202°-PRESSO LA FATTORIA DEI COLONI EFRO ED ILVA

Nel pomeriggio del quattordicesimo giorno, le forze della natura vollero dare un saggio di prim'ordine della loro potenza distruttiva. All'improvviso, le nubi si andarono addensando ovunque, facendo incupire l'intera volta del cielo. Poco dopo, un insolito vento si diede a spingerle con sfacciata prepotenza da sud verso nord; nello stesso tempo, le presentava nella loro conflittualità più scatenata. Allora, scorgendo nel loro ininterrotto agitarsi ed abbaruffarsi i prodromi di un imminente temporale non di poco conto, Iveonte, Francide e Astoride con la massima celerità abbandonarono la strada maestra che conduceva ad Actina e si introdussero nella vicina boscaglia. La quale si estendeva fitta e rigogliosa sul lato destro del loro percorso. Subito dopo si misero anche alla ricerca di un buon ricetto per sé stessi e per le loro bestie, al fine di trovarvi una discreta protezione. Essi effettuarono la loro provvisoria deviazione, quando era trascorsa un'ora che si erano lasciata alle spalle la città di Cirza, che avevano evitato di visitare per non perdere tempo.

Intanto che venivano frastornati dall'urlio del vento, dal dimenarsi degli alberi e da un balenio a secco, i tre giovani amici già avevano percorso tre miglia di quella boscaglia, allorquando la videro diventare quasi buia. Adesso tali fenomeni naturali davano origine intorno a loro ad una sarabanda incessante ed indiavolata. Qualche minuto più tardi, invece, un tuono piombò improvviso proprio sulle loro teste. Esso era sopraggiunto così fragoroso e spaventoso in quel luogo, da infondere nelle loro bestie un terrore matto! Allora i quattro muli, che si erano ritrovati privi di un rigoroso governo da parte dei loro conducenti, subito si diedero ad una corsa pazzesca attraverso l'intricata selva. La fuga delle bestie, com'era da prevedersi, allarmò i tre amici, i quali all'istante si proposero di andare a riprendersele; ma, ironia della sorte, proprio in quel momento incominciò anche a venire giù dall'alto una pioggia torrenziale. Il nubifragio rese allora ancora più macabro quello spettacolo, che la natura già stava esibendo dentro una cornice di guizzi lividi e di fragori assordanti. Esprimendosi in quel modo, esso contribuiva a seminare ulteriormente in ogni angolo di quella selva un grande terrore, facendo venir meno l’abituale tranquillità nelle bestie e nelle persone.

Così, a causa del peggioramento del tempo, Iveonte e i suoi amici non poterono fare altro che andare a ripararsi con i loro cavalli sotto un gigantesco albero plurisecolare, che si trovava a pochi passi da loro. Esso, con la sua chioma amplissima, era in grado di coprire una zona boschiva circolare avente il diametro di venti metri; inoltre, impediva perfino ad una goccia di acqua di penetrarla e di cadere sul suolo sottostante. Alla base, il tronco era così massiccio, da richiedere almeno cinque persone, se lo si voleva cingere per intero con le loro braccia. Invece non si poteva ipotizzare ad occhio nudo la misura della sua altezza, visto che dal sottobosco non si riusciva a scorgere la sua punta terminale. Infatti, tanto le sue folte ramificazioni quanto quelle degli altri alberi adiacenti, intrecciandosi tra di loro, impedivano all'occhio di guardare verso l'alto e di farsene una idea approssimativa. Comunque, il temporale continuò ad imperversare per oltre tre ore, trasformando ogni angolo della cupa boscaglia in un qualcosa di spettrale, di orrido e di allucinante. Seguitando ad esprimersi in quella maniera, esso terrorizzava sinistramente i mammiferi e i volatili che vi avevano stabile dimora. Per la verità, non era da meno il suo effetto sui tre compagni, essendo stati obbligati a riparare sotto l'enorme albero latifoglio, che è stato indicato.

Intanto che Iveonte, Francide e Astoride restavano rifugiati sotto quel gigantesco albero, completamente privi della loro serenità di prima, il Terdibano domandò agli altri due amici:

«In quest’inferno che si agita senza sosta intorno a noi, sferzando la natura in modo terribile, amici, mi dite come faremo a recuperare i muli, che ci sono sfuggiti, prendendo il largo? Secondo me, in seguito avremo da sfacchinare un bel po’ di tempo, prima che le nostre ricerche ce li facciano ritrovare in qualche posto, sperando che esso sia vicino!»

«Almeno per ora, Astoride, personalmente non ne ho la più pallida idea.» Iveonte gli rispose per primo «Comunque, ho l'impressione che li abbiamo perduti per sempre! Dopo essere state spaventate da questa sferzante tempesta, chissà dove saranno andate a cacciarsi le nostre bestie da soma! Ma sono del parere che esse si saranno date ad un percorso non uguale per tutte, per cui ciascuna se ne sarà andata per conto proprio. Può anche darsi che avranno perso l'intero carico durante la loro forsennata corsa, alla quale le ha indotte l’eccessivo terrore, dopo essersi impadronito di loro! Per nostra fortuna, non è successa la stessa cosa ai nostri cavalli, per averli legati bene a dei robusti rami!»

