201°-IL SETTARISMO RELIGIOSO DI ULIPOS

Una volta lasciata Casunna, dove avevano potuto fare una sosta riposante e rilassante, Iveonte e i suoi amici ripresero il loro viaggio in direzione della Città Santa. Esso si prevedeva più lungo di quello affrontato in precedenza, il quale da Dorinda li aveva condotti a Casunna. Ora i tre amici, senza perdere altro tempo, badavano a raggiungere la città di Actina, che si trovava ad una distanza più o meno tripla di quella esistente tra la Città Invitta e Casunna. Perciò essi stimavano di poterla coprire in una ventina di giorni. Ma la loro stima dava per scontato che si sarebbero verificati i due seguenti eventi favorevoli: primo, le loro bestie avrebbero retto all'andatura sostenuta a cui essi intendevano sottoporle; secondo, durante il loro lunghissimo percorso, non ci sarebbero stati imprevisti di alcun tipo. Invece, come si sa, sarebbero potuti sempre intervenire i vari fenomeni naturali a rallentare la loro avanzata. I quali alcune volte, imperversando su una data regione in modo tempestoso e violento, finivano per rivelarsi dei veri cataclismi disastrosi. Non potevano essere ignorate neppure talune circostanze, le quali erano da imputarsi all'iniqua condotta umana, poiché anch’esse avrebbero potuto imporre al loro tragitto qualche tipo di rallentamento. Queste ultime, però, non si potevano paragonare ad alcune manifestazioni turbolente messe in atto dalle forze della natura. Per tale motivo la loro azzardata valutazione iniziale in seguito sarebbe potuta risultare suscettibile di qualche piccola o grande rettifica.

A questo punto, mettendo da parte tutto il resto, è opportuno riallacciarci al nostro racconto, essendo desiderosi di accompagnare i tre amici nel loro infinito viaggio, che li stava conducendo ad Actina. Durante il quale, come vedremo, a parte qualche modesto temporale di fuori stagione, non si verificherà neppure uno dei due eventi a cui si è fatto accenno qualche attimo fa e che avrebbero potuto non farlo risultare in forma ottimale. Invece saranno ben altri avvenimenti che, pur non interessandoli personalmente, loro malgrado, li costringerà a ritardare di qualche giorno il raggiungimento della loro ambita meta. La quale era situata in un posto, che bisognava considerare ancora remoto. Ma intanto che le albe si alternavano ai tramonti senza mai smettere, i giorni trascorrevano senza che dei fatti di rilievo venissero a scuotere i tre amici viaggiatori dalla loro monotona quotidianità. In riferimento poi al tempo, essendosi nella bella stagione, almeno nella parte iniziale del percorso, esso si presentò fondamentalmente sereno. Ogni giornata mostrava il suo limpido cielo, il quale soltanto rare volte veniva solcato da qualche sfrangiato banco di nuvole bigie, che vi si spostava con un costante e lieve movimento.

Quando Iveonte, Francide e Astoride giunsero nei pressi della città di Cirza, erano già trascorsi una dozzina di giorni, dei quali nemmeno uno aveva fatto registrare episodi di qualche rilevanza: ciascuno era stato vissuto da loro, facendo avvicendare galoppate diurne a riposi notturni. Adesso volgeva al termine il tredicesimo giorno, per cui la sera si stava avvicinando speditamente. Lo dava ad intendere la morente giornata, mentre si affrettava a consumare gli ultimi scampoli del tramonto per far posto al dilagante crepuscolo. A quegli inequivocabili segni della natura, i tre amici decisero di effettuare la solita pausa notturna, desiderando far riposare, oltre che i loro corpi esausti, soprattutto le stanche bestie. Per questo, come erano abituati a fare, allontanandosi dalla strada battuta per alcuni metri ed immergendosi nella zona boschiva situata sul suo lato destro, essi si diedero a cercare un posto appartato, dove poter riposare e ristorarsi in piena tranquillità.

