214°-LA CITTÀ DI ACTINA E LA SUA REGINA TALINDA

La città di Actina si trovava in mezzo ad un territorio pianeggiante molto fecondo, dove allignavano molte specie di piante ornamentali e floreali, che lo facevano apparire agli occhi di tutti un paradiso terrestre. Essa, essendo situata agli estremi confini orientali dell'Edelcadia, rappresentava l'ultima città del mondo cosiddetto civile. Infatti, una volta oltrepassati i suoi territori levantini, iniziavano a susseguirsi una sfilza di tribù. Le quali, fatta eccezione di poche, prima risultavano semibarbare e poi finivano per essere del tutto incivili e selvagge. Queste ultime, poiché restavano attaccate alle loro antiche usanze, si contentavano di vivere in rudi villaggi. In direzione di tale confine, il territorio actinese andava salendo gradatamente con una serie di ripiani stepposi, formando alla fine un esteso crinale, che strapiombava con dirupi spaventosi. Invece il suolo, quando smetteva di appartenere alla Città Santa, iniziava a digradare di nuovo, fino a diventare una immensa estensione tra colline ridenti. Allora esso si presentava con caratteristiche ambientali diversificate, siccome vi si alternavano paludi, jungle, acquitrini, modeste savane, verdeggianti boschi, ubertose pianure ed assolati colli. Questi ultimi si presentavano ammantati di un bel verde smagliante.

Actina, ascesa in grande rinomanza da più di un millennio, era chiamata da tutti i popoli edelcadici anche Città Santa, per il fatto che all'interno delle sue mura era stato edificato, fin dalla sua origine, un magnifico tempio. Esso era stato dedicato alla loro divinità, che era il glorioso dio Matarum. La cui presenza tra le sue mura faceva provenire ad Actina un profondo rispetto dalle altre otto città. A tale proposito, nell'Edelcadia correva voce che qualsiasi popolo si fosse azzardato ad attaccare la città di Actina avrebbe fatto scatenare l'ira del dio Matarum, per cui avrebbe riscosso la più clamorosa delle sconfitte. Specialmente dopo che c'era stato contro di essa l'assedio dei Berieski e costoro erano stati sconfitti, i sovrani delle altre città edelcadiche avevano creduto ancora di più a tale voce popolare. Perciò essi si sarebbero ben guardati in futuro dall'imitare i barbari venuti da fuori, per non andare incontro ad una solenne disfatta! Invece la sconfitta dei Berieski era stata opera dell'insigne stratega Kodrun e non c’era stato alcun intervento del dio Matarum, com’era stato immaginato e creduto solo per sminuire il valore del re dorindano.

Con periodicità biennale, in Actina venivano celebrati dei solenni festeggiamenti in onore del dio Matarum, i quali avevano la durata di trenta giorni. Durante l'intero periodo di festa, la Città Santa assumeva un aspetto molto differente, poiché vi prendevano posto una vitalità nuova e un fervente impeto di benevoli sentimenti. Era noto a tutti gli Edelcadi che, durante tali festeggiamenti, pur appartenendo a città diverse della regione edelcadica, la gente intervenuta fraternizzava con particolare calore, si dava con animosità a mutue prodigalità, si pasceva di esaltazioni ascetiche e sentite preghiere; ma soprattutto si inorgogliva nel sacrosanto nome del loro dio Matarum. Il quale, da oltre mille anni, con pieni diritti, era divenuta la somma divinità della regione edelcadica.

