nuovo al suo sfidante, proferendo queste precise parole:

«La tua impudenza, saccente zerbinotto, stoltamente ti ha condotto a scherzare con il fuoco. Perciò, come è vero che nessuna mano riesce ad immergersi nella sua fiamma, senza uscirne scottata; allo stesso modo, non eviterai la giusta punizione che ti sei meritata con le tue frasi offensive. Essa ti verrà inflitta molto presto, dopo che sarai incarcerato dalla milizia presente nel tempio. Parola del principe Verricio!»

Poco dopo, senza far trascorrere neppure un secondo da quando si era espresso con le sue parole minacciose, egli si rivolse al capo della Milizia della Regina, il quale era arrivato da poco sul luogo dell'alterco. Così, in preda ad una evidente tracotanza, gli ingiunse:

«Avanti, se non vuoi pentirtene anche tu, fai subito arrestare dai tuoi militi questo giovane incauto ed irriguardoso, considerato che è loro compito vigilare sull'ordine del tempio! Dopo che egli sarà stato condotto nel carcere, sarò ad occuparmene di persona, essendo mia intenzione trattarlo come si merita!»

«Mi dispiace per te, principe Verricio; ma io prendo ordini esclusivamente dalla mia sovrana!» gli rispose il Terdibano molto risoluto «Se ella è del tuo stesso parere, non essendoci problemi a farlo, eseguirò l'arresto del giovane. Altrimenti ignorerò il tuo ordine. Anzi, mi comporterò, come se tu non lo avessi mai dato!»

Una volta che ebbe dato al principe Verricio la sua ardita risposta, la quale non era risultata gradita da lui, l'autorevole Tionteo si rivolse all'illustre sovrana e le domandò:

«Allora, mia nobile regina Talinda, che cosa hai deciso, a tale proposito? Ossia, come mi devo comportare nei confronti del qui presente giovane intervenuto in tua difesa? Vuoi che lo faccia arrestare oppure sei di idea contraria? Attendo il tuo legittimo ordine!»

«Invece, Tionteo, nei confronti del giovane qui presente, ordino che non gli si tocchi neppure un capello!» ella gli rispose energicamente «Questi sono giorni di festa e desidero che nessuno vada incontro a qualche avversità della vita! Tutti devono vivere nella Città Santa serenamente e dediti alla felicità più piena! Mi sono spiegata come dovevo, capo della mia milizia, oppure devo ripeterti la mia decisione, per fartela comprendere ancora meglio?»

«Certo, mia nobile sovrana! Perciò farò come mi hai ordinato!»

Quanto alla regina, dopo aver risposto al terdibano Tionteo, ella si rivolse con amorevolezza a Francide e gli disse:

«Baldo giovane, non credi che le chiacchiere non hanno mai nuociuto a nessuno? Perché, dunque, ti sei tanto preoccupato per me? Invece il tuo petto dovrebbe farti interessare a ben altro; ma ci penserà il pipistrello a condurti sulla giusta strada! Adesso ti prego di uscire dal tempio con i tuoi due amici, poiché fuori c'è tanta aria di festa. Essa, che vi sta aspettando a braccia aperte, vi consentirà di divertirvi un mondo!»

Fatto al giovane il suo breve discorso, del quale nessuno dei suoi tre ascoltatori riuscì a capirci un'acca, la sovrana di Actina si ritirò nei locali annessi al tempio. Dopo che ebbe abbandonato il luogo sacro, scortata dalla sua milizia personale, ella rientrò nella reggia, apparendo così lieta e serena, come non lo era mai stata!