Di norma, i tre amici non si allontanavano mai più di cento metri dalla strada maestra. Invece quella volta, essendo stati attratti dalla stupenda vegetazione locale, ne percorsero almeno cinquecento, intanto che si inoltravano nella sua parte più interna. Dopo i quali, essi smisero di andare oltre, poiché ritennero il luogo da loro raggiunto adatto anche per effettuarvi la sosta notturna. Allora la stanchezza, essendosi impadronita di loro tre durante il faticoso viaggio diurno, li spinse a consumare rapidamente la cena e a mettersi a dormire di buona voglia. Essi erano sicuri che il luogo appartato da loro scelto, gli avrebbe permesso un sonno sereno, come non gli era mai capitato prima. Ma la nottata sarebbe stata calma, come essi avevano pronosticato?

Nel cuore della notte, mentre i tre giovani e le bestie dormivano placidamente a cielo aperto e si davano ad un sonno profondo, incominciarono a farsi udire delle strane voci. Esse provenivano da una località non lontana, le cui coordinate non si lasciavano facilmente determinare. Il primo a percepirle all'orecchio fu Astoride, il quale in quel momento era alle prese con una leggera insonnia. Egli, non riuscendo a rendersi conto della loro natura, svegliò i suoi amici e li mise al corrente di quanto gli stava succedendo di sentire. Anzi, in quell'istante, tale misto di voci e di lamenti aveva cominciato ad intonare una specie di coro, che somigliava più ad una nenia lamentevole. Nel silenzio notturno, quella specie di canto funebre ben presto si diede ad espandersi nei dintorni cupo e mesto. In certi suoi tratti, esso infondeva nell’ascoltatore una sconcertante malinconia, fino a raggelargli l’animo. Inoltre, finiva per suscitargli una indefinibile sensazione di pacata rassegnazione, come quella che si riscontrava in certi riti misterici, fossero essi cruenti oppure incruenti.

Andando poi avanti tale salmodia che polarizzava la monotona atmosfera della notte, Iveonte, Francide e Astoride deliberarono di appurare di cosa si trattasse, non essendo intenzionati a disinteressarsene. Per questo intrapresero delle ricerche accurate, seguendo la provenienza del suo propagarsi, fino a quando non si trovarono di fronte al vero fenomeno del suo reale manifestarsi. Infatti, dopo aver percorso circa un miglio, i tre giovani si ritrovarono nei pressi del luogo da dove aveva origine quel sommesso canto corale. Esso, da quanto ebbero modo di apprendere, accompagnava un rito religioso, la cui natura si faceva ancora fatica a comprendere bene. Ad ogni modo, molto presto i tre giovani amici sarebbero venuti a conoscenza che quel rito prevedeva l’immolazione di vittime sacrificali, le quali erano costituite da bambini; né sarebbero mancate danze ed orge prettamente a sfondo sessuale. Adesso, grazie ad una splendida luna piena, che quella notte dominava ovunque nel cielo notturno, facendo impallidire la miriade di stelle, i tre giovani riuscivano a rendersi conto di come si presentava quel posto, nel quale si intravedeva uno strano movimento di persone. Per il momento, però, essi potevano avere solo dei vaghi sospetti dei fatti che vi si stavano svolgendo. Ciò, perché non erano in grado di raggranellare neppure qualche risicata notizia pertinente alla situazione, alla quale stavano assistendo da una certa distanza.

Il luogo era costituito da un’abbattuta circolare che aveva il raggio di venti metri, nel cui centro ci stava uno spesso rialzo del terreno di forma quadrata. Esso era interamente lastricato e somigliava all’aia che veniva costruita davanti alle fattorie, allo scopo di battervi il grano e altre graminacee simili al frumento. Quanto alle misure che lo riguardavano, fra esso e il resto del terreno, c’era un dislivello di un metro e vi si accedeva mediante cinque gradini alti venti centimetri l'uno. Ogni suo lato misurava cinque metri ed aveva un bordo di pietra alto e largo una trentina di centimetri. Nel mezzo del medesimo, si ergeva una struttura di pietra, la quale riproduceva un prisma regolare avente per base un triangolo equilatero. I suoi spigoli basali e quelli laterali misuravano tutti un metro; ma uno di quelli laterali era rivolto a ponente e la faccia opposta ad esso si presentava orizzontale alla piccola gradinata. Sulla sua base superiore, era stata apposta una lastra di granito rosa, il cui spessore era di tre centimetri. Quest’ultima, volendo essere pignoli, aveva uguale sia la forma che la grandezza.