Nel presente della nostra storia, sul trono di Actina regnava la regina Talinda. Ella, essendo rimasta vedova pochi giorni dopo aver generato il suo primo figlio, era succeduta al marito Godian, il quale era stato assassinato da mani ignote. Ma molti Actinesi erano pronti a giurare che il mandante del regicidio poteva essere stato soltanto suo fratello, il principe Verricio. Costui, sempre secondo le stesse persone, non facendosi scrupolo di niente, si era voluto sbarazzare subito dopo anche del neonato nipote, che aveva appena pochi giorni. Ciò di cui esse erano certe, ad ogni modo, era conforme al vero. Infatti, dopo essersi macchiato di fratricidio, il secondogenito del re Nortano aveva deciso di eliminare anche il nipote Francide. Perciò una notte, mentre la cognata dormiva, le aveva sottratto il piccolo nato da una settimana e lo aveva consegnato ad un'ancella di corte. Nel porgerglielo, l’aveva incaricata di portarlo via, lontano dalla Città Santa, dove ella avrebbe dovuto ucciderlo nella maniera che più si sentiva di fare. Il fratricida, che si era dimostrato privo di scrupoli con quel suo crudele provvedimento, non aveva nascosto la sua seconda azione delittuosa alla cognata regina, poiché la considerava molto legata a lui affettivamente. Basti pensare che essi stavano per unirsi con il sacro vincolo del matrimonio, il quale gli avrebbe consentito di diventare re di Actina! Egli, infatti, volendo essere franco con lei sulla vicenda del figlio, le aveva confessato:

«Mia cara Talinda e mia prossima sposa, non potevo far sopravvivere mio nipote Francide all’uccisione del padre, visto che fra noi due dovranno esserci delle indissolubili nozze. Pur essendo io estraneo all'assassinio di cui è rimasto vittima mio fratello Godian, sono stato costretto ad ordinare la sua eliminazione fisica. Devi sapere che egli in seguito avrebbe potuto costituire un potenziale ostacolo alla nostra serenità. Prova ad immaginare un poco se un domani qualche nostro invidioso calunniatore fosse riuscito a convincerlo che noi due in passato avemmo a complottare contro il suo genitore, rendendoci corresponsabili del suo assassinio! In quel caso, avremmo perso la nostra tranquillità, poiché per noi sarebbero sorti dei guai molto seri ed avremmo corso perfino il rischio di venire assassinati da lui, a scopo di vendetta. Mi sai dire chi sarebbe stato capace di scacciare da Francide quell'odio che, a tale notizia, sarebbe germinato in lui terribile e si sarebbe placato unicamente con la nostra uccisione? Tu non di certo e tantomeno io, essendo noi due i principali indiziati dell’uccisione del padre! Per questo motivo, se aspiri al nostro bene, mi aspetto da te l'approvazione del mio giusto operato. Esso è scaturito esclusivamente da una pura necessità, la quale non poteva evitarsi nel modo più assoluto!»

La regina Talinda, nell’apprendere dalla bocca del cognato la sua criminale iniziativa, era inorridita e non era riuscita a giustificarla in nessuna maniera. Perciò, una volta avuta la sua orribile confessione, ella prima si era incupita in volto, subito dopo si era mostrata irata al massimo ed infine espressamente aveva voluto fargli presente:

«Il tuo linguaggio, Verricio, è stato quello di un vero colpevole, per cui ti fa pure accusare dell'omicidio di mio marito. Ti avevo promesso di sposarti, credendo di maritarmi con un uomo innocente, che era desideroso di consolare l'afflitta cognata e non con un autentico fratricida cupido del trono. Ma se hai messo a tacere l'odio del figlio, arrecandogli la morte; non ti sarà facile fare altrettanto con quello della madre. Da oggi in avanti, esso inizierà a dimostrarsi implacabile e senza tregua nei tuoi confronti. Per questo aspèttati da me soltanto disprezzo e rancore eterni! Dopo quanto mi hai rivelato, non sperare più che un domani io possa ripensarci e sposarti, facendoti diventare re di Actina. Al contrario, giuro solennemente sull'anima del defunto mio Godian che rimarrò per sempre vedova in questa città, restando così la sua unica regnante. Il divino Matarum sia testimone di questo mio giuramento!»

