203-IL DRAMMATICO RACCONTO DEL COLONO EFRO
Così, dopo avervi riferito ogni cosa sugli adoratori del dio Araneo e dei loro riti sacrificali di novilunio, non mi resta che parlarvi di come io e la mia Ilva ci ritrovammo a far parte della loro setta fanatica. Faccio presente che mi ritrovai ad essere seguace di essa non per mia libera scelta, ma per diritto di nascita. Comunque, avrei fatto volentieri a meno di un simile privilegio, il quale mi era derivato unicamente dal fatto che i miei genitori, quando nacqui, erano Araneidi già da una decina di anni. Infatti, si diventa automaticamente proseliti dell'araneismo anche per discendenza, per cui i figli sono considerati appartenenti alla setta a tutti gli effetti, pur senza averne abbracciato la religione di propria spontanea volontà e senza aver dichiarato di desiderare farne parte. Perciò essi sono obbligati a sottostare agli stessi vincoli e alle stesse responsabilità, allo stesso modo dei loro genitori, essendosi essi in passato assoggettati alla setta, mediante il rituale previsto dalla religione araneica. Invece l'adulto maschio, ossia quello che non risulta figlio naturale di genitori Araneidi, prima di diventare un affiliato della setta araneica, è tenuto per obbligo a fare cinque giuramenti davanti all'effigie del dio Araneo, ossia quelli che tra poco vi farò conoscere. Essi, nel caso che egli sia già coniugato, vincolano non solo lui, bensì anche la sua consorte e la sua prole, sia quella già nata sia quella che verrà alla luce nel tempo futuro.
Con il primo giuramento, l'affiliando si obbliga ad appartenere alla setta per sempre, cioè fino a quando la morte non sopraggiungerà nel suo corpo. Con il secondo giuramento, egli si impegna ad unirsi in matrimonio soltanto con una donna di religione araneica. Qualora ella non appartenga alla setta, prima di sposare la sua compagna non Araneide, deve convincerla a convertirsi all'araneismo. Con il terzo giuramento, in caso di una defezione, che sarebbe comunque malvista da loro, l'adulto dà assicurazione che non farà parola alcuna con anima viva, riguardo sia all'esistenza della setta degli Araneidi sia ai suoi riti sacri. Con il quarto giuramento, sempre che il suo stato di salute glielo permetta, l'affiliando giura di partecipare a tutti i riti sacri di novilunio, senza disertarne neppure uno. Con il quinto ed ultimo giuramento, che è il più terribile, ammesso che venga a trovarsi nella condizione di poterlo mantenere e lo abbia deciso il sorteggio, si assume l'impegno di offrire in sacrificio al dio Araneo almeno un figlio maschio, di età non superiore ai tre anni. Come conseguenza di quest'ultimo giuramento, la religione araneica consente al solo affiliato maschio di essere poligamo, allo scopo di sopperire alla eventuale scarsità di bambini, che potrebbe derivare dalle loro costanti stragi mensili. Ad ogni modo, l'araneismo vieta tassativamente la poliandria; ma incoraggia la sola poliginia, essendo risaputo che è il matrimonio di un uomo con più donne, e non viceversa, ad assicurare una maggiore prole nell'ambito di qualsiasi società.