Più tardi, una volta fuori dal sacro edificio, Francide spiegò ai suoi due amici il motivo che lo aveva spinto ad avvicinarsi alla sovrana di Actina. Inoltre, gli raccontò quanto era poi accaduto al di là della balaustra, che separava il presbiterio dal resto del tempio. Essi, infatti, siccome si trovavano alquanto distanti dal battibecco, non avevano potuto seguire lo svolgersi dei fatti, nei quali si era lasciato altruisticamente coinvolgere il loro intrepido amico. Strada facendo, però, i tre giovani avevano manifestato anche molta meraviglia, di fronte al fatto che la regina della Città Santa era a conoscenza che Francide aveva due amici. Ciò però risultava una cosa secondaria, se essi si soffermavano sulle seguenti frasi pronunciate dalla sovrana: "Il tuo petto dovrebbe farti interessare a ben altro! Ma ci penserà il pipistrello a condurti sulla giusta strada." Le due parole petto e pipistrello adesso gli si rivelavano dei veri enigmi; ma ugualmente essi cercarono di risolverli a tutti i costi, pur essendo consapevoli che la loro soluzione avrebbe richiesto da loro grandi dispendi di energia intellettuale.

«Francide,» concluse infine Iveonte «più che il petto, è il pipistrello a scombussolare e a disorientare ogni nostro ragionamento sulla tua persona. Come sappiamo, tu tieni tatuato sul petto il tuo nome. Ma chi poteva farti eseguire tale tatuaggio dove lo vediamo, se non i tuoi genitori? Perciò la regina ti ha invitato a cercarli, anche se ci risulta che è viva solo tua madre. Comunque, non possiamo negare che ignoriamo come abbia fatto la sovrana ad identificarti, visto che ella ha voluto informarti che è a conoscenza che porti inciso sul petto il tuo nome!»

Volendo poi concludere quel discorso, il giovane si diede a dire:

«A questo punto, amici, non credete che sia giunto il tempo di badare a divagarci un poco, senza più continuare ad annoiarci con inutili congetture, che ci inducono ad arzigogolare in assurde argomentazioni? Se ci tenete a saperlo, da parte mia, io lo credo senza meno!»

Mostrandosi pure loro d'accordo, Francide e Astoride acconsentirono all'invito del compagno. Allora si diedero a fare il giro della città, divertendosi per alcune ore. Solo così i tre amici trascorsero una giornata veramente meravigliosa, durante la quale ebbero modo di constatare l'efficacia e l'utilità di certe manifestazioni religiose, che si celebravano in seno ad un consorzio civile. Esse, come si davano a riflettere, incrementavano lo spirito di fratellanza ed agevolavano quello della socievolezza. In tal modo, facevano dare una visione affascinante a tutto quanto si identificava con l'agire retto, onesto, umile e laborioso.

Alla fine di quella giornata movimentata, essendo stati sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno, che ora si facevano avvertire da loro abbastanza intolleranti, i tre giovani amici si riversarono nella prima taverna incontrata sul loro percorso. Accedendo in essa, non si preoccuparono neppure di leggere quanto c’era scritto sulla sua insegna posta all'esterno sopra l’anta sinistra della porta. Una volta nel suo interno, essi si resero conto che quasi tutti i tavoli erano occupati da persone, le quali, tenendo le mani e le teste appoggiate sui loro piani, se la dormicchiavano come meglio potevano. Infine notarono che c'era ancora un tavolo non completamente occupato. Esso era situato in fondo alla taverna e veniva occupato solo da un vecchio, il quale si mostrava quasi brillo e in stato di dormiveglia. Allora essi lo raggiunsero lestamente e ne occuparono i rimanenti tre posti vuoti. Dopo che si furono seduti sugli scomodi sgabelli di legno, Francide si affrettò ad ordinare: "Per favore, oste, se sei libero, porta del vino per quattro persone! Stasera pago io!"

Il gestore dell’osteria accorse subito, presentandosi con quattro razioni di vino fresco, il quale era contenuto in capienti boccali di terracotta. Dopo aver posato sul tavolo i recipienti con il derivato dell’uva, egli se ne ritornò a riprendere il suo lavoro, che svolgeva dietro un bancone che si trovava vicino all’ingresso. Davanti al lungo banco, nel frattempo, si era accalcata altra gente, che si mostrava molto impaziente di essere servita dall'attivo oste e di mettersi subito dopo a riposare, ammesso che ci fosse stato per loro ancora un posto per accontentarli.