Davanti a quegli elementi constatabili a vista d’occhio, non era difficile farsi una opinione in merito, come avvenne pure ad Iveonte e ai suoi amici. Costoro, tenendosi ben nascosti dietro degli alti cespugli che li coprivano quasi completamente, nonché osservando circostanze e movimenti senza farsi notare, alla fine trassero senza difficoltà le loro conclusioni. Secondo il loro parere, che era da accettarsi come sussistente, essi si trovavano di fronte ad una piccola setta religiosa, i cui adepti in quelle ore notturne erano impegnati in un rito sacrificale. Ma per il momento, si ignoravano del tutto tanto il contenuto quanto le finalità delle sue funzioni. Ma si può sapere di quale setta religiosa si trattava e di che tipo erano i sacrifici, che i loro seguaci offrivano alla loro divinità? Dal momento che ci è ignoto ogni particolare che concerneva l'una e gli altri, cerchiamo di capirci in merito almeno qualcosa. In questo modo, dedicandoci attentamente a tale comprensione, in seguito potremo seguire meglio l’evolversi della situazione, senza incontrare alcun genere di problemi.


Ebbene, nella città di Cirza, nella primavera di una trentina d’anni prima, aveva preso avvio un nuovo giorno. Ma esso, per il trentenne Cirzese di nome Ulipos non sarebbe stato identico a tanti altri che erano già passati. Egli ne stava per essere segnato in maniera significativa, siccome avrebbe lasciato dei segni indelebili sull’esistenza che gli restava ancora da trascorrere. Possiamo conoscere anche noi come mai sarebbe avvenuto un simile evento, che era da considerarsi indubbiamente strano? Certo che possiamo! Perciò tra poco apprenderemo ogni cosa su di esso, siccome lo seguiremo in ogni suo più piccolo dettaglio.

Nonostante il suo sonno della trascorsa notte avesse avuto un decorso del tutto asintomatico, ossia senza la presenza di alcuna agitazione e di nessun incubo, l’artigiano cirzese Ulipos, a causa di un mistero inesplicabile, si era svegliato con un venerdì in meno. Egli, infatti, non si era voluto più riconoscere come l'arrotino della sera precedente, attività che esercitava da un decennio. Invece, tutto a un tratto, aveva cominciato a considerarsi il sacerdote di Lusest. Si trattava di una divinità, della quale nessuno aveva mai sentito parlare. Il sedicente ministro del nuovo culto, invece, asserendo che esso era nato dalla sua illuminazione, gli aveva anche assegnato attributi e prerogative, le quali potevano essere unicamente il frutto della sua evidente infermità mentale. Stando alle sue affermazioni, il dio, che aveva operato in lui un radicale cambiamento spirituale, era la divinità della rigenerazione, grazie alla quale la vita animale e quella vegetale erano in grado di sopravvivere sulla terra. A suo dire, il divino Lusest permetteva in seno alla natura il ricambio delle forze primigenie, sia di quelle che appartenevano al regno animale sia di quelle che facevano parte del regno vegetale. La qual cosa avveniva mediante i flussi rigenerativi che egli stesso emanava e faceva propagare in ogni angolo della superficie terrestre. I caldi ed impetuosi venti australi, poiché rappresentavano le sue braccia solerti, li cospargevano ovunque e permettevano pure la realizzazione dei suoi disegni. I quali miravano a perseguire il rigoglio nelle piante e la fecondità negli animali; tra questi ultimi, era compreso anche l’uomo. Secondo Ulipos, soltanto da una lussureggiante vegetazione si potevano ottenere dei campi fruttiferi; come pure unicamente da una generazione feconda si potevano avere delle coppie prolifiche. Così, stando a quelle sue due prerogative, il dio Lusest poteva altresì essere invocato parimenti con i due seguenti appellativi: il Rigeneratore e il Fecondatore.