Quindi, essendo divenuto Araneide per diritto di nascita, trascorsi la mia fanciullezza nei pressi del tempio, dove vissi felice e spensierato. In quel luogo, era stato fondato un piccolo villaggio, a cui era stato dato il nome di Aranuk. Esso, a quel tempo, era costituito da un nucleo di appena cento famiglie, le quali erano tutte appartenenti alla religione araneica. Fra i tanti amici di infanzia, ebbi anche il semidivino Vendicatore, il quale era nato dalla sacerdotessa Arnina e dal divino Araneo; ma il dio si era dovuto prima incarnare e poi accoppiare con lei. Già nei primi anni, egli si rivelò un bambino prodigio, ossia diverso dagli altri, poiché si riscontravano in lui delle doti eccezionali. Correva come una lepre e saltava da grandi altezze, senza riportare nella caduta alcun danno fisico sul proprio corpo. Un giorno, in seguito ad un litigio avuto con me, si scoprì anche che il nostro prodigioso amichetto era invulnerabile. Siccome egli mi aveva fatto un dispetto, perché era solito farli a tutti i suoi compagni, lo aggredii con un coltello e cercai di colpirlo con esso. Allora il Vendicatore, dal canto suo, cercò di parare con una mano il colpo che gli era stato inferto da me. Allora la lama del mio coltello gliela passò da parte a parte. All'inizio, ci fu uno stillicidio di liquido verdastro, il quale si diede a riversarsi da entrambi i fori dell'organo tattile da me bucato. Subito dopo, invece, le ferite di entrambe le superfici della mano furono viste rimarginarsi, senza lasciare alcuna traccia del processo cicatriziale. In quella circostanza, mi ritenni fortunato, se il mio gesto aggressivo non fece adirare neppure un poco il piccolo semidio. Infatti, egli, dopo che gli ebbi trapassato la mano, si astenne dal vendicarsi nei miei confronti. Anzi, mi volle perfino ringraziare, per avergli dato modo di scoprire la sua invulnerabilità, della quale prima non era a conoscenza, per il fatto che i suoi genitori non gliene avevano ancora parlato.
Avevo oramai venti anni, quando mi capitò di accompagnare mio padre a Cirza, nella quale città conobbi la mia Ilva. In verità, ci innamorammo follemente l'uno dell'altra a prima vista. La ragazza, da quando i suoi genitori erano rimasti vittime della delinquenza giovanile locale, viveva con una sua zia paterna. Ma già nel nostro secondo incontro la ragazza acconsentì a seguirmi nel mio remoto villaggio, dove ci sposammo molto presto, ossia non appena ella prese la decisione di abbracciare la nostra religione, divenendo così Araneide di fatto. Di preciso, il nostro matrimonio avvenne, dopo neanche sei mesi che ci eravamo conosciuti ed innamorati perdutamente. Una volta però che ebbe assistito al primo rito religioso degli Araneidi, da quella stessa notte la mia consorte cominciò ad odiare l'intera setta araneica. Ella considerava i suoi riti di novilunio superlativamente orribili e scioccanti, per cui erano da esecrarsi nel modo più assoluto. In primo luogo, la mia sensibile Ilva era scandalizzarla dai loro sgradevoli e nauseanti spettacoli a sfondo sessuale. In secondo luogo, la sgomentavano i loro inumani sacrifici mensili dedicati al dio Araneo, durante i quali otto innocenti fanciulli venivano scannati, quasi fossero essi degli agnelli. Ella non concepiva il fatto che dei bambini venissero sottoposti ad uno sgozzamento efferato, tra l'assoluta indifferenza di quelli che partecipavano al rito.
In seguito a tale truce visione, in lei ci fu un cambiamento radicale, specialmente a livello della sua sfera sessuale. Al pensiero che un domani potesse toccare la medesima sorte anche ad un suo bambino maschio, ella iniziò a terrorizzarsi in modo abnorme. In un certo senso, esso suscitò in lei una grave forma di idiosincrasia verso i rapporti intimi. Per questo motivo, pur di evitare il più piccolo rischio di essere inseminata da me, la mia metà preferiva avere dei rapporti sessuali contro natura, ossia sodomitici oppure orali. Inoltre, le rare volte che mi permetteva un coito vaginale, ella pretendeva da me la promessa che sarei stato molto attento perché la mia eiaculazione non avvenisse nella sua vagina, potendo la qual cosa farla rimanere incinta. In riferimento ad una sua eventuale gravidanza, Ilva non si asteneva dal dichiararmi che, se si fosse verificato un evento del genere, piuttosto che attendere la nascita del figlioletto che aveva in grembo e vederlo sacrificato al dio Araneo, avrebbe preferito pagare subito il suo tributo alla natura. Così la morte le avrebbe risparmiato un dolore di quel tipo, il quale per lei sarebbe risultato il più straziante e il più insanabile che ci potesse essere nell'intera sua esistenza!