Il vecchio, che faceva compagnia ai tre giovani amici, vedendo che sul loro tavolo c’era un boccale di vino in più, non riusciva a spiegarselo. Perciò poco dopo, volendo rendersi conto del perché mai ce ne fosse uno in sovrabbondanza su di esso, si rivolse ai tre giovani, che erano seduti al suo stesso tavolo, e fece loro presente:

«Se so contare bene, giovanotti, sono sicuro che vi avanza una porzione di vino. Volete farmi la cortesia di dirmi per chi avete ordinato la quarta? Non vorrei che nessuno la bevesse e restasse qui non scolata! Essa, mentre attende di essere bevuta, potrebbe anche diventare aceto! Non siete anche voi della mia stessa opinione, secondo la quale il vino non va sprecato, quando c’è una bocca che non si sciuperebbe a berlo?»

«Invece la quarta porzione aspetta proprio te, simpatico vecchietto!» gli rispose Francide, subito dopo che lui aveva parlato «Sta a te, dunque, decidere il futuro del vino contenuto nel boccale, ossia se intendi tracannarlo all’istante oppure farlo inacetire con il tempo!»

«Allora il dio Matarum vi protegga, giovani generosi! Come pure ve ne renda merito! Ma prima di bere in fretta il mio dolce nettare, siccome non ho intenzione di farlo diventare aceto, permettetemi di presentarmi. Il mio nome è Daleno, anche se i miei amici mi hanno ribattezzato con il nome di Filosofo. Posso sapere adesso pure i vostri nomi, perché me li scolpisca nella mente e nel cuore in modo indelebile? Sappiate che, da oggi, comincerò a considerarvi dei miei grandi amici, se ciò vi aggrada! Allora me lo consentite? Vi faccio presente che non mi darò a bere il vino che mi avete regalato, se prima non mi accettate come vostro amico!»

«Certo che hai il nostro consenso, Daleno, poiché ci fa piacere considerarci tuoi amici!» gli rispose il giovane «Comunque, il mio nome è Francide; invece quelli dei miei amici sono Iveonte, che vedi alla mia destra, e Astoride, il quale si trova alla mia sinistra. Sei soddisfatto adesso oppure desideri altro da noi tre, per convincerti a bere il vino?»

Dopo aver bevuto il vino che gli era stato regalato ed essersi messo a canticchiare brevemente, il vecchio si ridiede a parlare ai suoi tre simpatici benefattori, che apparivano ancora svegli:

«Sapete, miei generosi giovani, quali sono le cose più belle che esistono in questo mondo? Se ci tenete a conoscerle, posso dirvele io. Viceversa, posso riferirvi anche quali sono le cose più brutte esistenti sulla nostra terra, le quali sono da evitare ad ogni costo e con ogni mezzo! Allora mi è permesso rendervele note, affinché ne veniate a conoscenza pure voi? Se però non avete intenzione di ascoltarmi, basta farmelo presente eloquentemente. In quel caso, io mi metterò subito a tacere.»

«Invece puoi farlo, Daleno! Perciò inizia a deliziarci con la tua saggezza. Se non sbaglio, ne devi avere parecchia in quel tuo capoccione pelato, pur avendo una grande penuria di capelli!»

«Ebbene, amici, le cose più belle di questo mondo sono e saranno sempre tre: l'amore, la giustizia e la speranza. Le cose più brutte sono anch'esse tre, ossia: l'odio, l'ingiustizia e la disperazione. Ecco perché chi non ama, chi è ingiusto e chi non spera non conoscerà mai la felicità e la sua vita sarà continuamente un inferno terribile e senza pace! Sono stato contento di avervi messi a conoscenza di tutte e sei le cose!»

Ciò detto, il vecchio, dopo avere aggiustato le braccia sopra il piano del tavolo ed avervi appoggiato sopra la testa, si mise a sonnecchiare. A loro volta, essendo anch'essi molto stanchi, i tre amici si affrettarono ad imitarlo, addormentandosi di colpo. Ma quando giunse l'alba, Iveonte, Francide e Astoride, essendo già desti, si intrattenevano a fare quattro chiacchiere fra di loro. Lo facevano sottovoce e senza disturbare quelli che nella taverna preferivano ancora dormire e riposare. Mentre parlottavano, a un certo momento, essi intravidero sulla soglia della taverna lo stesso gendarme che nel tempio avevano visto avvicinarsi alla regina ed affiancarla. Egli vi stava entrando di gran carriera. Scorgendolo, mentre il giovane gendarme infilava l'uscio della sua bettola, il quale era a due battenti, l'oste si affrettò ad esclamargli:

«Benvenuto alla Taverna del Pipistrello, mio amico Tionteo! Mi dici qual buon vento ti spinge a visitare la mia taverna? Non per bere, ovviamente, perché il mattino non fa venire tale desiderio! Inoltre, non hai mai voluto assaggiare un goccio del mio squisito vino, siccome sei astemio. Ma esso, come ti ho sempre asserito, fa resuscitare i morti!»

«Hai proprio ragione, Prosio, mio concittadino! Sto solo cercando un giovane di nome Francide, il quale dovrebbe trovarsi dentro la tua taverna. Secondo fonti attendibili, egli si troverebbe in questo locale con altri due amici, per avervi pernottato. Tu ne sai niente, mia simpatica vecchia conoscenza, o devo vedermela da solo, cercandolo da me?»

«Come potrei esserne al corrente, illustre Terdibano? In questi giorni, sono così tanti gli avventori che frequentano la mia taverna e vi si avvicendano, che certe volte finisco per servirli senza neppure guardarli in faccia oppure senza accorgermi di loro! Quando c'è calma, allora sì che la musica cambia! Anzi, ho perfino il tempo di scambiare quattro chiacchiere con i miei clienti. Lo sai benissimo quanto mi piace conversare con la mia clientela, loquace come sono! Tu sei fra quelli che mi rinfacciano di essere un chiacchierone nato: non è forse vero? Comunque, non me ne pento di essere come sono! A proposito del giovane che stai cercando, a me puoi dirlo: È un tipo pericoloso? Devo preoccuparmi di lui? Oppure devo pensare sul suo conto qualcos'altro? Avanti, dimmi ciò che sai su di lui, se vuoi trattarmi da tuo vero amico, quale sono!»

«Invece egli è tutt'altro, Prosio, se sta a cuore alla regina, per quanto ho potuto capire! Perciò puoi startene tranquillo, senza temere niente di brutto, da parte sua! Te ne do assicurazione!»

«Chi sarà allora? Adesso che ci penso, tale nome lo aveva anche il nonno paterno del defunto re Godian e del principe Verricio. Non trovi strana pure tu la coincidenza, amico mio? Ma ciò non è tutto, poiché c'è ancora dell'altro che devi sapere, mio carissimo Tionteo! La regina Talinda, se non erro, aveva avuto dal re Godian un figlio, al quale era stato dato il nome proprio del bisnonno. Il poveretto era nato pochi giorni prima dell'assassinio dello sventurato genitore, il quale fu attribuito al fratello Verricio. Quest'ultimo, poi, provvide anche a fare scomparire il neonato, nonostante la sua tenera età! Egli non sarà mica ritornato ad Actina per vendicarsi del padre assassinato?»

«Se continui così, Prosio, concluderai che sto cercando proprio il figlio della regina Talinda, ossia il futuro re di Actina! Oppure consideri le mie conclusioni molto azzardate? L'espressione del tuo volto mi dice proprio di no! Ma adesso fammi dare una occhiata dentro il tuo locale, tra i tuoi avventori, se voglio individuarlo fra tanti di loro!»

Dando poi uno sguardo più internamente alla taverna, la quale era profonda oltre i venti metri, e scorgendo in fondo ad essa i tre giovani, egli all'istante esclamò:

«Eccolo là, Prosio! Egli è lì in fondo con i suoi due amici! Adesso vado a parlargli! Tu, intanto, non lavorare sodo e ripòsati ogni tanto, poiché il molto lavoro danneggia la salute e rende l’uomo simile alle bestie!»

Così il serioso comandante della Milizia della Regina si diresse speditamente verso il tavolo, il quale era occupato dai tre amici e dal vecchio Daleno. Dopo aver raggiunto i tre giovani, salutandoli con molto rispetto e con evidente cordialità, gentilmente Tionteo si rivolse a quello che stava più vicino a lui e si affrettò a domandargli:

«Sei tu Francide, nevvero? Già, lo sei senz’altro, se sono giuste le indicazioni ricevute! E poi non potrei assolutamente sbagliare, dal momento che sei proprio il giovane che ieri al tempio ha battibeccato con il principe Verricio! Anche se lo hai fatto con alquanta imprudenza, a mio parere! Per il tuo bene, la prossima volta cerca di non sfidarlo più!»