Adesso, però, cerchiamo di apprendere nella maniera migliore i principi basilari su cui si fondava la religione di Ulipos e in quale modo essa era tenuta ad attuarli nella piccola comunità religiosa da lui fondata. Comunque, i suoi pochi componenti formavano più un gruppo settario, che non una confessione religiosa vera e propria. Per tale ragione, ogni volta che ci riferiremo al movimento del sedicente sacerdote di Cirza, dalle pretese di essere un'autentica religione, non dimenticheremo che si trattava di un puro settarismo religioso, aconfessionale e privo di un proprio credo, per cui si dava soltanto pochi precetti. Essi, lungi dall’essere di carattere dottrinale, in forma del tutto semplicistica, tendevano invece a dare appena una scozzonatura ai nuovi affiliati, circa i loro compiti e i loro doveri nell’ambito della setta. Nella loro infarinatura religiosa, logicamente, era compresa la conoscenza della realtà del dio Lusest e di ciò che egli pretendeva dai suoi fedeli. A proposito delle sue esigenze, secondo quanto Ulipos andava predicando, il Rigeneratore, ossia il dio Lusest, perché adempisse appieno tale sua funzione, aveva bisogno di essere ritemprato nella sua natura divina. Un rinvigorimento di quel tipo poteva avvenire in lui, soltanto se gli si permetteva di abbeverarsi al sangue rutilante di teneri virgulti umani, mentre zampillava da una carotide recisa. Negli stessi istanti, gli affiliati presenti dovevano esclamare per ogni immolazione: "Divino Lusest, generosamente ti offriamo il suo preziosissimo sangue, affinché tu renda rigogliosa l’intera vegetazione della nostra terra!" Da un fatto simile conseguiva che, per appagare la divinità, occorreva che gli immolassero ogni notte di plenilunio tre fanciulli di età inferiore ai cinque anni. Anche in qualità di Fecondatore, il dio Lusest, ad evitare di fallire nella sua nuova funzione, aveva bisogno che gli dedicassero, durante la stessa notte, un rito di carattere sessuale. Esso consisteva nella deflorazione di tre adolescenti vergini, dopo essere state rapite per strada. In questo caso, gli adepti presenti dovevano gridare per ciascuna di esse: "Divino Lusest, ti offriamo la sua verginità, perché tu renda feconda l’umanità!"

Ritornando adesso a quel lontano mattino di primavera, l’arrotino Ulipos, quando si era svegliato, disconoscendo sé stesso come tale, si era subito creduto il sacerdote di Lusest. Perciò, rinnegando la moglie e i suoi quattro bambini, aveva cominciato a fare proseliti per fondare la sua nuova religione, ossia quella che gli era stata ispirata dalla divinità. La quale, come egli affermava, lo aveva anche prescelto quale suo devoto ministro. A quel suo profondo cambiamento, a cominciare dai suoi familiari, tutti si erano meravigliati enormemente e non riuscivano a capacitarsi come mai gli fosse successa una cosa simile. La maggioranza di loro, però, vedendolo accanirsi a fare proselitismo, senz’altro lo aveva considerato uscito di senno. Soltanto una loro esigua parte si era mostrata disposta a credergli e ad abbracciare la sua religione, attraverso la prevista cerimonia iniziatica. L'iniziazione aveva avuto il suo esordio, solo dopo che erano diventati una trentina i primi neofiti, i quali prendevano il nome di lusestidi. In verità, Ulipos non mirava ad una religione di massa, per cui aveva stabilito che essa doveva essere limitata ad un ristretto numero di persone di sesso maschile, i quali non superassero le cento unità ed avessero una età compresa tra i trenta e cinquant’anni. Invece non era tenuto a rispettare tali limiti di età il solo sacerdote del dio Lusest, la cui carica durava vita natural durante.

