193-IL RACCAPRICCIANTE RACCONTO DI LIASEN

Ad ovest di Dorinda, oltre i confini dell'Edelcadia, c'è una regione che viene chiamata Durkoia. Per raggiungerla, bisogna percorrere una fascia di territorio, dove si alternano zone paludose e boschive, frapposte a rilievi non eccessivamente elevati. La quale è lunga cento miglia e larga trenta; però non appartiene a nessun popolo. La mia regione, invece, è situata in mezzo ad una valle meravigliosa; ma prima occorre valicare la modesta zona montuosa, che la separa dalle terre orientali. Si tratta della mia terra, che è la terra di tutti i Durkoiesi, la terra dove il mio popolo si tramanda da millenni la cultura, la religione, le tradizioni, gli usi e i costumi. Ai quali beni e valori la mia gente si sente molto legata, anche se oggi è obbligata a farne a meno da esseri bestiali. I miei conterranei giammai avrebbero rinunciato ad essi, se non ci fossero stati costretti dai barbari Katuros. Costoro, da oltre mezzo secolo, dopo avere invaso il nostro sacro suolo ed averci sottomessi con la forza e con la prepotenza, si diedero a trattarci come se fossimo degli animali. Prima del loro arrivo nella Durkoia, il mio popolo era libero di fare ciò che desiderava e di esprimersi come il cuore gli dettava, senza dover rendere conto a nessuno. Neppure a qualche divinità, se vi si fosse stabilita!

Volendo ripercorrerne la storia degli ultimi venti anni, ossia da quando i Katuros iniziarono a tiranneggiare la mia gente, già a quel tempo, mio padre Esippo ne era il capo indiscusso. Egli, che era succeduto da un triennio al padre Galber, era molto benaccetto alla totalità dei Durkoiesi, poiché essi lo amavano e lo stimavano per la sua bontà e per la sua saggezza. Per nostra buona ventura, fino allora eravamo stati risparmiati dalle guerre sanguinose, non essendoci altri popoli finitimi che potessero costringerci a farle, pur senza il nostro consenso. Anzi, non sapendo neppure che cosa esse significassero, noi eravamo sprovvisti di ogni tipo di armi, all'infuori degli archi, che adoperavamo esclusivamente per cacciare. Perciò i Durkoiesi avevano conosciuto nei tempi andati soltanto la serenità, la laboriosità e la prosperità. Riguardo all'assenza di altri popoli nelle terre vicine alla nostra regione, ce lo faceva supporre il fatto che non si era mai sentito parlare di loro. Inoltre, non era stata vista altra gente giungere dalle zone circostanti la nostra terra e presentarsi a noi, allo scopo di farsi conoscere ed allacciare con noi dei rapporti amichevoli, magari anche di tipo commerciale e artigianale.

In seguito le cose cambiarono per il mio popolo, il quale, a quell'epoca, contava circa cinquantamila abitanti e viveva in un unico villaggio. La vita di una volta, ossia quella prospera, laboriosa e serena, ad un tratto gli venne meno ed esso dovette andare incontro ad un'altra realtà assurda ed irrisolvibile, a causa di mostruosi esseri allogeni giunti da zone sconosciute. Mi riferisco alle animalesche creature, alle quali vi ho già accennato prima e di cui vi ho riferito anche il nome, ossia agli spietati Katuros. Essi gliela imposero con la violenza e senza dargli spiegazioni di alcun genere. In numero di mille, tali esseri erano sbucati dalle terre del ponente ed avevano marciato direttamente sul nostro villaggio, ma senza distruggere le nostre fiorenti colture. Volendo chiarire meglio le cose, se essi non erano ricorsi alla loro distruzione, una ragione c'era e il mio popolo ebbe a conoscerla subito dopo il loro arrivo. Infatti, dal momento che avevano deciso di vivere in mezzo ai Durkoiesi, ma come dominatori parassiti, cioè a loro spese, non gli sarebbe stato utile privarli del modo di procacciarsi gli alimenti per sopravvivere, dovendo servire a sfamare sé stessi e coloro che stavano per sottomettere. Così, dopo la loro invasione, il mio popolo dovette faticare pure per tali esseri obbrobriosi, se intendeva assicurarsi la sopravvivenza a lungo termine.