«Certo che sono Francide, autorevole gendarme: puoi scommetterci! Ma tu come fai a conoscere il mio nome, se è la prima volta che metto piede in Actina e non ci siamo mai parlati? Né credo di averti detto il mio nome al tempio, quando sono intervenuto a difesa della regina! Riguardo alla mia imprudenza, a cui hai fatto riferimento, sappi che è stato il gaglioffo principe a peccare di imprevidenza e non io!»

«Lasciando da parte la questione del principe Verricio, che è meglio ignorare, riguardo al tuo nome, non posso affermarti il contrario, Francide! Invece è stata la mia sovrana a mettermi al corrente di come ti chiamavi e che potevo trovarti qui. Io sono il comandante della milizia che vigila sulla regina, la quale mi ha incaricato di venire ad invitarti alla reggia e di accompagnarti da lei, senza precisarmi la ragione del suo invito. Ella mi ha soltanto fatto presente che devo condurti in sua presenza da solo, senza i tuoi amici. Ma non dovrai temere alcuna insidia, mentre sei in mia compagnia! Allora vieni con me dove ti ho detto?»

Prima di seguire il gendarme, il quale era venuto ad invitarlo a corte da parte della sovrana, Francide volle consultarsi prima con i suoi amici. Perciò domandò a loro due:

«Vorrei sapere cosa ne pensate di questo strano invito da parte della regina, amici miei. Secondo voi è il caso di accettarlo oppure devo declinarlo? Vorrei conoscere anche il vostro parere a tale riguardo, prima di muovermi da questo posto insieme con l'autorevole comandante.»

«C'è forse bisogno di un nostro parere, amico mio?» gli rispose Iveonte «È logico che devi andare. Colei che sa che ti chiami Francide, che tieni inciso sul petto il tuo nome, che hai due amici e che ha previsto perfino che saremmo venuti a trascorrere la nottata alla Taverna del Pipistrello, di sicuro saprà anche chi sono i tuoi genitori! Probabilmente, è per questo motivo che ella ti ha convocato alla reggia presso di lei, cioè per rivelarti i loro nomi. Dunque, non indugiare altro tempo e segui l'illustre gendarme; ma sii molto prudente, una volta che sarai giunto nella reggia! Quanto a me e al nostro amico, a mezzogiorno andremo ad aspettarti sul sagrato del tempio, dove ci raggiungerai, non appena ti sarai sbrigato con la sovrana di Actina e ti sarai altresì congedato da lei! Mentre ci lasci, Francide, ti diciamo: "In bocca al lupo!"»

«Voi due non temete per lui,» Tionteo cercò di rassicurare Iveonte ed Astoride «poiché ci sarò io, con la mia milizia, a proteggerlo! Vi garantisco che, se qualche malintenzionato cercherà di fargli del male, dovrà prima passare sul mio cadavere! Adesso vi sentite rassicurati, dopo avervi dato la mia parola che non gli accadrà nulla di brutto?»

Alle parole del comandante della Milizia della Regina, Astoride non riuscì a trattenere una risata, sebbene accettabilmente contenuta. Essa invece si sarebbe espressa di sicuro in modo fragoroso, se si fossero trovati in un luogo aperto e non in quell'osteria, dove dominava ancora il sonno nella maggior parte dei tavernieri presenti!

«Perché stai ridendo in quel modo?» incuriosito gli domandò il gendarme, al quale l'abbozzo di risata di Astoride non era passato inosservato «Ho forse detto qualche sciocchezza, della quale non mi sono neanche reso conto per distrazione? Se non ti dispiace, vorrei saperlo! Così la prossima volta starò attento a non cadere nel medesimo errore!»