Ogni volta che si raggiungeva il centinaio di adepti, visto che tra di loro c'era un continuo ricambio, si smetteva di cercare nuovi proseliti. Infatti, era prevista l’integrazione del numero, quando qualche neofito superava i dieci lustri di età e si ritirava a vita privata. Nel qual caso, egli cessava di essere attivista della setta; però continuava ugualmente a collaborare con gli adepti nella ricerca delle vittime sacrificali. Ad ogni modo, come prevedeva tale religione, alla persona esclusa veniva vietato di prendere ancora parte ai due riti religiosi. Quanto alla località dello svolgimento dei loro due riti sacri, egli aveva prescelto la vasta boscaglia che si trovava a sud della città di Cirza, cioè la zona che adesso era stata raggiunta da Iveonte e dai suoi due amici. Dopo che vi aveva fatto abbattere gli alberi, ricavandone uno spazio diboscato a forma di cerchio, aveva invitato i suoi adepti a costruire nel mezzo di esso la piattaforma quadrata già a noi nota, al centro della quale era riportata l’ara triangolare. Le tre figure geometriche piane, ossia il cerchio, il quadrato e il triangolo equilatero, rappresentavano rispettivamente il tempio, la setta e la divinità. Il cerchio costituiva il luogo sacro, che racchiudeva in sé la totalità degli adepti, al fine di metterli a contatto con il dio. Il quadrato simboleggiava l’insieme dei devoti, che lo adoravano e non esitavano a fare quadrato intorno alla loro divinità. Il triangolo rappresentava il loro dio. Egli, dopo aver fatto proprie le esigenze dei suoi fedeli, le appagava con infinito amore.

A detta di coloro che dimostravano un’aperta avversione per la religione predicata da Ulipos, il tributo di sangue richiesto dal dio Lusest era molto gravoso. Invece potevano passare sotto silenzio il rapimento e lo stupro, i quali venivano perpetrati ai danni delle adolescenti vergini, di cui si rendevano responsabili i lusestidi. Difatti esse, prima di essere deflorate, in un certo senso venivano convinte a mettersi al servizio del dio e, nel caso ne uscissero incinte, a fargli dono del loro nascituro, come vittima dei futuri sacrifici. In cambio della loro disponibilità, da parte del fondatore della setta, ad ogni ragazza venivano fatte le seguenti due promesse: prima, le era garantito che non avrebbe mai contratto malattie; seconda, le veniva assicurato che il dio Lusest avrebbe ininterrottamente vegliato sui successivi suoi figli, preservandoli da sciagure e da malanni di ogni genere.

Riguardo alla logica matematica del pensiero religioso di Ulipos, per ogni bambino immolato alla divinità, il quale veniva chiamato lusestino, doveva esserci nella medesima notte il concepimento di un’altra creaturina. Quest’ultima era destinata a diventare in avvenire una vittima sacrificale. La qual cosa giustificava la parità numerica che veniva fuori dai due riti sacrificali, ossia fra le tre adolescenti deflorate, denominate lusestile, e la terna di bambini sacrificati. I due riti, però, non si svolgevano in contemporaneità; ma quello dello sverginamento delle pubescenti fanciulle doveva seguire quello inerente allo sgozzamento degli innocenti pargoli. Inoltre, essi andavano celebrati sotto il chiarore della luna piena, siccome il biondo satellite lunare era considerato la dimora del dio Lusest. Secondo il sacerdote Ulipos, il suo sguardo benigno riusciva meglio a prendere viva parte alle due cerimonie religiose, quando la luna raggiungeva il massimo della sua grandezza e del suo splendore, ossia durante il plenilunio. Il quale coincideva con il risveglio del dio. I tre lusestidi addetti allo scannamento delle piccole vittime, venivano denominati oblatori; invece gli altri tre lusestidi, i quali avevano il compito di deflorare le adolescenti fanciulle, prendevano il nome di defloratori.