Non erano passati nemmeno sei mesi dal nostro matrimonio, quando nacque in noi una mezza idea di abbandonare il nostro villaggio e di lasciare definitivamente la nostra setta. La vita per noi due, in qualità di seguaci dell'araneismo, era diventata oramai insostenibile, soprattutto per la mia dolce consorte. Per tale ragione, giorno dopo giorno, ella se ne andava ammalando poco alla volta. Allora decidemmo di andarcene a vivere presso la coppia dei miei anziani zii, i quali avevano un piccolo podere poco lontano da Cirza. Tenemmo nascosta la nostra intenzione perfino ai miei genitori. Siccome essi erano diventati degli Araneidi fanatici, li consideravamo delle persone non più affidabili. Anzi, eravamo convinti che non avrebbero approvato la nostra decisione di diventare dei transfughi. Inoltre, si sarebbero pure adoperati per mandare a monte il nostro piano di fuga, se lo avessimo svelato a loro due. Per questo, ad evitare che nel villaggio la nostra assenza venisse notata in breve tempo, stabilimmo di allontanarci da esso in una notte di novilunio. In tale circostanza, essendo tutti dentro il tempio intenti a seguire i riti religiosi con grande fede, in giro per le sue strade non sarebbe rimasta neppure un'anima. Così, quando giunse la fatidica notte, ci impadronimmo di due cavalli e, stando sulla loro groppa, intraprendemmo la lunga fuga per raggiungere i miei parenti. I miei zii erano Lebuo, l'unico fratello di mio padre, e sua moglie Genusa. I quali non avevano mai voluto abbracciare la fede araneica, essendo devoti al dio Matarum.
Il nostro arrivo presso la loro fattoria, che avvenne dopo tre giorni di lunghe cavalcate e di qualche peripezia, riempì di gioia i miei zii. Essi, non avendo figli, decisero di accoglierci come tali nella loro casa, abbracciandoci come dei veri genitori premurosi. Continuando a trattarci con un amore impagabile, alla fine gli stessi ci nominarono loro eredi universali, volendo farci ereditare alla loro morte ogni loro possedimento, sebbene fosse discreto. Purtroppo io e la mia Ilva avemmo solamente tre anni a nostra disposizione per goderci la meravigliosa compagnia dei due zelanti zii. Essendo entrambi di salute cagionevole, i nostri anziani parenti stretti vennero a mancarci all'improvviso, l'uno a breve distanza dall'altra, dopo un triennio esatto di felice convivenza insieme con loro. Come era da prevedersi, la loro dipartita lasciò un grande vuoto nel nostro cuore, che i due cari zii avevano saputo riempire fino allora di spensieratezza e di giubilo. Essi, oltre a deliziarci con il loro indicibile affetto, ci avevano fatti diventare anche degli esperti agricoltori. Infatti, ci avevano trasmesso tutte quelle esperienze e quelle conoscenze agrarie, che avevano accumulato in tantissimi anni di intensa vita agreste. Nella maggior parte dei casi, si era trattato di tecniche e di abilità, di cui un contadino non poteva fare a meno, se voleva coltivare la sua terra con proficui risultati. Per il nostro bene, noi le avevamo apprese con grande passione da entrambi! C'è da far presente che, fin dal primo istante, il mestiere dell'agricoltore piacque sia a me che alla mia consorte, siccome trovavamo il lavoro dei campi particolarmente interessante, oltre che piacevole. In certe stagioni, per la verità, eravamo costretti a faticare davvero sodo, se volevamo ottenere dalla terra abbondanti frutti, come avveniva ogni anno!