«No no, non hai affatto parlato a vanvera, onorevole gendarme!» lo rassicurò il giovane terdibano «Tu non c'entri per niente con la mia risata. All'improvviso, mi è passato per la mente un episodio abbastanza ridicolo, il ricordo del quale mi spinge ogni volta a ridere, senza riuscire a trattenermi. Adesso conosci il motivo della mia risata!»

«Quale sarebbe poi l’episodio che continua a provocarti l'incontrollabile risata, tutte le volte che lo rammenti? Ci terrei a conoscerlo anch’io. In questa maniera, dopo riderò volentieri insieme con te, qualora esso dovesse far ridere per davvero!»

«Si tratta di un mendicante bizzarro, il quale aveva sempre la vena di scherzare. Egli, dopo essersi accostato al suo re che stava facendo alcune compere in una fiera, cercò di tranquillizzarlo, dicendogli: "Non temere, mio re, se hai voglia di acquistare tutta la roba che desideri. Tanto adesso ci sono io a far fronte alle tue spese!" Allora ti è piaciuto?»

«Già,» approvò Tionteo, restando all'oscuro dell'allusione della sua controparte «si tratta di un episodio che fa veramente ridere molto! Anche a me certe volte passano per la mente episodi che mi sono accaduti in passato, i quali, essendo molto ridicoli, mi spingono a ridere da solo, proprio come è capitato a te in questo momento!»

Naturalmente, l'allusione del loro amico non era sfuggita né ad Iveonte né a Francide. Essi, però, avevano evitato di riderci sopra, per timore che l'inviato della regina potesse accorgersene ed offendersi. Ma prima di allontanarsi dalla taverna, il comandante Tionteo, dopo un attimo di riflessione, chiese al suo recente interlocutore:

«Noi due ci conosciamo, per caso? A dire la verità, il tuo volto non mi è nuovo. Forse mi sto confondendo con qualcun altro, che non vedo da moltissimo tempo. Come possiamo renderci conto anche questa volta, spesso la memoria ci fa dei brutti scherzi e ci spinge a prendere dei grossi abbagli! Ma possiamo solamente scusarla!»

«Pure tu hai una vaga somiglianza con una persona, che ho conosciuto tanti anni fa.» gli rispose Astoride «Ma ti posso assicurare che noi due non ci siamo mai incontrati, considerata la mia travagliata esistenza passata, la quale non mi ha permesso di frequentare nessuna persona! Ho incontrato solamente da poco i due amici che ho.»

Terminata anche la breve conversazione con Astoride sulla somiglianza, a causa della quale si era attardato, l’autorevole gendarme, il quale indossava una splendida livrea adatta al suo rango, si diede a sollecitare l'invitato della sua nobile sovrana:

«Francide, è tempo di incamminarci verso la reggia, dove la regina ci sta aspettando con molta ansia. Per fortuna, a quest’ora del mattino, poiché la maggior parte della gente preferisce ancora dormire, non dovrebbe esserci difficile raggiungerla alla svelta! Infatti, le strade, essendo quasi deserte, adesso risultano agevolmente percorribili.»

Come aveva previsto Tionteo, a quell'ora del mattino, la città seguitava a dormire profondamente. Per tale motivo, i due giovani cavalieri poterono pervenire in brevissimo tempo all'ingresso della reggia. Da quel posto, poi, essi si adoperarono anche per raggiungere con grande sollecitudine la sovrana, la quale li stava aspettando con impazienza.


Andato via il loro compagno insieme con il comandante della Milizia della Regina, Astoride, essendo rimasto interdetto, non riuscì a fare a meno di chiedere all’amico che era rimasto con lui:

«Sapresti dirmi, Iveonte, che cosa mai la sovrana di Actina vorrà dal nostro comune compagno? Sono convinto che già lo sai, visto che te la cavi sempre molto bene a renderti conto di ogni situazione ingarbugliata. Perciò tutte le volte dai una giustificazione a ciascuna cosa, quella che ad altri non risulterebbe altrettanto facile!»

«Ti assicuro, Astoride, che la regina vorrà solamente rivelare a Francide che ella è sua madre, mentre lui è suo figlio. A parte queste due cose, amico mio, non ho da aggiungerti nient'altro! Ora sei soddisfatto ugualmente? Spero proprio di sì, poiché non ho altre carte da scoprire!»