Da quel giorno, la regina di Actina aveva vissuto una vita quasi da relegata, senza più prendere parte ad alcuna cerimonia di corte, a parte l'amministrazione della giustizia. Prendendo decisione, ella aveva dato modo al cognato di approfittarne. Infatti, il principe Verricio, pur non essendo re della Città Santa, dopo essersi comprato il tacito appoggio della classe sacerdotale e dell'esercito, anno dopo anno, l'aveva sminuita del suo potere e della sua influenza, signoreggiandosela come un vero monarca. Probabilmente la sua indifferenza od acquiescenza alle varie iniziative del cognato, in fatto di governo della città, aveva salvato la vita alla sovrana. Difatti ella non aveva rappresentato per lui alcun ostacolo da abbattere oppure una pericolosa rivale da sopprimere. Così il popolo di Actina aveva potuto vedere la sua amata regina unicamente durante i trenta giorni consacrati al dio Matarum, i quali corrispondevano a quelli centrali dell'estate dei soli anni pari. In quella occasione, era richiesta la sua presenza quotidiana al tempio, poiché ella doveva presiedere alle varie funzioni religiose che vi si svolgevano. Durante le quali, da parte dei devoti Actinesi, a cominciare da lei, il dio veniva sommamente magnificato, nonché si impetravano alla stessa divinità infinite benedizioni e grazie di ogni genere.

Unica compagna fedele della vedova regina era sempre stata, come lo era tuttora, Retinia. Ella, oltre ad essere sacerdotessa del divino Matarum, era anche una brava indovina, poiché la ispirava il suo dio. In lei, la sovrana trovava un grande conforto, una sicura favoreggiatrice di ogni suo sfogo personale, come se fosse davvero una propria sorella. La religiosa riusciva a mantenere la sua regina nella più grande spensieratezza, dopo essere stata capace di tirarla fuori dai suoi morbosi stati di ipocondria, ai quali la sovrana in passato era solita darsi. Ora la incoraggiava in continuazione a vivere nella serenità e nella speranza, facendole spesso presente che il futuro le avrebbe riservato fiumi di gioia.


Ricorreva il venticinquesimo anno della vedovanza della regina Talinda, senza che ella avesse mai dimenticato il marito che le era stato fatto ammazzare dal cognato. Allora Retinia, durante un ennesimo loro incontro, conversando con lei, le si era espressa in questa maniera:

«Mia regina amatissima, se me lo consenti, oggi desidero narrarti un bell'apologo, poiché lo trovo proprio adatto a te. Ti consiglio di ascoltarlo con la massima attenzione, poiché sono convinta che esso fa al caso tuo e ti calza a pennello. Quando avrò terminato di raccontartelo, ne apprenderai anche la ragione! Sei d'accordo ad ascoltarlo?»

«Se ti fa piacere raccontarmelo, Retinia,» le aveva risposto la sovrana della Città Santa «comincia pure a riferirmelo! Lo sai benissimo che ascolto sempre con immenso piacere ogni cosa che tu mi vai dicendo! Le tue parole rappresentano per me un toccasana per la mia salute e per la mia vita. La quale da tantissimo tempo viene condotta da me senza interesse, senza speranze e all’ombra della solitudine. Se non ci fossi stata tu a sostenermi in questi lunghi anni di vedovanza, non so cosa sarebbe stato della mia vuota esistenza!»

Così, invitata dalla regina a raccontarle l'apologo, la sacerdotessa Retinia si era data a dirle:

"C'era una volta un laborioso contadino, che stravedeva per la sua terra. Di recente aveva acquistato una zappa nuova, poiché essa gli era risultata uno stupendo arnese agricolo. Siccome veniva affascinato dalla sua luccicante bellezza, il solerte campagnolo, quasi se ne fosse innamorato, si mostrava riluttante ad usarla nei lavori dei campi. Perciò non voleva vederla andare incontro all'usura, la quale, secondo lui, sarebbe derivata ad essa dal dissodare il terreno. Il poveretto era persuaso che il suo continuo utilizzo avrebbe fatto perdere alla zappa appena comperata l'originaria lucentezza e l'attuale bellezza! Allora, con l’intenzione di proteggerla dalla temuta usura, egli decise di conservarla in un luogo da lui ritenuto abbastanza asciutto; mentre continuò a dissodare il duro terreno con le vecchie zappe, che aveva usato fino a quel giorno.