Una sera, al ritorno dal lavoro, avemmo la sgradevole sorpresa di trovare in casa nostra il Vendicatore, con il suo inseparabile falcone. Egli, standosene seduto presso la tavola, ci stava aspettando con una calma imperturbabile. Nello scorgerlo, io e la mia consorte ne tremammo da capo a piedi; pensammo perfino che fosse giunta la nostra ora estrema. Invece, facendoci meravigliare a non dirsi e contrariamente ad ogni nostra previsione, il mio amico di infanzia non si mostrò adirato per niente contro di noi; anzi, ci accolse con alquanto garbo e con una certa affabilità. Egli, dopo poco tempo che vi eravamo entrati, iniziò a dirci:
«Scusatemi, se mi sono permesso di entrare nella vostra casa, senza prima avervi chiesto l'autorizzazione. Ma dal momento che la porta di entrata era aperta, non ho esitato ad accedervi e ad accomodarmi in essa, in attesa del vostro gradito rientro. Inoltre, quale vostra vecchia conoscenza, potevo anche permettermi l'ingresso nella vostra dimora e fare come se fossi a casa mia! Sono certo che a voi non è dispiaciuta la mia iniziativa, specialmente dopo avere avuto nei vostri riguardi il gentil pensiero di farvi una bella improvvisata! Dovete sapere che, passando dalle vostre parti, cortesemente ho pensato di venire a farvi una mia gentile visita. Per favore, non ditemi che non siete contenti di rivedermi, poiché altrimenti mi dispiacerebbe moltissimo. Anzi, potendo anche offendermi ed arrabbiarmi, in quel caso non so cosa vi succederebbe!»
Alle sue parole equivoche, le quali si prestavano a diverse interpretazioni, per cui non sapevo se rallegrarmene oppure temerle, restai un po' dubbioso. Ma poi mi affrettai a rispondergli timidamente:
«Come potremmo non essere contenti della tua visita, Vendicatore? I miei amici di infanzia sono sempre benaccetti in casa mia, in special modo quando sono persone illustri come te! Adesso, però, mi dici come facevi a sapere che ci eravamo stabiliti in questi paraggi, presso il mio carissimo zio paterno? Secondo me, qualcuno te lo avrà pur detto!»
«Hai proprio ragione, mio vecchio amico Efro! Sono stati tuo padre Bilasco e tua madre Sinnia a mettermi al corrente della vostra nuova sistemazione. Essi, appena sono venuti a sapere che stavo per intraprendere il mio viaggio della Grande Vendetta, mi hanno chiesto il favore di fare una capatina da voi e di lasciarvi un mio ricordo indimenticabile. Perciò eccomi nella vostra modesta ed accogliente casa, deciso ad accontentare i vostri genitori, che ci tenevano tantissimo. Essi, come al solito, si mostrano sempre zelanti dei propri doveri religiosi!»
«Per favore, Vendicatore, mi chiarisci meglio cosa intendi per "ricordo indimenticabile"? Vuoi essere più esplicito a tale riguardo? In verità, non saprei a cosa pensare in questo momento, quando mi soffermo sul termine "ricordo" da te usato!»
«Lo apprenderai a tempo debito, mio caro amico. Nel frattempo, ordina alla tua dolce mogliettina di apparecchiarmi una buona cena, considerato che ho una vera fame da lupo. In merito alla mia visita, però, posso già preannunciarvi, affinché voi vi tranquillizziate, che le massime autorità della setta, pur avendo già emesso nei vostri confronti un verdetto di grave colpevolezza, non si sono ancora pronunciate a favore della pena capitale. Comunque, sono convinto che, da parte loro, giammai sarà decretata alcuna pena di morte contro di voi. Naturalmente, almeno fino a quando resterete in questo posto e consentirete loro, in tal modo, di sorvegliarvi tutte le volte che lo vorranno! Perciò, amico mio Efro, dopo che me ne sarò andato dalla vostra casa, tu e la tua consorte badate a ciò che fate, se volete assicurarvi una lunga e serena esistenza! A dirla con il saggio detto: "Uomo avvisato mezzo salvato!"»
Dato ordine alla mia Ilva di mettersi a preparare le cena per il nostro illustre ospite, non potendo fare altrimenti, pur di distrarre me e la mia consorte, subito dopo domandai al semidivino Vendicatore:
«Posso sapere, amico mio, in cosa consiste realmente questo tuo viaggio della Grande Vendetta, di cui ho sentito parlare tante volte da bambino, ma sempre vagamente? Inoltre, in quanto tempo presumi di portarlo a termine? Mi farebbe piacere ricevere da te tutte queste informazioni, poiché esse suscitano in me molta curiosità!»