L'arrivo dei Katuros tra la nostra gente, quindi, non fu dei più felici, anche se esso, almeno all'inizio, suscitò tra la nostra gente unicamente parecchia curiosità. Essa non aveva mai visto degli esseri animaleschi simili. I quali, per certi aspetti, somigliavano più alle bestie; per altri aspetti, invece, manifestavano dei modi di comportamento propri della natura umana. Di preciso, essi giunsero nel nostro villaggio verso il tramonto. Colui che li capeggiava domandò ad un nostro conterraneo dove poteva trovare l'abitazione del suo capo. Dopo che ne ebbe ricevuto l'indicazione esatta e si fu fatta l'idea di come arrivarci, vi si diresse speditamente, senza farsi accompagnare da lui. Per il momento, però, era sua intenzione parlamentare con mio padre e chiarirgli come, dal giorno successivo in poi, sarebbero dovute andare le cose nel nostro villaggio e quali sarebbero state le relazioni del nostro popolo con loro. A dire il vero, non tutti i Katuros si presentarono alla nostra casa; ma fecero visita al mio genitore soltanto colui che li guidava e una decina di loro, i quali rappresentavano la sua scorta. Nel contempo, gli altri loro simili si erano dati a percorrere le vie del villaggio, mostrando verso la popolazione un atteggiamento del tutto pacifico.

Quando mio padre venne fuori dalla sua capanna, per essere stato chiamato per nome dal capo dei Katuros, il quale lo aveva anche invitato ad uscire, costui gli si diede a dire:

«Esippo, mi chiamo Burson e sono alla guida dei miei mille Katuros. Sono venuto a parlamentare con te, poiché ho saputo che sei il capo dei Durkoiesi. Per questo, se non ti dispiace, ho stabilito che il tuo popolo apprenda attraverso la tua autorevole persona le cose che voglio fargli conoscere. Sei d'accordo con la decisione da me presa oppure hai da ridire qualcosa su di essa? Dimmelo francamente, per favore!»

«Certo che lo sono, Burson, visto che essa non lede i diritti di nessuno! Ammetto anche che una prassi diversa non sarebbe stata per niente ortodossa e non avrebbe ottenuto i risultati sperati. Ma ora vorrei sapere qual è stata la ragione che ti ha indotto a presentarti a me, visto che qualcuna ce ne sarà stata senza meno. Così, dopo averla appresa dalle tue labbra, noi due potremo intenderci meglio nel tempo avvenire.»

«Esippo, siccome io e il migliaio dei miei uomini passavamo da queste parti, subito ci siamo resi conto che voi Durkoiesi, in qualità di infaticabili lavoratori come vi abbiamo stimati, potrete pure cacciare e lavorare la terra per tutti noi. Comportandovi in questa maniera, ci procurerete sia il cibo che ci abbisogna al momento attuale sia quello che ci occorrerà per tutto il tempo futuro! Alla fine, vedrai, voi e noi vivremo tutti appagati e felici. Non sembra bella anche a te la nostra iniziativa?»

«Invece, mio caro Burson, il vostro errore è stato quello di non averci chiesto se pure noi eravamo d'accordo con questa vostra bislacca pretesa, la quale non può stare né in cielo né in terra. Ne deduco, quindi, che avete preferito fare i conti senza l'oste, come si suol dire dalle nostre parti! Mi dispiace deludervi, ma non ci sta assolutamente bene questa vostra pensata, poiché la trovo degna dei peggiori bighelloni, che non hanno nessuna voglia di lavorare, neppure per sfamarsi!»

«Perché avremmo dovuto domandarcelo, Esippo, se siamo abituati a prenderci ogni cosa che desideriamo, con o senza l'altrui consenso? Per questo, se vuoi evitare dei guai assai terribili alla tua gente, ordina ad essa di accoglierci amichevolmente e di trattarci con i guanti, proprio come ospiti serviti e riveriti. Altrimenti, nel caso che osasse rifiutarsi di essere gentile e generosa nei nostri confronti, se ne pentirebbe con molta amarezza! Ecco come si presenterà, da oggi in avanti, la situazione per tutti i Durkoiesi, compresi il loro capo e la sua famiglia!»