Non bastando tale sua precauzione, l'industre uomo di campagna si preoccupava anche di ungere ogni tanto il nuovo utensile agricolo con un olio pregiato, affinché non perdesse il suo originario aspetto sfolgorante. Senza dubbio, con il suo secondo accorgimento, egli fece in modo che la ruggine non attaccasse minimamente la zappa, che veniva da lui venerata. Tale suo espediente, però, ad un certo momento, cominciò a non convincere più il contadino. Il quale, pur trovando il prezioso utensile campestre sempre nitido, notava altresì che in esso qualcosa andava scomparendo. Infatti, si rendeva conto che il suo luccicore, giorno dopo giorno, diveniva sempre più sbiadito e più matto. Alla fine, si accorse che nella sua idolatrata zappa addirittura si era andata spegnendo anche la cosa che più lo aveva attratto fin dall'inizio, ossia la sua iniziale lucentezza. Secondo lui, essa, col passare del tempo, era diventata più scialba ed opaca. Perciò cercò di spiegarsi quello strano fenomeno che osservava giorno dopo giorno; però senza riuscirci in nessun modo.

Invece il dubbioso contadino riuscì a trovare la risposta, solo quando stabilì di confrontarla con le altre, che erano adoperate per smuovere il terreno. Allora, a confronto avvenuto, l’attento agricoltore constatò che la zappa tenuta conservata con cura si presentava meno lucente di quelle adoperate nello sterrare i campi. Inoltre, mentre la prima aveva perduto il suo fulgore iniziale; nelle altre, al contrario, esso era accresciuto con il loro impiego continuo. Fu così che il contadino ebbe a scoprire che non era l'inerzia a conservare in vita un organismo forte e sano; ma era l'attività a conservarlo tale più a lungo. Essa, come si rendeva conto, si era dimostrata la vera fonte della durevolezza."

Dopo aver seguito con particolare interesse l'apologo dell'amica sacerdotessa, la regina Talinda, presa dalla curiosità, le aveva domandato:

«A quale scopo, Retinia, hai voluto narrarmi la storiella moraleggiante del contadino e della sua zappa nuova? Vorresti forse darmi ad intendere che essa ha qualche analogia con me e con la mia vita? Sarà senz’altro così, amica mia! Dopo aver vissuto insieme tantissimi anni, lo sai che ti conosco molto bene e non può essere altrimenti. Adesso, però, mia cara, fammi ascoltare il tuo responso in merito. Così mi convincerò che non avevo torto sull’analogia da me ipotizzata appena poco fa!»

«È proprio così, mia nobile regina! Devo dichiararti che non ti sei affatto sbagliata, poiché hai colpito nel segno. A questo punto, allo scopo di appagare il tuo espresso desiderio, passo a spiegarti immediatamente ogni cosa concernente il mio significativo apologo.»

Qualche attimo dopo, la sacerdotessa si era data a chiarire alla sua amata regina le cose principali della sua allegoria, facendole il seguente dettagliato resoconto:

“Analogamente al contadino della parabola, mia regina Talinda, la medesima cosa possiamo dire sul tuo conto, visto che ti comporti esattamente come lui. Come egli si prendeva cura della sua venerata zappa, così tu tratti la tua vita, tenendola ad ammuffire senza alcuna ragione. Invece io, con la mia compagnia e con le mie parole di conforto, rappresento l'olio pregiato, dal momento che di continuo cerco di non farti abbattere. Ma le mie premure non bastano a tenerti florido l'animo, come il prezioso unguento dell'uomo non era sufficiente a conservare la lucentezza della zappa. Perciò devi iniziare a mettere la tua vita in proficua attività, la quale sia in grado di scacciare da te con facilità la malinconia e i vari acciacchi quotidiani. Ti prometto che la nuova esistenza ti rinvigorirà egregiamente l’organismo e vi produrrà perfino efficienti energie vitali! Tu, che sei una regina ancora giovane e bella, senza meno potresti procurarti chissà quanto lavoro e dedicarti ad esso con coscienziosità. Sappi che la nostra dedizione a qualcosa che è fuori di noi, senza difficoltà ed utilmente, ci libera dalle nostre angosce interiori. Il guaio, mia sovrana, è che manchi di iniziativa; ma posso aiutarti io in questo! Ad esempio, potresti istituire una tua milizia, il cui unico intento dovrebbe essere quello di salvaguardare la tua persona fisica. Essa, inoltre, dovrebbe contrastare le soverchianti forze messe in campo dal principe Verricio e proteggerti da esse, se ciò si rendesse necessario. Agendo in questa maniera, ti rifaresti della stima che hai perduta presso il tuo popolo, a causa della tua vita appartata, e metteresti anche in ombra l'alterigia del tuo indegno cognato! Sono anni che egli agisce in Actina come un legittimo despota, senza né consultarti né considerarti per niente, benché tu sia la sovrana della Città Santa! Ti prego di pensarci, mia amabile regina, perché un giorno tu non abbia a pentirtene! Chissà che dal futuro non possano provenirti soddisfazione e una gioia imprevista, le quali trasformerebbero in meglio l'attuale tua grama esistenza!”

La regina Talinda aveva apprezzato il buonsenso e il consiglio dell'amica sacerdotessa. Perciò, tanto per cominciare, aveva organizzato per il giorno dopo una piacevole escursione in campagna. Oltre a lei e alla sacerdotessa, vi avrebbero partecipato anche quattro ancelle di corte. Invece aveva opposto un netto rifiuto alla proposta del cognato Verricio, il quale, non appena aveva saputo della sua scampagnata, si era proposto di metterle a disposizione un drappello di soldati. Essi avrebbero dovuto farle da scorta per l'intero tempo della sua uscita; ma si ignorava con quale obiettivo aveva messo in campo tanta sua prodigalità.

Così, una volta che si era ritrovata fra l'amenità e le meraviglie dei campi in fioritura, la sovrana di Actina aveva avuto modo di attribuire alla vita il suo giusto valore. Anzi, aveva ritenuto un vero peccato trascurarla da sciocca, come aveva fatto fino al giorno prima. Ma sulla via del ritorno, era avvenuto che un capriccioso falco, dando di picchiata, era andato a sbattere contro la fronte del suo cavallo. Al colpo del volatile, il quadrupede, dopo essere diventato ombroso, si era messo a scappare terrorizzato. Mentre veniva trascinata dalla furia della bestia che correva all'impazzata e veloce come il vento, la regina Talinda non riusciva a controllarla in nessun modo. Per cui si era messa ad invocare disperatamente aiuto; ma sul suo cammino ella non incontrava nessuno che potesse soccorrerla e sottrarla al pericolo che stava correndo. Alla fine, era già a pochi metri dall'orlo di un crepaccio, allorquando ella si era vista affiancare rapidamente da un giovane, il quale stava pure lui a cavallo. Egli, dopo avere afferrato con la sua rigida mano le briglie dell’impazzito quadrupede, lo aveva frenato di colpo. Da parte sua, la regina Talinda, sebbene fosse ancora abbattuta e spaventata al massimo, non si era astenuta dal dimostrare la propria gratitudine al tempestivo aiuto del suo salvatore. Il quale, per fortuna di lei, si era trovato opportunamente in zona. Perciò, assai riconoscente, gli aveva detto:

«È il nostro dio Matarum, baldo giovanotto, che ti ha mandato in mio soccorso giusto in tempo da queste parti, poiché ne avevo un disperato bisogno! Egli, mediante la tua generosa persona, ha voluto salvarmi da morte certa! Dalla nostra somma divinità, quindi, ti vengano rese infinite grazie, dal momento che te le meriti sul serio!»