«Non è facile, Efro, prevedere il tempo che occorrerà perché io compia la mia Grande Vendetta; ma posso benissimo parlarti dello scopo di essa. Sono stato incaricato di ammazzare mille campioni edelcadici. Perché proprio mille? Per il semplice fatto che furono di uguale numero i guerrieri che un tempo si macchiarono di due gravi colpe nei confronti della nostra religione. Essi presero parte sia al grande eccidio che fu commesso contro la nostra setta, sia alla distruzione del nostro primo tempio dedicato al mio divino genitore Araneo. Dovrò cercarli in tutta l'Edelcadia, scovarli, affrontarli ed ucciderli senza avere nessuna pietà di loro, anche se si rifiuteranno di combattere. Per primo dovrò decapitare Tespo, il sacerdote di Matarum che guidò tali campioni contro gli Araneidi! Solo dopo che avrò vendicato mio padre e i seguaci della setta, farò ritorno al nostro villaggio di Aranuk. Già prima di nascere, amico mio, mi fu dato l'appellativo di Vendicatore, poiché attraverso la mia persona si sarebbe dovuta compiere la Grande Vendetta, che mia nonna Turza e mia madre Arnina hanno bramata da un sacco di tempo!»
Il pasto serale si protrasse per una buona mezzora; però, mentre si cenava, nessuno di noi tre osò aprire bocca. In me e nella mia consorte si ebbero soltanto momenti di ansia e di preoccupazione. Essi erano dovuti agli incessanti e voluttuosi sguardi che il nostro sgradito ospite non smetteva di lanciare alla mia Ilva. Poco dopo i nostri timori si rivelarono più che giustificati, siccome arrecarono ad entrambi un abbattimento morale non di poco conto. Il Vendicatore, infatti, una volta che ebbe terminato di consumare l'abbondante cena che la mia donna gli aveva preparata, mostrandosi sazio ed appagato del pasto divorato, ad un certo punto, si diede a palesarci:
«Adesso ho bisogno di riposare, poiché sono molto stanco. Perciò, amico mio Efro, per questa notte mi metterai a disposizione il tuo letto matrimoniale; ma non solo quello. Devi sapere che la tua Ilva stanotte giacerà con me e mi farà divertire un mondo, in attesa che venga a sorprendermi lo sperato sonno! A proposito, non eri curioso di sapere quale sarebbe stato il ricordo indimenticabile che avrei dovuto lasciarvi, prima di congedarmi da voi? Ebbene, ora posso rivelartelo, senza più fartene un mistero. Stanotte possiederò carnalmente la tua deliziosa mogliettina, per tutto il tempo che il sonno non verrà a soggiogarmi. Ti garantisco che né tu né lei ve ne scorderete più. Adesso che lo hai appreso, sono certo che dormirai più tranquillo e beato: nevvero?»
Quelle parole del Vendicatore mi ferirono quasi a morte. Mi martoriarono l'animo peggio che se fosse venuto un ciclone a distruggere la nostra casa! Ma non potevo fare nulla contro di lui, essendo egli un semidio invulnerabile. Non potevo neanche alzare un dito, oppure offenderlo oltraggiosamente, se non volevo peggiorare la nostra situazione. Mia moglie, da parte sua, all'istante cercò di ribellarsi alla sua insulsa pretesa. Per questo si diede a gridargli contro con forza vibrante:
«Invece giammai mi piegherò al tuo assurdo desiderio, balordo Vendicatore. Piuttosto preferirò morire ed annientarmi come persona esistente, pur di non cedere alle tue voglie schifose. Quindi, non mi sottometterò mai ai tuoi voluttuosi capricci! Mettitelo bene in testa, prepotente della malora, e vattene subito da questa nostra onorata casa!»
«Vorrà dire, Ilva,» le rispose il Vendicatore tremendamente incollerito «che ucciderò il tuo carissimo marito senza pietà, lo ammazzerò come un lurido verme, se non farai la brava con me e non accondiscenderai ad ogni mia voluttà. Se è questo che vuoi, adesso passo ad accontentarti senza indugio! Ad ogni modo, se ti sta bene così, dimmelo chiaro e tondo, poiché sono disposto ad appagare immediatamente il tuo desiderio. Altrimenti, per il suo bene, fatti possedere da me, sottoponendoti ad ogni mio capriccio sessuale!»