«Se invece non volessi darti retta, Burson, cosa mi succederebbe? Anzi, sai cosa ti consiglio in merito a questa faccenda? Invita i tuoi fannulloni Katuros a rimboccarsi le maniche, se vogliono godere dei frutti della terra e della selvaggina, la quale si ottiene soltanto con la caccia. Nessuno vi ha mai detto che è possibile procurarsi il cibo necessario per sfamarsi unicamente con le proprie braccia e con il sudore della propria fronte? Adesso che hai conosciuto anche la mia risposta, tu e i tuoi simili scansafatiche potete pure togliere il disturbo, facendomi ritornare al mio interrotto lavoro. Stavo appunto insegnando al mio primogenito qui presente come si usa l'arco per cacciare con profitto, sebbene egli abbia appena dieci anni! Tu invece dovresti farlo con i tuoi Katuros!»

Difatti, quando mio padre era stato chiamato per nome dal capo di quegli esseri animaleschi, era venuto fuori dalla capanna in compagnia di suo figlio più grande; mentre gli altri due fratelli più piccoli, i quali avevano l'uno otto anni e l'altro sei, erano rimasti a giocare nel cortile interno. Nel quale, entrambi venivano rigorosamente sorvegliati da mia madre, perché non si facessero male per negligenza oppure a causa della loro immaturità.

«Esippo, se è questo il tuo responso alla mia ragionevole richiesta, vorrà dire che ci obbligherai a prenderci con la forza ogni cosa, di cui abbisogniamo oggi e ci necessiterà in avvenire. Inoltre, prima di congedarci da te, vogliamo dimostrarti in quale altro modo noi possiamo nutrirci, anche se evitiamo di farlo solo per quieto vivere. Ma a tale tipo di nutrizione ricorriamo, soltanto quando gli esseri umani non aderiscono alle nostre proposte e si rifiutano di procurarci il cibo che gli abbiamo gentilmente richiesto. Né mi importa se, dopo la dimostrazione che stiamo per darvi, ce ne vorrai tantissimo, visto che lo hai voluto tu!»

Dopo avere usato tale linguaggio, Burson, con un cenno del capo, fece intervenire tre dei suoi Katuros. Due di loro immobilizzarono mio padre per non farlo intervenire; mentre il terzo si avventò sul maggiore dei miei fratelli, che gli era al fianco. Così, prendendolo per il collo con la mano sinistra dalla parte della cervice, egli lo privò di ogni possibilità di scappare. Subito dopo, adoperò la mano destra per affondargli gli artigli nel petto e strappargli il cuore. Ma la sua crudeltà non terminò qui, poiché il disumano Katuros, dopo aver lasciato cadere per terra esangue il mio germano, ne divorò l'organo vitale in pochi bocconi. Quasi si fosse trattato di un pezzo di arrosto appena tolto dallo spiedo! Il truce spettacolo, come potete immaginare, si dimostrò orrendo ed impressionante per il mio sventurato babbo, per cui, a quella scena terrificante, il suo viso divenne terreo. Ma a rendergli l'esistenza più insopportabile, fu il sangue del figlio, il quale gli usciva a fiotti dal petto e lordava il Katuros nelle parti confinanti con la bocca. Da parte sua, Burson, pur scorgendo mio padre immerso nella peggiore afflizione che potesse esistere, oltre che nella disperazione più profonda ed insostenibile, lo stesso non si astenne dal fargli presente:

«Esippo, adesso hai appreso in quale altro modo i Katuros sono soliti cibarsi, quando gli appartenenti al genere umano non gli procurano un diverso tipo di cibo! Al riguardo, ti schiarisco le idee. Noi siamo in mille e ciascuno abbisogna di cinque cuori umani al giorno per soddisfare il proprio fabbisogno giornaliero. Perciò, Durkoiesi, fatevi bene i conti, con o senza l'oste, prima di decidere di ricusare la nostra offerta!»