«La penso anch'io come te, Iveonte.» pure Francide intervenne a dire la sua «A mio avviso, per come si sono messe le cose, soltanto un prodigio potrà farci ritrovare i muli sul nostro cammino. Ammesso che in seguito tali bestie verranno ad incrociarsi con la nostra strada! Se lo volete sapere, miei cari amici, non ci spero neppure un poco!»

Più tardi, comunque, sia gli scrosci di pioggia che le raffiche di vento andarono scemando. Alla fine la loro cessazione definitiva riportò l'ecosistema boschivo alla precedente normalità. In quel modo, lo rese di nuovo vivibile dalla moltitudine degli esseri viventi, i quali erano abituati ad abitarlo nell'assoluta quiete. Difatti dopo, come per miracolo, insieme all'accresciuto chiarore, ritornarono dappertutto pure la calma e la serenità. Per cui esse invogliarono certe specie di uccelli a ridarsi ai loro gorgheggi beati, avendoli smessi prima a causa della sopraggiunta pioggia. Ma nonostante il tempo si fosse rimesso a bello, il parere di Iveonte fu quello di aspettare ancora qualche oretta, prima di abbandonare quel luogo, che era ancora da considerarsi il più sicuro. Secondo lui, l'acqua, che era caduta da poco in grande abbondanza, non era stata ancora assorbita interamente dall'erboso terreno. Perciò si sarebbero potute incontrare in giro ancora vaste aree allagate oppure estese pozzanghere in varie zone. Inoltre, c'era da prendere in considerazione il fatto che la notte era ormai prossima. Per la qual cosa, il sagace giovane suggerì di pernottare sul posto e di riprendere il cammino il mattino dopo, all’apparire delle prime luci dell’alba. E poiché il suo suggerimento ottenne il consenso pure dei suoi amici, si optò per il pernottamento in loco. Tra i vari inconvenienti del momento, ci fu anche quello che li costrinse a saltare la cena e a mettersi a dormire a stomaco vuoto. Per questo i morsi della fame influirono negativamente sul loro sonno, poiché durante la nottata essi vennero a disturbarlo a tutti e tre.

Il giorno successivo, ai primi albori del giorno, Iveonte, Francide e Astoride erano già svegli, essendo stati destati da un coro di festosi garriti e cinguettii. Così, rimontati sui loro cavalli ormai riposati, prima di ogni altra cosa, essi badarono a dare una guardata nei dintorni. Magari sarebbero stati baciati dalla fortuna, facendogli ritrovare almeno uno dei muli che la sera precedente si erano dati alla loro fuga precipitosa! Ma dopo un'ora d’infruttuose ricerche, i tre giovani pervennero ai margini di un'ampia radura, in mezzo alla quale avvistarono il tetto di una modesta casa colonica. Era stato il suo comignolo ad attirare la loro attenzione, siccome si levavano da esso rade e bigie volute di fumo. Le quali si andavano a disperdere nell'azzurro e terso cielo sovrastante. Alla vista di quel fumaiolo, il quale era in piena attività, tutti e tre se ne rallegrarono moltissimo e si diressero senza indugio verso quella parte della valle, dove si intravedeva il fumo che si levava verso il cielo. Mentre vi si conducevano lestamente e con gioia, essi nutrivano la speranza che presto avrebbero trovato in quella fattoria qualcosa da mettere sotto i denti, poiché a loro parere essa doveva essere senz’altro abitata.

Una volta che la ebbero raggiunta, nessuno di loro riuscì a scorgere anima viva nelle sue adiacenze. Vi si potevano solamente contare alcune decine di polli, che ruspavano nei pressi dell'aia, oltre ad una dozzina di capre, che pascolavano tra l'erba guazzosa. A quanto pareva, neanche il calpestio prodotto dalla corsa dei loro cavalli era riuscito a richiamare l'attenzione dei proprietari della fattoria. Eppure essi non potevano stare ancora a dormire! Al contrario, dovevano essere per forza già desti, se in casa tenevano acceso il loro camino! In quella stagione, secondo il giudizio dei tre giovani, si ricorreva alla fiamma del fuoco unicamente per cuocere vivande o per riscaldare bevande. Allora perché, pur avendoli sentiti arrivare, i coloni se ne erano rimasti rintanati nella loro abitazione e non ne erano usciti per salutarli ed accoglierli gentilmente, come la buona educazione consigliava? Infine conclusero che doveva esserci un serio motivo a loro ignoto, se i proprietari della fattoria non si decidevano a venire fuori e a salutarli con spirito altruistico. A ogni modo, dopo che i tre giovani furono scesi da cavallo ed ebbero sistemato le loro bestie all'ombra di un albero che faceva sfoggio della sua superba fioritura stagionale, Astoride fu il primo ad aprire bocca, facendo ad Iveonte e a Francide un tale ragionamento:

«Perché, amici miei, quelli che abitano in questa casa se ne stanno ancora rinchiusi dentro come topi e non ne vengono fuori a darci il benvenuto? Quasi fossimo dei veri delinquenti! Essi dovrebbero sapere che siamo al corrente della loro presenza in casa e non possono darci ad intendere il contrario! Il fumo del loro camino, dopo averci segnalato la presenza della loro fattoria, ora ci convalida che deve esserci senz'altro qualcuno nell’interno. Quindi, sapete spiegarmi il loro illogico comportamento? Io non so cosa pensare in merito al loro strano silenzio?»