Pronunciate quelle parole, il semidio brandì la spada ed accennò a colpirmi con decisione. Nessuno poteva asserire se quell'abietto essere facesse sul serio oppure per finta. Fatto sta che la mia consorte, essendosi spaventata a morte a quel suo terribile gesto, non osò rischiare la mia vita. Allora, con il chiaro intento di fermarlo e di non farmi uccidere da quella belva umana, subito intervenne a dirgli:
«Per pietà, Vendicatore, non uccidere il mio caro Efro! Ti supplico di risparmiarlo e di fargli dono della vita, per favore! Dopo, come atto di gratitudine, ti prometto che ti lascerò fare del mio corpo ogni cosa che vorrai. Ti prego, però, di non fare alcun male alla persona che amo di più al mondo, se non vuoi farmi morire di crepacuore!»
Così il Vendicatore poté possedere la mia consorte, senza che ella gli opponesse la minima resistenza. In quelle due ore, durante le quali per amor mio aveva accettato di sottostare alla smodata concupiscenza del semidio, ella mostrò la passività più assoluta. Anzi, si sforzò al massimo, pur di riuscire ad estraniarsi con la mente da quei terribili momenti. Da parte mia, però, non ero capace di affrontare quella circostanza avvilente e mortificante con lo stesso stato d'animo della mia Ilva. La quale, mentre si sottoponeva all'enorme sacrificio, pensava esclusivamente alla mia salvezza. Il mio orgoglio ferito e bistrattato, invece, a volte mi faceva andare su tutte le furie, altre volte mi gettava nell'estrema abiezione. Alla fine pensai che fosse cosa saggia andarmene fuori e sfogarvi l'intera mia rabbia, la quale non cessava di divorarmi interiormente in modo tremendo ed insopportabile, spingendomi quasi ad impazzire. Ma dopo circa un paio di ore di frastornamento e di stizza, fui raggiunto all'esterno dell'abitazione dalla mia vacillante Ilva. La sventurata appariva fisicamente stremata e psichicamente molto abbattuta, se non proprio distrutta, per cui si reggeva a malapena sulle gambe. Ella, dopo essersi avvicinata a me con passi strascicati ed instabili, facendosi molto coraggio, incominciò a parlarmi con tono pietoso e sommesso:
«Per il mio bene, finalmente il mostro si è addormentato! Perdonami, Efro, se nel frattempo ti ho fatto penare tantissimo! Quello era l'unico modo di salvarti la vita, considerato che non ce n'erano altri! Ma io non volevo assolutamente perderti, amore mio. Mi domando soltanto se riusciremo un giorno a liberarci di questo orribile ricordo, il quale ha disonorato la nostra esistenza in modo obbrobrioso e spregevole!»
In un primo momento, non sapendo cosa risponderle, rimasi silenzioso ed immobile. Avendo poi compreso che quel mio atteggiamento avrebbe potuto farla soffrire ancora di più, per prima cosa l'abbracciai e la strinsi forte al mio petto. Poco dopo, cercando di nascondere l'intera mia rabbia interiore, mi diedi a tranquillizzarla:
«Non ho niente da rimproverarti e da perdonarti, Ilva mia cara, poiché non hai alcuna colpa di quanto è successo poco fa. Adesso devi smetterla di considerare degradante la brutta esperienza che sei stata costretta a vivere contro la tua volontà. Sono sicuro che un giorno noi due ce la faremo a dimenticare ogni attimo di questa notte che avremmo voluto non ci fosse mai stata! Vedrai che la serenità ritroverà posto nuovamente nel nostro animo, facendoci ritornare ad essere felici come una volta. Ti garantisco che non potrà essere diversamente, grazie anche alle divinità benefiche, che vorranno esserci propizie!»