In merito, si vociferava che in un tempo alquanto remoto una ragazza, la quale si chiamava Predilla e in passato era stata una lusestila, dopo avere partorito un bel maschietto, si era rifiutata di cedere il proprio bambino alla setta che lo reclamava. Allora i seguaci del dio, oltre a sequestrarle il figlio di due anni che consideravano un frutto della divinità da loro adorata, avevano voluto punirla con severità. Dopo averla strangolata, avevano reso il suo corpo monco degli arti e della testa, abbandonando alla corrente del fiume le sue cinque parti dissezionate. Quell’episodio raccapricciante in seguito non era rimasto segregato nel dimenticatoio; anzi, da allora in poi, per volontà di Ulipos, esso era stato fatto divulgare appositamente tra le adolescenti che venivano prescelte come lusestile. Secondo lui, venendo l'episodio a suscitare in loro molto spavento, prima di essere tentata di commettere lo stesso errore di Predilla, ognuna di loro si sarebbe ben guardata dal farlo a proprie spese. Perciò mai avrebbe avuto il coraggio di rifiutarsi di mettere il proprio bambino a disposizione della loro setta religiosa.


A questo punto, possiamo riprendere la nostra storia, ripartendo da dove eravamo arrivati e ritornarcene dai nostri impavidi giovani. Li avevamo lasciati, mentre cercavano di rendersi conto di ciò che stava per succedere in mezzo all’abbattuta. In quel luogo, adesso essi potevano scorgere degli strani movimenti da parte di persone incappucciate, le quali rappresentavano i lusestidi della setta.

Ebbene, avendo smesso da poco di inneggiare alla loro sacra divinità, poiché con gli inni essi manifestavano la loro devozione e la loro fede, il gruppo dei fedeli, ciascuno dei quali reggeva una torcia accesa, si andò a sistemare in cerchio intorno alla struttura quadrata. Questa, come abbiamo già visto, occupava la posizione centrale dello spiazzo circolare.

«Secondo te, Iveonte,» Francide domandò all’amico «chi possono essere quegli uomini che hanno le teste nascoste e che cosa adesso si preparano a compiere realmente? Il ritmo dei loro bongos pare che preludano ad un rito funebre o a qualcos’altro di simile; ma sempre con tocchi funerei. Non lo credi anche tu, amico mio?»

«Se non mi sbaglio, Francide, forse ci troviamo di fronte ad una setta religiosa, la quale si prepara a celebrare dei riti alla loro divinità, proprio come è prescritto dalla loro religione. Se stiamo attenti, tra poco ne sapremo qualcosa di più, che ci consentirà pure di renderci conto se è il caso di intervenire contro i settari oppure di lasciarli in pace, mentre portano a compimento il loro rito religioso. Ovviamente, il nostro intervento sarà necessario ed obbligatorio, nel caso che verremo a trovarci di fronte ad un sacrificio umano. Infatti, è nostro dovere soccorrere una persona, ogni volta che è in gioco la sua vita!»

«Sono d’accordo anch’io con Iveonte,» aggiunse Astoride «per quanto riguarda la sua supposizione, secondo cui essi costituiscono una setta religiosa e si avviano alla celebrazione di un loro rito. Ma se ora siamo all’oscuro della sua natura, presto la conosceremo senz'altro. Solo allora potremo renderci conto se siamo obbligati ad intervenire oppure no.»

Proprio in quell’attimo, i tre giovani scorsero tre uomini che mostravano un tronco poderoso, grazie alla loro altezza e alla loro muscolatura possente. Essi avanzavano in direzione della struttura quadrata, che faceva da piattaforma all’altare. Si trattava degli oblatori, i quali erano incaricati di sgozzare i piccoli, dopo aver ricevuto il trinciante dalla mano dello stesso sacerdote del dio. Ognuno reggeva tra le braccia un bambino di tenera età, che si presentava fasciato fino alla base del collo; ma aveva anche la bocca coperta da una fascetta di seta gialla, che gli era stata legata dietro la nuca. Tali persone, dopo aver superato i gradini ed aver raggiunto ciascuno uno spigolo laterale dell’ara triangoliforme, vi adagiarono sopra le tre piccole vittime, poiché rappresentavano le preziose offerte della setta alla divinità da loro adorata. Quando infine ebbero sistemati i loro corpi in modo che ogni testa occupasse l’estremità di una punta del dossale, i tre oblatori rimasero immobili nei rispettivi posti da loro occupati. Essi se ne restavano in piedi e con le braccia conserte, ma erano in attesa di svolgere il loro ruolo specifico.