«Astoride, quelli che vi abitano avranno paura della nostra presenza, se evitano di farsi vedere e di presentarsi a noi.» gli rispose Iveonte «Probabilmente, ci avranno presi per gente di malaffare. Ciò giustifica la loro eccessiva diffidenza nei nostri confronti. Inoltre, spiega anche il loro conseguente ricorso al barricamento in casa, non appena ci hanno visti arrivare! Ma c'è pure da ipotizzare che i coloni siano già rimasti scottati da una precedente visita da parte di sconosciuti, i quali li avranno fatti pentire di essersi mostrati ospitali nei loro confronti! Quest'ultima mia ipotesi forse dovrebbe essere proprio quella azzeccata!»

«Quindi» suggerì Francide «facciamo comprendere ai padroni della casa colonica che siamo gente perbene ed invitiamoli ad uscire, senza temere la nostra presenza! Ammesso che riusciremo a trovare un modo per convincerli di quanto gli asseriremo tra poco! Forse altri, spacciandosi prima per persone ammodo, dopo invece si sono dimostrati degli esseri poco raccomandabili, facendogli del male che non si scorda!»

«Hai ragione, Francide, a supporre che non sarà affatto semplice farglielo capire.» approvò Iveonte «Specialmente se sono rimasti scottati già una volta da qualche visita sgradita, da parte di persone disoneste! Comunque, essi ci stanno ascoltando dall’interno dell’abitazione e credo che già si siano resi conto che non siamo delle persone malvagie. Per questo, se non si decidono ancora ad uscire, vuol dire che i nostri discorsi, benché siano stati rassicuranti, non li hanno convinti abbastanza! Prima o poi, però, essi dovranno risolversi a farlo, poiché non ci muoveremo da qui, fino a quando non ci avranno aperto e non avranno soddisfatto le nostre richieste!»

«Ma essi ignorano che abbiamo un gran bisogno di cibo e di acqua, Iveonte.» gli fece notare Astoride «Quindi, se non saranno loro ad aprirci spontaneamente la porta, saremo noi a buttarla giù con la forza, non lasciandoci altra scelta. In quel caso, dopo si ritroveranno con la porta da risistemare, se vorranno sentirsi nuovamente protetti!»

«Invece ciò non dovrà avvenire, Astoride!» disapprovò Iveonte «Prima di ricorrere ad un'antipatica effrazione e ad una ingiustificata violazione di domicilio, dobbiamo tentarle tutte con i padroni di casa. Cioè, bisogna cercare di farli ragionare, facendogli comprendere che non siamo le persone che essi immaginano. Dunque, occorre persuaderli a fidarsi di noi e ad accoglierci come se fossimo dei loro amici sinceri!»

Un attimo dopo, Iveonte si avvicinò all'uscio, allo scopo di tentare un ultimo approccio con gli impauriti coloni, che si trovavano all'interno dell'abitazione. Così prima bussò più volte con moderazione alla porta con le nocche delle dita della mano destra. Dopo, non vedendosi aprire, si diede a parlare ai proprietari della piccola fattoria in questo modo:

«Ehi, voi di casa, non c'è motivo di allarmarvi e di temerci! Sappiate che siamo delle persone amiche, che sono venute a chiedervi soltanto del cibo e dell'acqua, visto che ne siamo rimasti sprovvisti. Il temporale di ieri ha fatto scappare i nostri muli, che si sono portati via con loro tutte le nostre vettovaglie e l’intera nostra scorta di acqua. Statene certi che non pretendiamo niente da voi gratuitamente, poiché siamo disposti a pagarvi ogni cosa con monete d'oro. Se poi aveste qualche problema con qualcuno, saremmo anche lieti di risolvervelo, poiché è nostra premura liberare gli oppressi dai loro oppressori! Ciò dovrebbe convincervi ad avere un po' di fiducia in noi e ad aprirci la porta senza esitazione! Non vi pare che, se fossimo delle persone malvagie, non staremmo qui a pregarvi cortesemente di aprirci? Invece avremmo già abbattuto da tempo la vostra porta ed avremmo pure approfittato di voi, senza farci scrupolo di niente! Suvvia, signori spauriti, non abbiate timore di nulla; al contrario, uscite e fateci la calda accoglienza che meritiamo!»