Il mattino seguente, il Vendicatore, dopo aver consumato la colazione, che aveva pretesa dalla mia Ilva ancora abbondante e sostanziosa, si decise finalmente a lasciare la nostra fattoria. Prima di congedarsi da noi e di allontanarsi per sempre dalla nostra casa, ancora una volta egli ritenne opportuno ammonirci con severità:
«Se voi due desiderate continuare a vivere, non abbandonate mai la vostra dimora. Quando ritornerò ad Aranuk, senza meno ripasserò dalla vostra fattoria, per cui sarà meglio per entrambi che vi faceste trovare qui ad aspettarmi. Se non doveste esserci più, il mio volatile vi ritroverebbe ovunque aveste deciso di andare a rifugiarvi. In tal caso, per voi sarebbe la fine! Vi sono stato chiaro, miei generosi amici?»
Partito che fu il Vendicatore con la sua bestiaccia, non avemmo alcun'altra visita da parte degli Araneidi. Essi ci hanno sempre lasciati in pace, almeno fino a quattro giorni fa. Io e mia moglie avevamo notato che essi saltuariamente ci controllavano di nascosto; ma ignoravamo il motivo di quel loro controllo. Ingenuamente, ogni volta l'avevamo attribuito al solo fatto che i settari cercavano di accertarsi che non ce la eravamo svignata dal nostro podere. Ma durante i primi due mesi che seguirono allo stupro, la mia Ilva ed io stemmo in grandissima apprensione, temendo che il Vendicatore l'avesse ingravidata. Poi, essendo stati rassicurati dal ritorno in lei delle regole, ci tranquillizzammo. Inoltre, ci adoperammo perché il ricordo di quella notte raccapricciante divenisse nella nostra memoria sempre più labile, fino a farlo sparire completamente da essa.
Volgeva al termine il primo lustro, dal nostro insediamento nella fattoria dei nostri defunti zii, quando la mia Ilva diede alla luce una bellissima bambina, a cui demmo il nome di Ondella. L'arrivo della piccola nella nostra casa ci riempì di allegria. In particolar modo, ella allietò ed entusiasmò la mia mogliettina, la quale cominciò a dedicarle tutte le sue amorevoli cure. Ma a pochi giorni dalla nascita della bambina, ricevemmo la visita di un misterioso viandante. Egli, dopo essersi informato del sesso dell'infante, non ci fece altre domande e lasciò immediatamente la nostra casa. In seguito, la nostra Ondella aveva appena compiuto tre anni, quando la mia consorte mise al mondo un'altra creaturina. Questa volta, trattandosi di un maschietto, lo chiamammo Usillo. Il piccolo arricchì ulteriormente di gioia il nostro focolare domestico, per cui la mia Ilva incominciò a prodigarsi con amore e con cura anche per lui. Comunque, ci sembrò molto strano il fatto che, anche dopo la nascita del nostro secondogenito, ricevemmo di nuovo la visita di un viandante. Il quale, dopo averci fatto le sue domande, anch'esse intese a scoprire il sesso del nostro neonato, si allontanò.
Dopo che il forestiero se ne fu andato, la mia Ilva si mostrò preoccupata e mi fece comprendere che era meglio abbandonare la nostra fattoria, se volevamo che non succedesse niente al nostro bambino. Io, dimentico che il nostro Usillo era un maschietto, non pensai che egli potesse diventare il destinatario di un rapimento. Così la rassicurai che non c'era motivo di impensierirci, poiché non gli sarebbe accaduto niente di brutto, come non era successo alla nostra Ondella. Ma poi come avremmo potuto sottrarci al Vendicatore, il quale ci avrebbe rintracciati ovunque fossimo andati a vivere? Invece quattro giorni fa, quando il nostro bambino ha compiuto due anni, abbiamo avuto una spiacevole sorpresa, quella che è venuta ad avvelenarci l'esistenza nel modo peggiore. Noi due stavamo pranzando in santa pace in casa nostra, allorquando quattro uomini armati vi hanno fatto la loro improvvisa irruzione, senza proferire neppure una parola. Allora, essendomi allarmato giustamente, ho domandato ai quattro sconosciuti:
«Si può sapere, signori, chi siete e che cosa volete da noi? È così che ci si presenta nella casa degli altri? Entrate, senza neppure bussare alla porta! Non è stato affatto corretto il vostro modo di fare; al contrario, lo reputo sommamente incivile!»