Una volta che aveva ripreso fiato, la sovrana si era convinta che non c'entrava affatto il miracolo del dio. Perciò, dopo avergli rivolto uno sguardo accurato, gli aveva chiesto:

«Mi dici perché mai sei corso ad aiutarmi e mi hai salvata dal pericolo di morte che stavo correndo, giovane ardito e molto in gamba? Mi hai forse riconosciuta? Oppure il tuo è stato un atto puramente spontaneo e disinteressato, dettato dal tuo animo filantropico?»

Il giovane forestiero, alla domanda della regina di Actina, aveva voluto essere sincero con lei. Perciò, inviandole un sorriso, le aveva risposto con molta franchezza:

«Mi hai chiesto se ti ho riconosciuta? Niente affatto, donna di nobile aspetto! Perché, chi sei? Non sei forse una donna, come le altre? L'unica differenza che ho scorto in te poco fa, è stata la precaria situazione nella quale versavi. Ma adesso che ti ho tolta dal pericolo a cui stavi andando incontro, per me sei ritornata ad essere uguale a tutte le altre signore, che considero onorevoli e degne di essere rispettate dai loro mariti!»

«Se è così che la pensi riguardo alle donne, giovanotto, sappi che la concezione che hai del gentil sesso, oltre ad affascinarmi, ti fa anche parecchio onore. Adesso ti prego di andare avanti nel tuo discorso, poiché sono ansiosa di apprendere dove esso sarà capace di condurti, mentre lo vai completando! Allora vuoi accontentarmi in ciò, per favore?»

«Intendevo farti comprendere, nobildonna, che qualsiasi altra donna si fosse trovata nel tuo medesimo stato, le sarei corso lo stesso in aiuto, senza pensarci due volte. Siamo nati per fare del bene e non per gioire delle altrui disgrazie! Per questo il nostro soccorso va apportato a tutti e senza parzialità, cioè indifferentemente al ricco e al povero, al nobile e al plebeo. La vita di ognuno di noi è sacrosanta, poiché essa è sempre una scintilla dell'eccelso dio Matarum. E da lui non possono provenire scintille diverse! Invece è solo l'uomo che può privarle della loro originaria natura. Ciò avviene, quando egli si dà anima e corpo ad esercitare il mestiere del malfattore. Quindi, se ci sono differenze tra gli uomini, esse vanno ricercate nella condotta della loro vita e giammai nella loro posizione sociale o nelle loro ricchezze oppure nelle loro caratteristiche estetiche. Inoltre, in merito a queste profonde differenze di condotta umana, esse non devono essere mai giudicate da noi, ma dal solo divino Matarum. Purtroppo, tante persone non lo vogliono affatto capire e continuano a vivere, dandosi a prevaricare in modo abominevole!»

Dopo che il suo salvatore aveva terminato la sua lezione di natura morale, la sovrana di Actina ne era restata oltremodo entusiasmata. Poi, volgendosi a lui, gli aveva affermato:

«Ebbene, saggio giovane, tu oggi hai salvato la regina di Actina! Le tue idee sulla persona umana mi sono piaciute tantissimo! Perciò ho deciso di premiarti non soltanto perché mi hai sottratta alla morte, ma soprattutto per i tuoi nobili sentimenti. Essi sono così sublimi, che non posso non apprezzarli immensamente!»

«Se è così, illustre sovrana, allora mi sento infinitamente onorato ed orgoglioso del mio gesto, oltre che soddisfatto nel mio intimo. Perciò sia benedetto il dio Matarum, per avermi fatto trovare al cospetto della regina di Actina e per avermi messo nella condizione di poterle essere di grande aiuto! Adesso ti occorre altro, nobile regina? Comunque, devi sapere che sono pronto a porre la mia spada al tuo servizio per difenderti da chiunque tentasse di procurarti del male!»