Le parole di Iveonte alla fine risultarono convincenti a quelli che se ne restavano asserragliati nell'interno dell'abitazione. Per cui, appena qualche attimo dopo che egli le ebbe emesse dalle sue labbra, fu vista la porta di casa aprirsi e venirne fuori un uomo. Egli, dall'apparente età di oltre quarant'anni, mostrava un aspetto trasandato. La sua barba incolta e la sua trascurata capigliatura gli facevano dare più anni di quanti ne aveva. Comunque essi dovevano superare di poco la trentina. Ma se la sua sciatteria lo presentava più vecchio nel fisico, cosa dire del dolore che egli si portava dentro, torturandogli l'esistenza? Esso gli buttava giù il morale in modo così pauroso, da farlo apparire un perseguitato dalla malasorte. Perfino i suoi occhi affossati, che si mostravano spenti, comunicavano all'esterno il dramma dello spirito che gli si stava logorando nell'intimo. Esso lo rendeva insofferente di ogni forma di vita reale. Allora Iveonte, non appena il colono si fu riversato fuori casa sua, prima ancora di scorgere sul suo volto il folle terrore, all’istante notò in lui una pena interiore carica di alta drammaticità. Ma egli non lo diede a divedere in nessuna maniera al colono, il quale era appena apparso e gli stava ritto davanti. Anzi, poco dopo incominciò a dirgli:

«Buonuomo, la nostra presenza non intende far preoccupare te e la tua famiglia. Invece devi considerare me e i miei amici dei veri gentiluomini. Se siamo venuti a bussare alla tua porta, è perché siamo rimasti senza cibo e senz'acqua, avendo smarrito i nostri muli che trasportavano l'uno e l'altra. Stavamo cercando appunto le nostre bestie con il loro prezioso carico, quando abbiamo avvistato da lontano la vostra casa colonica. Avendola poi considerata anche la nostra unica àncora di salvezza in un momento così difficile per noi, abbiamo pensato di farvi la nostra visita e di chiedervi quanto ci abbisogna. Pensi forse che la nostra sia stata una cattiva idea? Noi invece non lo crediamo!»

Qualche momento dopo, Iveonte smise di parlare e badò a tirare alcune monete d'oro fuori dalla bisaccia, che teneva appesa alla sella. Quando poi esse furono ben visibili nel palmo della sua mano, le quali apparivano luccicanti e sonanti che erano una meraviglia, mostrandogliele, riprese subito a parlargli, usando queste parole:

«Le vedi, spaventato uomo? Esse saranno tutte e cinque tue, se vorrai rifornirci di acqua e di cibo bastevoli per l'intera durata del nostro viaggio. Se poi la curiosità ti spinge a saperlo, la nostra meta è Actina! Senz’altro, avrete già sentito parlare pure voi da queste parti della Città Santa! Nell'Edelcadia, essa è molto famosa, siccome ospita un grandioso tempio, il quale è dedicato al potente dio Matarum, il quale è la somma divinità di tutti gli Edelcadi.»

Fu a quel punto che l'uomo si azzardò ad esprimersi ai tre giovani, mettendosi a parlare in questo modo:

«Voi tre dovete essere davvero delle brave ed oneste persone. Perciò mi dichiaro pronto a mettermi a vostra completa disposizione, accontentandovi in ciò che mi è possibile fare per voi. Ma prima permettetemi di offrirvi una ciotola di latte caldo e della frutta fresca, che ho appena raccolta nel mio orto. Il quale è situato nel retro della nostra casa, dove siamo soliti coltivare anche alcune specie di ortaggi e di verdure.»

«Brav'uomo, io e i miei amici te lo consentiamo con molto piacere, vista la fame da lupo che ci ritroviamo addosso, dopo aver saltato la cena di ieri sera!» gli rispose Iveonte «Nel medesimo tempo, ti ringraziamo anche per la generosa offerta che hai voluto farci!»

Subito dopo, il contadino li invitò nella sua modesta dimora e li fece accomodare sopra degli sgabelli sistemati intorno ad un tavolo, che si trovava nella metà anteriore dell’unico vano terraneo. Poi, intanto che il latte si riscaldava sul fuoco, stando dentro una pignatta di coccio, l'uomo apparecchiò sul tavolo tre grosse ciotole. Qualche istante più tardi, egli vi depose pure una cesta di vimini di forma quadrata. Essa si presentava agli occhi dei tre giovani affamati una vera meraviglia, essendo piena zeppa di pesche, di pere, di susine e di albicocche.

La casa era composta di un solo vano spazioso, il quale era lungo otto metri, largo sette e alto cinque. Esso si presentava con pareti scarne e disadorne; nonché scarseggiava di suppellettili. A metà altezza, era stato ricavato una specie di mezzanino, interamente in struttura lignea, il quale ricopriva quasi i due terzi più interni dell'impiantito. Nella piccola casa colonica, tanto per precisarlo, esso faceva da reparto notte ed era limitato da un parapetto. Inoltre, tale ambiente era munito di una scala pure di legno, la quale consentiva ai vari membri della famiglia di accedervi comodamente. Riguardo ai due canti vicini all'uscio, in quello sinistro vi stava il camino e in quello destro vi era accatastata la legna da farvi ardere. Invece gli altri due angoli, quelli situati in fondo allo stanzone, erano parzialmente invasi dalla penombra. Perciò si poteva a malapena scorgere che in quello situato a sinistra vi erano accastellati vari sacchi di grano e in quello situato a destra vi erano riposti degli attrezzi agricoli, non essendo ancora il tempo di adoperarli nei campi.