Avvenuto quel primo incontro, il quale aveva segnato duramente la mia famiglia, mio padre si convinse che non era possibile ribellarsi a quegli esseri dotati di un corpo così agguerrito, nonostante il loro numero fosse assai inferiore a quello dei Durkoiesi. Inoltre, gli abitanti del villaggio non erano affatto dei guerrieri, per cui giammai avrebbero potuto sperare nella vittoria. Alla fine, considerato il problema da tutte le angolazioni possibili, da parte di mio padre e del suo popolo, si addivenne all'amara decisione di capitolare. Per la verità, durante i primi cinque anni di dominazione che gli invasori imposero alla nostra gente, non mancarono saltuariamente dei casi di ribellione, da parte dei Durkoiesi che se ne mostravano insofferenti. Ciascun ribelle riottoso, però, fu sempre punito con l'estirpazione del cuore dal suo petto. Il quale servì come pasto al Katuros che aveva ricevuto l'ordine di eseguirla, effettuandola con grande famelicità alla presenza dei suoi familiari.

Un giorno due gemelli del nostro villaggio, essendo a conoscenza che le frecce non riuscivano a trapassare la pelle dei nostri invasori, dopo che il loro fratello maggiore era stato ucciso dai Katuros nel modo che erano abituati a fare, decisero di vendicarsi, ricorrendo ad un espediente singolare. Siccome in passato avevano scoperto che il secreto della corteccia di una pianta a loro nota si dimostrava molto infiammabile, essi pensarono di servirsene per punire colui che aveva divorato il cuore del loro caro consanguineo. Essi avrebbero cercato di sorprenderlo alle spalle, mentre l'uno reggeva un recipiente pieno di tale secreto e l'altro era provvisto di una fiaccola accesa. Il loro piano era quello che adesso vi riferisco. Nello stesso tempo, intanto che il primo gli avrebbe versato sulla schiena il liquido infiammabile, il secondo gli avrebbe fatto prendere fuoco, accostando ad esso la fiamma della sua fiaccola. Ebbene, con tale espediente, i due gemelli raggiunsero il loro scopo, provocando la morte del Katuros. Ma anch'essi furono presi e, qualche minuto dopo, subirono la stessa sorte del defunto fratello.

Si era già al sesto anno di dominazione dei nostri nemici, quando venni alla luce anch'io. Allora i miei genitori, essendo una femminuccia, mi presero subito a cuore, preferendomi perfino ai miei fratelli maggiori, i quali oramai erano diventati degli adolescenti molto irrequieti e disubbidienti. Per nostra fortuna, gli scimmioni che ci dominavano con il terrore, essendo ermafroditi, non avevano esigenze di tipo sessuale. Il qual fatto non faceva correre alle donne durkoiesi il rischio di stupro da parte loro, peggiorando ancora di più la nostra già grave situazione. Difatti nel nostro villaggio esso veniva scongiurato, grazie all'ermafroditismo dei Katuros, il quale non sarebbe mai venuto meno. In seguito, però, da parte degli odiosi Katuros, oltre alla già terribile punizione dell'asportazione del cuore, si aggiunse un altro modo di farci soffrire, il quale si rivelò peggiore della violenza carnale. Considerato in termini di vite umane, esso sarebbe risultato più falcidiante di una mannaia, poiché si dava a decimare un numero impressionante di donne, le quali venivano scelte tutte fra quelle che erano in menopausa. Adesso vi racconto in che modo tali donne anziane del nostro popolo venivano fatte morire dai nostri dominatori e da quando quella usanza era invalsa nel nostro villaggio a loro discapito. Anzi, per prima cosa, comincio a farvi presente quando e perché essa vi si instaurò. Così apprenderete in simultaneità di che cosa effettivamente si trattava.

Avevo compiuto da un mese il mio primo anniversario, quando Burson, durante la sua ennesima visita al mio genitore, la quale ebbe ad esserci nel primo pomeriggio, gli dichiarò:

«Esippo, voi Durkoiesi dovrete sottoporvi ad un nostro capriccio. Non ti nascondiamo che esso ci darà un inimmaginabile godimento. Si tratta di un nostro ghiribizzo, che non potete rifiutarci; anzi, noi non siamo disposti a rinunciarci. Naturalmente, sarà molto meglio per voi, se anche questa volta cederete al nostro desiderio senza rivoltarvi. In caso contrario, conosci già quale spettro di morte incomberà sul tuo popolo!»

«Posso sapere, Burson, che cosa adesso vi passa ancora per la testa? Oramai è consuetudine che, dopo avergli offerto dei succulenti pasti, bisogna anche trovare il modo di divertire l'ospite! Non è forse vero che l'avete pensata in questo modo? Spero almeno che il suo divertimento non costi ai Durkoiesi un nuovo oneroso sacrificio!»