«Certo che lo desidero, simpatico giovane! Perciò dimmi il tuo nome e quello del tuo genitore. A giudicarti dai lineamenti del volto, mi sembri di nobili natali. Inoltre, sono convinta che sei una persona, della quale tutti si possono fidare ciecamente. Anche perché mi hai dimostrato senza ombra di dubbio di avere la testa sulle spalle. Per questi motivi, attenditi molto presto da me dei grandi favori, mio nobile salvatore!»

«Non ti sbagli, affabile regina, per quanto riguarda le mie origini, visto che esse sono davvero nobili. Per l’esattezza, discendo da stirpe regale! Il mio nome è Tionteo. Mio nonno Eleunto e tutti i suoi progenitori regnarono su Terdiba. Io mi ritrovo senza un trono, per colpa della condotta aberrante di mio padre Gurtuda, il quale non lasciò altra scelta al proprio genitore che quella di privarlo del titolo di erede al trono. Ma è meglio soprassedere su tale argomento poco edificante per la mia famiglia ed evitare di parlarti dei brutti avvenimenti che si verificarono allora nella mia città, coinvolgendo anche me. Essi mi fecero trovare nelle liste di proscrizione stilata dall'attuale tiranno di Terdiba, costringendomi a vivere un ingiusto esilio nella tua città. È da pochi giorni che mi sono trasferito ad Actina, con la speranza che in essa vi trovi la serenità che mi è stata negata nella mia città natale! Con ciò, avrei finito.»

«Bene, simpaticissimo principe, con la tua azione e i tuoi pensieri ti sei guadagnato la mia stima e la mia fiducia. Domani ti prego di presentarti alla reggia, poiché ho da farti con urgenza delle importanti proposte. Ti garantisco che esse miglioreranno un bel po' le tue condizioni e quelle della tua famiglia immigrata in Actina. Allora arrivederci a domani mattina, mio valente Tionteo, augurandoti nel contempo una serenità che sia la massima possibile!»

Proprio in quel momento, erano giunte Retinia e le quattro ancelle, mostrandosi pensierose e preoccupate per la sorte della loro regina. Quando poi la sacerdotessa era venuta a conoscenza di quanto era accaduto alla sovrana e di come l'amica intendesse servirsi del suo salvatore terdibano, ne era stata molto lieta. Inoltre, le aveva dichiarato che finalmente ella aveva ritrovato la sua intraprendenza di una volta, avendo imbroccato la strada giusta per cambiare radicalmente vita.


La mattina del giorno seguente, Tionteo si era presentato davanti alla reggia nella tarda mattinata. In quel luogo, all’inizio il giovane aveva incontrato una forte opposizione, da parte dei gendarmi che erano di guardia all'ingresso. Ma in seguito era potuto accedere indisturbato alle stanze della regina, grazie all'intervento della sacerdotessa. La religiosa Retinia gli era stata mandata incontro dalla sovrana Talinda per facilitargli l'accesso a corte. Quando il giovane le era stato davanti, apparendo un po’ timido ed impacciato, la regina se ne era rallegrata. Avvenuti poi i vari convenevoli, ella non aveva perso tempo a parlargli così:

«Ti ringrazio, mio valoroso Tionteo, per avere accolto il mio invito e per esserti presentato a me! Come già ti ho accennato ieri, ho voluto invitarti a corte per mettere in un'ottima posizione sia te che quanti sono tuoi parenti ed amici. Devi sapere che ho stabilito di istituire un corpo militare, il quale prenderà il nome di Milizia della Regina, al cui comando intendo mettere proprio te. Ma in riferimento all'istituzione di tale milizia, dovrai occuparti tu di ogni cosa. Sarà compito tuo, quindi, scegliere gli uomini che vi dovranno far parte, acquistare i cavalli, le armi ed ogni altra cosa necessaria, comprese le uniformi che essi dovranno indossare. Le mie tre avvertenze, a tale riguardo, sono le seguenti: 1) gli uomini da te scelti dovranno essere fidati e ciecamente obbedienti ai miei ordini, i quali saranno impartiti attraverso la tua persona di comandante; 2) essi dovranno essere in grado di difendere la loro regina con grande valore, se sarà necessario, e non dovranno fare comunella con le guardie di mio cognato Verricio, delle quali dovranno sempre mostrarsi acerrimi nemici; 3) nessuno a corte dovrà venire a conoscenza di tale milizia, prima che essa venga istituita nel tempio, davanti ai miei sudditi. In questo modo, essi ne verranno a conoscenza ufficialmente.»