Quando il latte divenne ben caldo, l'uomo rimosse la pignatta da sopra il treppiede. Poi, servendosi di un mestolo di legno, versò il denso e fumante liquido bianco in essa contenuto nelle tre ciotole, che poco prima erano state da lui disposte sul tavolo davanti alla terna di forestieri. Compiute tali azioni e sistemato di nuovo il recipiente casalingo al posto suo, l'anfitrione si sedette a tavola insieme con i suoi tre ospiti, ovviamente non per prendere parte alla frugale colazione. Egli intendeva soltanto scambiare con loro quattro chiacchiere, sempre che esse fossero risultate di suo gradimento e non pizzicassero la sua suscettibilità. Allora Francide, essendo stato il primo a bere il suo latte e non avendo altro da fare, chiese al timido padrone di casa:

«Come mai non si scorge nessun'altra persona in questa casa, simpatico colono? Conduci forse una vita da scapolo? Inoltre, ci è permesso sapere come ti chiami? Così, dopo che gentilmente ce lo avrai detto, ci rivolgeremo a te, chiamandoti con il tuo nome. Non sei d’accordo pure tu con quanto ho voluto farti presente?»

«Io mi chiamo Efro e sono felicemente ammogliato con la mia adorabile Ilva. Ella, cinque anni fa, mi rese padre di una bellissima bambina, il cui nome è Ondella. A quest'ora del mattino, però, entrambe continuano a dormire di sopra, cioè sull'ammezzato. Ma adesso mi fate conoscere anche i vostri nomi, gentili forestieri, in modo che io dopo li possa usare, ogni volta che mi rivolgerò a ciascuno di voi, ammesso che non li confonda? Attendo che me li diciate.»

«Ti accontento subito, mio caro Efro. Il mio nome è Francide; invece quelli dei miei amici sono Iveonte, che è quello che ti ha convinto ad aprirci la porta, e Astoride, quello che continua a gradire la tua frutta matura. Non ti nascondo che l'ho trovata anch'io davvero molto squisita! Da ora in poi, perciò, puoi chiamarci con tali nomi.»

Il giovane aveva appena finito di dire al colono come si chiamavano lui e i suoi amici, allorché dal mezzanino giunsero le seguenti grida disperate, le quali potevano essere unicamente di una donna tutt'altro che allegra: "Non portatemi via il mio bambino! Ridatemi il mio Usillo, per favore!" Subito dopo, provenne dallo stesso posto anche il pianto di una bambina. La quale, oltre a piangere, strillava forte: "Mammina, non lasciarmi sola! Voglio restare sempre con te!"

A quelle grida strazianti di donna, i tre giovani amici si guardarono in faccia senza fiatare. Ma non poterono fare a meno di chiedersi, ciascuno per proprio conto, perché mai c’erano state quelle urla improvvise. Secondo loro, esse avevano manifestato l'immensa costernazione di un animo che si presentava oltremodo affranto. Invece non avevano dato peso agli strilli della bambina, poiché li si potevano attribuire al suo brusco risveglio, il quale forse le era stato cagionato da qualche terribile sogno appena fatto. Naturalmente, i lamenti della moglie e gli strilli della figlia avevano arrecato un tremendo fastidio al contadino Efro, siccome non avrebbe voluto che ci fossero stati in quella circostanza. Essi, quindi, lo resero all'istante molto impacciato, non sapendo dare una giustificazione plausibile alle loro esclamazioni angosciose. Ma poi il colono cercò di spiegarle ai suoi tre ospiti, come meglio poteva. Perciò, fingendo di non dare ad esse il minimo peso, le giustificò in questa maniera:

«Mia moglie e la nostra bambina avranno senz'altro rifatto uno dei loro bruttissimi sogni! Capita spesso alle poverette, in questi ultimi tempi, di sognare fatti assai raccapriccianti, i quali poi si ripercuotono sulla loro psiche. Io non riesco a spiegarmelo in nessun modo!»

«Già!» acconsentì Iveonte, mostrandosi per niente convinto di quanto dichiarato dal colono «Ma ciò che non mi appare chiaro, Efro, è il contenuto delle sconcertanti frasi pronunciate da tua moglie. Se ho bene inteso, ella ha fatto riferimento ad un altro bambino, che le sarebbe stato sottratto con la violenza. Sono certo che è stato così!»

«Anch'io ho avuto la medesima impressione!» approvò Astoride «Per questo sono pronto a giurare che non mi sono affatto sbagliato! Dunque, ci deve essere una grandissima verità negli accorati lamenti di tua moglie! Allora, Efro, come te lo spieghi?»

«Neppure io ho inteso una cosa diversa dalla vostra, amici!» si unì a loro due pure Francide «Ella ha fatto chiaramente il nome del suo ipotetico bambino, il quale di sicuro le è stato carpito da persone cattive. Lo ha pure chiamato Usillo! Ciò dimostra che in questa casa c'è stato di sicuro un rapimento da parte di ribaldi sconosciuti!»

«Dunque, cosa puoi raccontarci in merito, generoso Efro?» Iveonte intervenne a domandare all’interdetto colono, cercando di sapere qualcosa di più sull'accaduto.