«Dici davvero, Iveonte?! Ma tu come fai a saperlo, se neppure Francide lo ha mai lontanamente sospettato? A quanto vedo, anche la tua risposta mi si presenta parecchio misteriosa! Oppure sapevi già qualcosa, in merito ai genitori del nostro amico, prima ancora di metterci in viaggio? Non può essere altrimenti, grande amico mio!»

«In un certo senso, è così, Astoride. Prima di partire per Actina, Lucebio mi aveva fatto delle confidenze, in base alle quali Francide poteva essere soltanto il figlio della regina di Actina. Mi aveva anche raccomandato di non farne parola con lui. Voleva evitargli una grossa delusione, nel caso che ciò non fosse risultato conforme al vero. Adesso dovrebbe essere chiaro pure a te. Vedi che non si trattava di un mistero?»

«Invece non riesco a capacitarmi, Iveonte, di come abbia fatto la madre di Francide a disporre di tanti ragguagli sul proprio figlio, pur essendo a grandissima distanza da lui. Tu sai rispondermi in qualche modo a questa mia perplessità, alla quale non riesco a dare una logica spiegazione? Oppure neanche tu sai darti una risposta decente?»

«Su questo particolare, Astoride, hai proprio ragione, visto che nemmeno io so risponderti, essendo a digiuno quanto te di notizie che la riguardano. Ma posso garantirti che c'è sotto lo zampino di una divinità, magari del dio Matarum, il quale l'avrà messa al corrente di ogni dettaglio concernente il figlio. Magari egli lo avrà fatto tramite qualche sua sacerdotessa amica della regina, dopo essere intervenuto ad ispirarla!»

«Se ci tieni a saperlo, Iveonte, la penso anch'io allo stesso modo tuo, siccome non può esserci un'altra spiegazione plausibile, umanamente intesa! Ma ciò che non mi quadra ancora per niente è il fatto che eravamo partiti da Dorinda per salvare una madre, cioè quella di Francide, la quale ci era stata presentata seriamente in pericolo. Invece adesso qui scopriamo che ella è addirittura una regina. Secondo me, nella Città Santa non potrebbe esserci nessuno così folle, da attentare alla vita della propria sovrana! La pensi anche tu come me oppure no?»

«Al contrario, Astoride, uno ci sarebbe. Mi riferisco al principe Verricio, naturalmente! Egli è lo zio del nostro amico e il cognato della regina Talinda. Fu lui, secondo quanto tutti affermano in Actina, a fare uccidere il re Godian suo fratello, ossia il padre di Francide. Dopo consegnò anche il suo neonato unigenito nelle mani di un sicario, affinché lo accoppasse. Secondo il suo perfido progetto, per diventare re di Actina, gli bastava sbarazzarsi del fratello e del nipote, nonché farsi poi sposare dalla cognata. Per lui quello costituiva l'unico modo per salire legittimamente al trono della Città Santa. Devi sapere che in questa città le leggi consentono pure alla vedova di un re di regnare sul popolo actinese, anche nel caso che il sovrano morto abbia lasciato vivo qualche fratello. Quest'ultimo, però, solo se riesce a farsi sposare dalla cognata vedova, automaticamente diviene il legittimo successore al trono del fratello re morto. Allora tutti i poteri passano nelle sue mani. Era ciò che aveva anche sperato, ma non ottenuto, il principe Verricio, il quale si era poi ritrovato a fare i conti senza l'oste. Astoride, adesso sai anche chi potrebbe attentare alla sua vita! Non dimenticare che egli l'ha anche minacciata al tempio, facendo intervenire Francide a prendere le sue difese! Hai già forse dimenticato quanto stamattina ci ha raccontato il nostro amico?»

«Invece, Iveonte, anche la morte della regina Talinda poteva fare ereditare il trono al fratricida principe Verricio. Perciò mi vado domandando come mai, dopo aver fatto uccidere il fratello e il nipote, non pensò di fare ammazzare pure la cognata, per essersi rifiutata di sposarlo. Non trovi strano anche tu il fatto che egli non procedette pure alla sua eliminazione fisica per assicurarsi il trono di Actina?»