Dopo avergli parlato del suo bel progetto con manifesto entusiasmo, spiegandogli ogni cosa in dettaglio sulla futura istituzione militare, la regina aveva domandato al giovane:

«Allora, Tionteo, te la senti di far fronte all'arduo compito che intendo affidarti? Se hai dei dubbi riguardo ad esso e vuoi tirarti indietro, sei liberissimo di rinunciarci! Nel qual caso, mi toccherà incaricare qualcun altro al posto tuo che sia in grado di portarlo avanti senza alcuna difficoltà. Comunque, tu vi farai ugualmente parte, come suo vice!»

«Certo che me la sento, nobilissima regina! Sappi che la tua proposta mi va molto a genio e sono sicuro di potere raccogliere subito parecchi uomini, fra i miei parenti ed amici oriundi di Terdiba. Ma poiché essi me lo chiederanno, mi dici quale paga dovrò promettergli, in cambio del loro servizio finalizzato alla tua esclusiva protezione?»

«A nome mio, Tionteo, prometterai a ciascuno vitto, alloggio e cinque regirne al giorno (una regirna equivaleva a dieci euro attuali). A te invece, quale loro comandante, assegnerò venti regirne giornaliere. Inoltre, avendo anche intenzione di ricompensarti per avermi salvata nella giornata di ieri, riceverai a parte ventimila regirne. Così potrai toglierti lo sfizio di qualche desiderio che vuoi realizzare qui nella Città Santa! Allora ti sta bene l'affare, che ti ho proposto, mio valente giovanotto?»

«Se le cose stanno così, generosa regina, questa istituzione si farà molto presto. Anzi, prima che tu lo creda!» soddisfatto, le aveva risposto Tionteo «Inoltre, debbo ringraziarti per la cospicua somma di denaro messa prodigalmente a mia disposizione. Ad ogni modo, la devolverò senza meno in beneficenza a favore dei bisognosi di Actina!»

Così era stato. Infatti, Tionteo non aveva perso tempo ad arruolare cinquecento uomini, fra i suoi parenti, amici e conoscenti di Actina e di Terdiba. Poi li aveva istruiti nei loro futuri compiti e doveri, nonché aveva voluto perfezionare il loro maneggio delle armi. Nel tempio del divino Matarum, già un mese dopo c'era stata anche la consacrazione della Milizia della Regina, che era stata istituita da poco, della quale il popolo era venuto a conoscenza con soddisfazione. Tale fondazione di carattere militare non si poteva dire che avesse messo il principe Verricio con le spalle al muro oppure lo avesse posto in uno stato di allarme, obbligandolo ad assumere una diversa condotta nei confronti della cognata. Ma alcuni riconoscevano che la milizia, a cui ella aveva dato attuazione, aveva obbligato il cognato a porre dei limiti alle sue violenze e alle sue azioni vituperose, alle quali era solito darsi senza pudore.

Dopo che c'era stata l'istituzione della Milizia della Regina, in Actina si era avuto un triennio, durante il quale la sovrana e suo cognato si erano guardati in cagnesco, combattendosi in gran segreto. Inoltre, entrambi avevano fatto di tutto per contendersi il potere sulla città di Actina e molestare l'operato della parte avversa. Naturalmente, a ciascuno di loro era toccato a turno averla vinta sull'altro. Infatti, essi, alternativamente, si erano visti avere la supremazia sulla parte avversaria oppure avevano subito dalla medesima qualche imposizione coatta; però senza grosse conseguenze, non essendoci mai stati fatti d’armi.