A quel punto, il giovane era intenzionato a spingere il colono a spiattellare ciò che in realtà non voleva che si sapesse, poiché intendeva aiutare quella sfortunata famiglia. Invece la sua domanda mise in grande difficoltà l'agricoltore. Perciò lo si vide anche palesare in volto una forte dose di terrore, come se l'argomento lo scottasse sommamente. Dopo, pur di evitare di parlarne con i suoi tre ospiti forestieri, manifestando un certo timore e quasi barbugliando, provò a dare all'ospite richiedente la seguente risposta:

«Se devo esserti sincero, Iveonte, non ho mai saputo dell'esistenza nella mia famiglia di qualche bambino di nome Usillo! Io e mia moglie abbiamo avuto una sola bambina, che è la nostra graziosa Ondella. La mia Ilva avrà parlato certamente in sogno, senza sapere ciò che diceva in quel momento! Vi assicuro che questa è la pura verità riguardante la mia famiglia e non ce n’è un'altra diversa! Vi sono stato chiaro?»

In quell'istante, si udì un rumore di passi, i quali, muovendosi sul tavolato di legno dell'ammezzato, vi producevano uno scricchiolio fastidioso. Pochi attimi dopo, sporgendosi dal parapetto di quella specie di soppalco, vi si affacciò una donna che mostrava di avere una trentina d'anni. Ella, apparendo scapigliata e disadorna, nonché con lo sguardo fisso nel vuoto assoluto, di lassù lanciò lo stesso grido disperato di prima. Anche la bambina, che si intravedeva incollata alla sua veste, le fece eco di nuovo, ripetendo la medesima frase e palesando la drammaticità già manifestata in precedenza. Di lì a poco, la donna, sempre seguita di pari passo dalla figlioletta, cominciò a venire giù per la scala, riuscendo appena ad imbroccare con i piedi la ventina di gradini che la costituivano. Una volta raggiunto il malridotto pavimento, ignorando del tutto il marito e i suoi ospiti, ella andò a sedersi su una grossolana cassapanca. Così vi restò seduta sopra, tutta sola e con lo sguardo sprofondato nel nulla; anzi, sembrava che inseguisse dei fantasmi. Invece la sua mente rimaneva ancorata a dei fatti ancora caldi, i quali potevano esclusivamente trascinarla in un tremendo tormento. La bambina, da parte sua, non appena fu a pianterreno della casa, anziché continuare a stare dietro ai passi materni, corse ad annidarsi fra le ginocchia del padre. Dopo, restando in quel posto, dove dava ad intendere di trovarsi totalmente a suo agio, la piccola, anche se un po' di meno, faceva trasparire dai suoi occhi spenti il proprio animo spaventato ed inquieto, poiché trovava difficile separarsene.

Ad ogni modo, era la sventurata madre quella che faceva maggiormente impressione, siccome preferiva estraniarsi da una esistenza reale, allo scopo di condurne un'altra, la quale rappresentava la negazione della prima, cioè completamente avvolta dal vuoto e dal nulla. Anche le sue due strazianti frasi, che andava ripetendo ad intervalli di cinque minuti, facevano una gran pena e scombussolavano grandemente quanti erano presenti nella casa colonica ed erano costretti ad ascoltarle. Il marito, dal canto suo, vedendola ridotta in quello stato di perfetto automa, interamente svuotata di ogni realtà soggettiva ed oggettiva, dentro di sé impazziva e ne moriva dal dolore. Per la quale ragione, non aveva la voglia e la forza di spendere una parola o fare qualche moina alla sua Ondella. La poveretta, data la catastrofica situazione della sua sventurata famiglia, si ritrovava abbandonata a sé stessa e priva del tutto di qualsiasi conforto familiare, ossia senza né baci né carezze.

Di fronte a tale scenario desolato e sconfortante, Iveonte si impietosì moltissimo. Soltanto adesso comprendeva le ragioni della pena interiore, con cui l'uomo si era presentato a loro tre, quando era venuto fuori dalla sua abitazione per chiedere loro chi fossero e cosa volessero. Ciò lo spinse a scandagliare più a fondo la situazione di quella famigliola che si presentava altamente drammatica, sebbene il colono facesse di tutto per non darlo a vedere! Allora, rivolgendosi all'avvilito uomo con garbo ed acume, il giovane incominciò a parlargli con molta franchezza:

«Senti, Efro, è inutile che cerchi di nascondere il dramma, che la tua famiglia sta vivendo attualmente. Esso appare dai vostri volti meglio del sole che splende nel limpido cielo. In modo manifesto, lo si capta nei tuoi occhi languenti e lo si legge sul faccino atterrito della tua bambina. Soprattutto si presenta, in stato conclamato, nel grave isterismo della tua disgraziata moglie. Se ce ne parli, spiegandocene i motivi, ti promettiamo che faremo ogni cosa possibile per aiutarvi e per riportare nella tua casa la serenità di prima. Perciò ti invitiamo a sbottonarti con noi e ad essere fiducioso nei nostri riguardi!»