«Certamente, Astoride! Anch'io me lo sono chiesto più volte. Si vede che un motivo allora ci sarà stato, per cui egli stabilì di non agire in tal senso. Sono convinto che la regina Talinda saprebbe indicarcelo senza meno, se le facessimo una domanda del genere. Ma immagino anche la risposta che ella ci fornirebbe in merito, dopo la nostra domanda!»

«Dici davvero, Iveonte? Secondo te, essa quale sarebbe, di grazia? Io non riesco a comprendere come fai ogni volta ad avere sempre la risposta pronta ad ogni quesito che ti viene posto. Beato te, amico mio, che sei dotato di tale bel privilegio!»

«Astoride, ella ci risponderebbe che era stato suo padre, anch'egli re di qualche altra città dell'Edelcadia, ad ammonirlo che, se fosse capitato anche alla figlia una disgrazia, gli avrebbe mosso guerra senza meno. Un ammonimento del genere avrebbe spaventato il cognato Verricio, per il semplice fatto che fra tutte le altre città edelcadiche vige una coalizione di ferro. La quale obbliga ciascuna città ad intervenire in aiuto di una di loro, sia nel caso che venga assediata da un'altra città sia quando è essa medesima ad attaccarla per giustificati motivi. Perciò, in tanti anni, egli si è ben guardato dall'arrecare alla cognata regina anche il più piccolo graffio. Diversamente, per noi non ci sarebbe un’altra spiegazione, che risultasse logica e convincente! Non pare anche a te che possa esserci stato un fatto di questo tipo, mio grande curiosone?»

«Come ho detto prima, amico mio, tu trovi sempre la pezza giustificativa ad ogni fatto e a ciascuna circostanza! Sono convinto che tieni il cervello sempre bene allenato, se tutte le volte esso riesce a cavarsela egregiamente, sia nel risolvere ogni problema sia nel congetturare le ipotesi più vicine alla realtà. Ma ritornando al nostro compagno, se è come hai asserito, ho il presentimento che abbiamo sbagliato a lasciarlo andare da solo alla reggia. Se ammettiamo che lo zio Verricio sia venuto a sapere del nipote, all'insaputa della madre, egli potrebbe anche avergli teso qualche tranello!»

«Potrebbe anche essere vero quanto affermi, Astoride, considerato che in una reggia pure i muri hanno le orecchie per sentire. Entrambi, però, sappiamo che il nostro Francide è già solidamente vaccinato contro eventuali insidie di questo genere. Inoltre, egli è in gamba a tal punto, da riuscire a venir fuori da qualsiasi situazione scabrosa, servendosi della sua preparazione nei vari tipi di armi e nelle arti marziali!»

«Ma io, Iveonte, mi sentirei più tranquillo, se andassimo a stazionare nei pressi della reggia e ci tenessimo più vicini al nostro amico. Se egli a corte avesse bisogno del nostro aiuto, trovandoci nelle sue vicinanze, non perderemmo tempo a correre in suo soccorso e a dargli una mano, nel caso che dovesse occorrergli per qualche ragione qualsiasi!»

«Se una cosa simile servirà a farti stare più tranquillo, Astoride, vuol dire che faremo proprio ciò che hai proposto. Ti ripeto, comunque, che Francide saprebbe cavarsela splendidamente anche da solo, se qualcuno venisse a tendergli qualche trappola e volesse ostacolargli in ogni modo l’uscita dalla reggia. Ma ti affermo di nuovo che la nostra sarà una precauzione del tutto superflua!»

Quella fu la risposta conclusiva che Iveonte aveva data all'amico Astoride, con la quale aveva cercato di tranquillizzarlo. In verità, se vogliamo essere obiettivi, pure lui, sotto sotto, aveva iniziato ad avvertire qualche piccola inquietudine, restandosene in apprensione per il suo amico fraterno. Anche perché Lucebio gli aveva raccomandato di non lasciarlo mai solo, una volta giunti nella Città Santa. Comunque, non dubitava che egli sarebbe stato all'altezza della difficile situazione, proprio come lo sarebbe stato lui.