Qualche minuto più tardi, invece, si vide avanzare verso la piattaforma centrale anche un uomo anziano, il quale doveva aver superato da poco i settant’anni. Egli, che mostrava la chioma e la barba completamente di colore argento, nonché reggeva un trinciante che era di oro zecchino, dopo essersi avvicinato all’altare, si diede ad esclamare forte: "O divino Lusest, anche in questa nuova notte di plenilunio siamo qui per offrirti in sacrificio questi tre puri pargoletti, il cui sangue ti ridarà il solito vigore eccezionale. Esso ti è indispensabile per rendere rigoglioso il mondo vegetale della natura e per permettere la vita sulla terra. Perciò, tutti insieme, ti preghiamo di gradire questi nostri doni come le altre volte e di ricavarne il massimo profitto!"

Recitata l’orazione, l’uomo consegnò il proprio trinciante aureo al primo forzuto dell'offertorio, ordinandogli nel medesimo tempo: "Ti ordino, oblatore, di dissanguarlo." Al suo comando, invece, i lusestidi, che circondavano l’altare, si misero ad esclamare unanimi: "Divino Lusest, ti offriamo il suo sangue prezioso, affinché tu renda rigogliosa l’intera vegetazione della nostra terra!"

Alle prime avvisaglie di ciò che stava per capitare ai tre bambini, Iveonte intervenne con tempestività, armandosi subito del suo infallibile arco. Così, in un attimo, non esitò a far scattare una saetta contro colui che era sul punto di tagliare la gola alla piccola vittima, la quale si presentava immobilizzata a causa delle fasce che lo avvolgevano molto strettamente. Poiché il dardo andò a conficcarglisi in una tempia, il tagliatore di gola stramazzò a terra morto, producendo un bel tonfo, tra lo stupore di tutti i lusestidi presenti. Dopo anche gli altri due oblatori subirono la stessa sorte, nonostante non si fossero ancora accinti a fare del male alle altre due vittime da loro tenute rigorosamente in custodia. Allora l’uccisione anche degli altri due tagliagola apportò molto sbigottimento tra i fanatici seguaci della setta. Essi adesso si andavano domandando pensierosi chi mai fosse stato a colpirli con una precisione incredibile. Poco più tardi, però, essi videro piombare in mezzo a loro Iveonte, Francide e Astoride. Costoro, dopo aver superato indisturbati la fila dei lusestidi, i quali formavano un girotondo intorno alla piattaforma su cui si trovava l’altare, incominciarono ad avanzare abbastanza collerici verso il loro capo. Quando infine i tre adirati amici furono a tre metri dall'altare, Iveonte, mostrando ribrezzo per quanto stava accadendo in quel posto, si diede a gridare all'attempato sacerdote Ulipos:

«Non sai che i sacrifici umani rappresentano un atto nefando, il quale può fare solo disonore alla specie umana? Chi vi ricorre per ingraziarsi una divinità non può essere che un folle e un blasfemo! Così pure la divinità, che li pretende dagli uomini, può essere solamente malvagia! Siccome i miei amici ed io siamo contro l’immolazione di vittime innocenti, sentiamo l’obbligo di venire in loro soccorso e di distruggere le sette che si danno a tali cruenti sacrifici. Perciò, se volete salvarvi da noi, dovete fare ammenda delle vostre colpe passate ed impegnarvi a sciogliere, seduta stante, la vostra setta di feroci sanguinari! Adesso, se siete d'accordo, sospendete la funzione e andate via da questo luogo!»

«Invece tra poco sarete voi a pentirvi, giovani sacrileghi, per aver profanato spudoratamente questo luogo sacro!» gli rispose l'adirato Ulipos «Vi garantisco che i vostri occhi non vedranno più la luce del nuovo giorno che sta per nascere, poiché il divino Lusest senza meno vorrà vendicarsi dell’affronto che adesso gli state facendo!»