«Siamo Araneidi, Efro, come lo siete anche voi, sebbene in modo indegno.» mi rispose uno di loro «Se lo hai scordato, siamo venuti a riscuotere il tributo che dovete al nostro dio Araneo. Altrimenti perché vi avremmo lasciati vivere, dopo la vostra defezione? Era da dieci anni che aspettavamo il momento che foste in grado di poterlo versare al nostro dio. Perciò, invitandovi a non fare tante storie per il vostro bene, consegnateci il vostro Usillo e fatecelo portare indisturbati al nostro tempio. Se ci tenete a saperlo, durante il prossimo novilunio, anch'egli sarà immolato alla nostra potente divinità.»
Alle parole dello sconosciuto, sono rimasto perplesso, direi quasi inebetito. Invece la mia Ilva, tirando fuori gli artigli della tigre, ha tentato di ribellarsi con tutte le sue forze. Infatti, senza perdere tempo, gli ha rinfacciato tremendamente adirata:
«Noi abbiamo smesso di essere Araneidi da parecchio tempo, ossia da più di un decennio, quando disertammo da voi. Per questo motivo, non dobbiamo alcun tributo al vostro dio sanguinario e vi preghiamo di uscire e di lasciarci in pace! Ecco come stanno veramente le cose, se voi non lo sapete ancora! Vi sono stata chiara, esseri maledetti?»
«In verità,» l'ha contraddetta il suo interlocutore «voi siete rimasti sempre Araneidi, avendo giurato davanti al nostro dio di desiderare esserlo fino alla morte. L'avete forse dimenticato? Dunque, affrettatevi a consegnarci il vostro piccino, se non volete che ammazziamo l'intera vostra famigliola. Abbiamo ricevuto l'ordine di uccidere il vostro intero nucleo familiare, se vi foste rifiutati di consegnarcelo. Ad eccezione del piccolo, si intende! Allora volete collaborare con noi oppure volete morire? Ditecelo, per favore, cosa avete stabilito di fare!»
Compresa la pericolosità di un nostro rifiuto, pur tribolando dentro di me indicibilmente, non ho esitato a strappare il mio Usillo dalle braccia della madre, che non intendeva cedermelo per nessuna ragione. Dopo l'ho consegnato a quelle persone malintenzionate, le quali soltanto così hanno deciso di abbandonare rapidamente la nostra casa, portandosi via il nostro bambino, il quale non smetteva di strillare forte. In pari tempo, anche la mia consorte urlava disperatamente e voleva a qualunque costo andare dietro di loro per riprendersi il suo Usillo. In quel momento difficile, i miei grandi sforzi riuscivano a fatica a trattenerla e a tenerla inchiodata in casa. Intanto che tenevo testa alla sua furia scatenata che si rifiutava di arrendersi, cercavo di calmarla e di farla ragionare. Invece ogni mio sforzo risultava inutile, non volendo la poveretta intendere ragione. Quando poi le sue proteste sono cessate, mi sono accorto che le era venuto meno totalmente il discernimento. Ilva era rimasta così scioccata da quell'evento straziante, che all'improvviso si era trasformata in un automa privo del senso della realtà circostante, essendo diventata un autentico essere vegetale. Gli stessi pianti dirotti della piccola Ondella non le si rivelavano di alcun significato; anzi, non erano in grado di scalfire minimamente l'intimità e la razionalità della sua persona, la quale era ormai spenta in modo irrimediabile.
Da quel momento anche la mia vita è rimasta duramente segnata, diventando ad un tratto un vero inferno. Sono stato costretto ad assistere impotente ai miei due terribili drammi: da una parte, quello silente ed inespressivo della mia infelice consorte; dall'altra, quello pietoso e commovente della mia triste bambina. Da entrambi ha iniziato a provenirmi l'esistenza più inaccettabile. Perciò giammai potrò allontanarla da me, allo scopo di ricominciare a viverla serenamente e senza il minimo turbamento dell'animo.