Da parte sua, il turbato contadino continuò a fingere e ad asserire che nel suo ambito familiare, siccome ogni cosa procedeva liscia come l’olio, non c’erano problemi di alcun genere da risolvere. Inoltre, a malincuore rifiutò ogni aiuto che i tre suoi ospiti venivano ad offrirgli in modo caritatevole. In ultimo, mentendo a sé stesso e mostrandosi quasi indispettito dalle parole del suo generoso interlocutore, si rivolse a lui e tese a chiarirgli una volta per tutte come egli la pensava:

«Grazie, Iveonte, per l’interessamento che tu e i tuoi amici mostrate verso la mia famiglia e per la vostra intenzione di aiutarci. Ma sappiate che noi, contrariamente ad ogni vostra impressione, non stiamo vivendo alcun momento difficile. Perciò vi prego di non toccare mai più questo tasto, se non volete che io mi infastidisca. Tra poco vi fornisco ciò che vi occorre per continuare il vostro viaggio verso Actina. Dopo, però, mi farete la cortesia di lasciare la mia casa in fretta e per sempre! Così mi priverò del discorso da voi aperto fuori luogo! A questo punto, penso di essere stato abbastanza chiaro per farmi comprendere da voi!»

Alle nuove parole del colono, Iveonte non poté fare altro che stringersi nelle spalle. Egli era convinto che tutti i membri della sua famiglia venivano torchiati da una tensione spasmodica, la quale a momenti poteva sfociare in un tragico epilogo. Solo che non aveva prove incontestabili per obbligarlo a confessarsi con loro. Poco dopo, invece, fu Francide a fargliele ottenere. L’amico fraterno, infatti, intenzionato a sconfiggere la proverbiale saggezza contadina e a raggiungere facilmente il loro scopo, decise di giocare d’astuzia, ma facendo leva sulla ingenuità della bambina. Perciò, con fare scherzoso ed accattivante, il giovane cercò di avere un dialogo con la piccola, cominciando a dirle:

«Lo sai che sei una graziosa bambina, come non ne ho mai incontrate in vita mia? Se poi mi dici anche come ti chiami, aggiungerò che sei la più simpatica fra tutte le bambine del mondo! Allora me lo dici il tuo nome, il quale credo sia veramente bello?»

«Io mi chiamo Ondella, signore.» abbozzando un sorriso, la piccola rispose al suo interlocutore. «Mi dici adesso anche il tuo nome, visto che ci trovo gusto a parlare con te? Spero che esso sia proprio bello quanto il mio! Altrimenti mi toccherà dispiacermi per te, per avere un brutto nome! Perciò dimmi subito come ti chiami, per favore.»

«Ero certo che me lo avresti chiesto, graziosa Ondella! Soltanto una bambina intelligente quanto te poteva comportarsi come hai fatto tu! Ebbene, adesso te lo dico immediatamente: il mio nome è Usillo. Non mi dire che non è bello quanto il tuo!»

«Invece esso è bellissimo: né potrebbe essere diversamente! Adesso ti dico anche il motivo perché il tuo nome mi piace tantissimo. Devi sapere che il mio fratellino, che adesso non vive più in casa nostra, aveva lo stesso nome tuo. Posso giurartelo!»

«Come mai adesso non hai più il tuo fratellino con te, Ondella? Mi dispiacerebbe apprendere da te che egli è morto e non può giocare più con te! Ma facciamo le corna ed auguriamogli una lunga vita al tuo Usillo! Ma posso sapere perché egli non vive più in casa con voi tutti?»

«Invece il mio fratellino non è morto, simpatico forestiero. Ieri degli uomini cattivi sono venuti a casa nostra e lo hanno portato via per fargli del male! Quelle persone malvagie hanno fatto ammalare anche la mia povera mammina. Ella, da quel brutto momento in poi, ha smesso di volermi il bene; mentre prima me ne voleva tantissimo!»

Alle parole della bambina, i tre amici si scambiarono degli sguardi soddisfatti, come per dirsi che finalmente la verità era venuta a galla. Inoltre, balenò in loro un tacito accordo, con il quale stabilirono di venire in soccorso di quei poveretti, che versavano in una pena così grande, da ridurli allo sfascio! Allora Iveonte, che adesso disponeva di una prova decisiva, assalì il colono, dandosi ad esprimerglisi in questo modo:

«A questo punto, Efro, non puoi più negare l’evidenza dei fatti! La tua innocente figlioletta ha parlato con la bocca della verità. Per questo non venirci più a dire che Usillo è stato il prodotto di un sogno della tua distrutta consorte. Il dramma scioccante, che ella sta vivendo in questo momento, è la diretta conseguenza del rapimento del figlio Usillo. Quindi, che tu lo voglia oppure no, ci dirai chi sono stati i rapitori del tuo bambino e dove essi lo hanno condotto, procurandovi strazio e disperazione a non finire. Dopo noi, se egli è ancora vivo, andremo a liberarlo e ve lo riporteremo sano e salvo a casa. Così facendo, permetteremo il ritorno nella vostra famiglia di quella felicità che non c’è più, essendosi spenta per voi nella giornata di ieri. Se credi di farci rinunciare al nostro fermo proposito di aiutarvi, scordatelo, poiché non potrai mai più riuscirci. Quindi, sbrìgati a raccontarci ogni cosa, prima che noi perdiamo la pazienza. Solo così non saremo costretti a farti del male!»