«Se così fosse, Esippo, cambierebbe forse qualcosa per voi? Non lo credo affatto, dal momento che voi esistete unicamente per accontentarci in tutto! Per intanto, a buon ragione, ho voluto rammentarti come stanno realmente le cose tra noi e il tuo popolo!»

«Non lo nego, Burson. Ma per favore sputa quest'altra vostra richiesta velenosa, la quale di sicuro non rappresenterà niente di buono per la mia gente: ne ho il presentimento!»

«Ogni decade, Esippo, subito dopo che è spuntata l'alba, dovrete metterci a disposizione una donna in menopausa, la quale non abbia superato i settant'anni di età.»

«Se non ti dispiace, Burson, posso sapere cosa volete farne? Ma sono certo che le vostre intenzioni covano un disegno orribile nei confronti delle sventurate nostre donne anziane! Non è forse così?»

«Vogliamo soltanto vederla rosolare a fuoco lento sopra uno spiedo, caro Esippo! Lo so che a voi esseri umani risulterà un'atrocità incredibile; ma per noi Katuros la sua rosolatura ci recherà un sommo godimento. Non potremmo godere meglio, mentre il suo corpo si cuoce a fuoco lento! Comunque, le tapperemo la bocca per non farvi sentire le sue urla di strazio! Allora ti piace lo spettacolo che ti ho proposto?»

A quell'annuncio, l'opposizione di mio padre non servì a nulla, pur essendo stata di una certa tenacia. Perciò il mio popolo dovette sobbarcarsi impotente anche a quest'altro enorme sacrificio, che lo privava di tante mamme e nonne. Riguardo poi alla scelta della donna da essere sacrificata ogni dieci giorni allo spuntare dell'alba, venne studiato per essa un tipo di sorteggio da effettuarsi la sera prima. Esso non avrebbe consentito a nessuno di manipolarlo in qualche modo, al fine di favorire qualcuna di loro. Ma adesso ne apprenderete i particolari. Innanzitutto si ponevano in una tinozza tanti bastoncini di cinque centimetri l'uno, quante erano le donne obbligate al sorteggio, dei quali uno risultava di colore rosso. Dopo si metteva nello stesso recipiente un bambino di cinque anni con gli occhi bendati. Alla fine, a mano a mano che si avvicinavano alla tinozza le donne candidate al supplizio, le quali formavano una lunga fila, lo si invitava a raccogliere un bastoncino e a consegnarlo a quella di turno. La donna, che riceveva dal fanciullo il bastoncino colorato, diventava la prescelta per il cruento sacrificio mattutino. Allora ella, essendo stata scelta dalla sorte, scoppiava subito in lacrime, dandosi a piangere per delle ore e forse anche per l'intera nottata.

Il mese scorso, toccò anche a mia madre Aunusa di essere sorteggiata. Allora nella nostra famiglia si pianse la sua morte, già prima che essa avvenisse. Quando poi calò la notte, il mio genitore decise di farla scappare il più lontano possibile, in direzione dell'Edelcadia. Nello stesso tempo, egli mi pregò di accompagnarla nel lungo viaggio che stava per intraprendere. Così mise a nostra disposizione due cavalli e delle cibarie varie per farci nutrire durante il nostro lungo viaggio. Ebbene, era da venti giorni che galoppavamo in direzione della città di Dorinda, allorché alla mia genitrice è capitata una disgrazia, la quale le ha procurato una morte istantanea. Infatti, ella, quando eravamo oramai sul territorio edelcadico, essendo stata scaraventata a terra dalla sua stanca bestia, si è ritrovata con l'osso cervicale rotto, per cui è spirata sul colpo. Da quel momento, ho proseguito la mia pazza corsa completamente a digiuno, anche se ogni tanto mi sono fermata per fare riposare il mio cavallo. In seguito, erano trascorsi tre giorni dalla morte di mia madre, allorché anch'io stamani sono andata incontro ad una brutta caduta da cavallo; però, non ho riportato alcuna ferita mortale. Inoltre, quando credevo di diventare vittima dei miei inseguitori che erano in arrivo, è intervenuto il mio salvatore Francide. Egli, affrontandoli ed uccidendoli tutti e dieci, mi ha liberato per sempre da loro.