Terminato di proferire le sue severe minacce contro i tre giovani, ai quali esse giunsero come parole al vento, il sacerdote si rivolse ai settari presenti, urlando forte: "Devoti adoratori del dio Lusest, intervenite all'istante contro i profanatori del nostro tempio, i quali con protervia hanno perfino sfidato la nostra divinità! Su, straziate i loro corpi fino a renderli irriconoscibili perfino dalle loro madri! Dopo, invece, li daremo in pasto agli avvoltoi e agli altri animali rapaci che circolano in questa selva. Sono convinto che essi vorranno cibarsi delle loro carni con sommo gradimento! Sappiate che il nostro dio combatterà al vostro fianco!"

All’invito vibrante del loro capo religioso, gli accerchianti lusestidi, fremendo di sdegno, con tempestività brandirono le loro spade e si scagliarono contro i tre giovani amici. Essi, però, essendo stati più tempestivi di loro, si erano fatti trovare già pronti a riceverli. Per questo l’assalto dei loro nemici non li scompose per niente; né scombussolò la loro compagine triangolare. Infatti, volgendosi le spalle, essi si erano disposti in modo da formare un triangolo equilatero, duellando sui suoi tre vertici. Così, a mano a mano che i settari si presentavano facinorosi ed aggressivi, dandosi imperterriti ai loro pericolosi affondi, venivano fulminati, prima ancora che riuscissero ad allungare le lame delle loro spade nella direzione da loro voluta. Continuando poi i tre giovani a combattere in quel modo, i rabbiosi assalitori, uno dopo l'altro, venivano visti cadere ai loro piedi stecchiti e vomitando sangue. Ma poiché il luogo dove essi lottavano continuava a riempirsi di cadaveri, i tre amici erano costretti ogni volta a cambiare posto, allo scopo di avere più spazio libero e di esprimersi al meglio delle loro possibilità.

Alla fine, anche l’ultimo degli arroganti aggressori perì miseramente sotto i loro colpi micidiali. Perciò i tre giovani si erano convinti che, dell’intera setta, restava da far fuori solamente il loro capo carismatico. Invece c’era stata chi, precedendoli, lo aveva eliminato, mentre essi si davano da fare a falcidiare i suoi seguaci. Infatti, quando essi decisero di rivolgersi al sacerdote per invitarlo a meditare su quanto aveva provocato, lo scorsero morto ai piedi dell’altare. Accanto al suo corpo esanime, si trovava ancora l’adolescente fanciulla, la quale rabbiosamente lo aveva ammazzato. Ella aveva adoperato il medesimo trinciante dorato che doveva servire a scannare i tre innocenti bambini. La ragazza, intanto che il sedicente sacerdote era intento a seguire il combattimento dei suoi uomini contro i tre intrusi portaguai, aveva approfittato della sua momentanea distrazione. Così, dopo averlo raggiunto rapidamente sulla piattaforma, aveva raccolto da terra il trinciante che serviva a scannare la terna dei piccoli lusestini. Poi, servendosi di esso, gli aveva vibrato un forte colpo all’occipite, spezzandogli di netto l’osso cervicale e procurandogli anche una morte immediata.

Quando si avvicinarono alla ragazza, Iveonte e i suoi amici appresero da lei che si chiamava Leufa e che era stata rapita con altre due adolescenti per essere deflorate nella seconda parte del rito. Allora essi, dopo averla rassicurata che aveva fatto bene ad agire in quel modo, invitarono anche le altre due compagne di sventura a farsi avanti. Dopo consegnarono i tre bambini alle ragazze, pregandole di riportarli alle rispettive madri. Naturalmente, non le rimandarono a casa a quell’ora di notte; ma le fecero dormire nello stesso posto dove essi si erano accampati poco prima per riposare. Giunto poi il mattino seguente, le tre adolescenti scampate al pericolo, dopo aver ringraziato vivamente i loro benefattori ed averli salutati con un bacio sulla guancia, si misero in cammino verso la loro città, la quale non poteva essere che Cirza. Allora anche i nostri tre prodi eroi ripresero il loro viaggio, ma dirigendosi verso tutt'altra direzione, la quale risultò quella opposta.