«Io non posso assolutamente parlarvene, generosi giovani.» cominciò a dire il colono, manifestando un grande terrore «Anni fa feci giuramento a certe persone che mai ad alcuno avrei parlato di loro. Se lo facessi, diventerei uno spergiuro ed allora la maledizione del loro dio cadrebbe su di me e sulla mia famiglia. Naturalmente, anche sulla mia povera Ilva grava il vincolo dello stesso giuramento!»

«Ma di quali esseri malvagi stai parlando, Efro?! Mi dici anche che cos’è questa sorta di maledizione divina, la quale ti deriverebbe, se tu violassi il giuramento che gli hai fatto?! Stanne certo che mai nessuna maledizione, anche se fosse di un dio, potrebbe mai rendere la tua famiglia più disgraziata e più derelitta di come adesso si presenta a noi! Per averla ridotta nel miserabile stato in cui si trova, non credo che sia gente onesta e di rispetto quella che cerchi di proteggere con ostinata omertà! Lo stesso loro dio non può essere che una divinità iniqua, se si permette di arrecare cotali sofferenze alla povera gente come voi. Per questo ti esorto ad aver fede negli dèi giusti e generosi, dei quali ci consideriamo gli antesignani e i propugnatori! Sennò giammai riacquisterete la serenità che desideriamo che ritorni nella tua famiglia!»

Le parole di Iveonte convinsero relativamente il colono. Egli in quel momento appariva confuso ed incapace di prendere una decisione a tale riguardo, nonostante l'ospite gli ispirasse una grandissima fiducia. Poi, venendo terrorizzato come non mai dai passati ricordi, alcuni dei quali risultavano assai recenti, il poveretto incominciò a dire a loro tre:

«Voi non sapete con chi avete a che fare, generosi giovani. Ecco perché non vi arrendete e continuate ad insistere che io vi sveli ogni cosa sulla nostra famiglia! Perciò, per il vostro bene, lasciate perdere e non interessatevi a me e alle mie due familiari, poiché non potete aiutarci in alcun modo! Mi sono spiegato bene adesso?»

Iveonte, da parte sua, non volle però permettere al colono di proseguire oltre nel suo mostrarsi decisamente avverso a confidarsi con loro. Al contrario, intervenne ad interromperlo, ricorrendo magari anche a dei modi bruschi. Perciò gli disse:

«Insomma, vuoi o non vuoi riavere il tuo bambino?! Se fosse stato rapito il mio, sappi che sfiderei chiunque ed andrei incontro a qualsiasi pericolo, pur di averlo di nuovo con me! Perciò non mi comporterei come un codardo e del tutto insensibile alla tua maniera, specialmente di fronte al dramma immane di una moglie-madre immensamente disperata! Allora, Efro, ti decidi a comportarti come un vero uomo, un vero padre e un vero marito? Posso sapere che tipo di sangue ti scorre nelle vene, per esimerti dall'alzare un solo dito in aiuto di tuo piccolo Usillo e di tua moglie Ilva? Su, rivelamelo subito! Almeno così io e i miei amici sapremo con chi abbiamo a che fare!»

«Certo che mi interessa ritrovarmi a casa il mio bambino, Iveonte! Così andrei subito a riconsegnarlo tra le braccia della mia straziata consorte! Forse hai ragione tu, quando affermi che un genitore ha il dovere di fare tutto il possibile per salvare il proprio figlio e di non temere alcun tipo di rischio. Anzi, egli deve attaccarsi almeno alla più tenue speranza, come quella che ora mi proviene dalla vostra bontà e dalla vostra generosità! E perché no? Un padre non deve neppure avere in dispregio il proprio sacrificio! Dopo che vi avrò narrato l’intero racconto drammatico della mia famiglia, spero solo di ritrovare in voi lo stesso ardimento che vi scorgo in questo momento! Se esso non fosse più tale, l’amara disillusione, che me ne deriverebbe senza meno, aggraverebbe ulteriormente il mio attuale stato d’animo, recandogli la morte poco alla volta!»

«Finalmente, Efro, hai scelto la strada giusta, quella che potrà ridarti il figlio che ti hanno estorto con la forza! Perciò non ti resta che riferirci ogni cosa sul rapimento di Usillo. Subito dopo, i miei compagni ed io ci metteremo immantinente all’opera, decidendo il da farsi. Ti garantiamo che tutto procederà a gonfie vele!»

Di lì a poco, lo speranzoso colono, banditi da sé ogni dubbio ed ogni ritrosia a parlarne, si diede a fare un rapporto minuzioso sulla setta degli Araneidi e sui suoi riti di novilunio. Ma siccome il lettore in precedenza ne è stato già esaurientemente informato, si eviterà di narrarlo di nuovo, stralciandolo dal suo racconto. Dalla sua viva voce, invece, ci limiteremo ad apprendere la sola esperienza negativa vissuta dai due coniugi contadini, durante gli anni della loro permanenza in tale setta. Oltre a ciò, conosceremo l’intera incredibile odissea, a cui essi erano andati incontro per uscirne con ogni mezzo. Al contrario, loro malgrado, i due coniugi, compreso il loro figlio maschio, vi erano restati lo stesso incappati.