190-I GENITORI VOGLIONO DISCONOSCERE I LORO FIGLI CASTRATI

Il viaggio di ritorno durò molto di più di quello di andata, siccome adesso Iveonte, i suoi amici e Kasten conducevano con loro i tantissimi bambini liberati. Questi venivano trasportati sopra i trenta carri trainati da cavalli, dei quali si erano impadroniti nella fortezza di Asurok. Comunque, non fu facile tenere a bada tutti loro, siccome raggiungevano il considerevole numero di quasi quattrocento unità. I quali, per una ragione o per un'altra, continuamente li mettevano a disagio in vari modi, rallentando così il loro cammino. Perciò esso, di conseguenza, risultò più lungo del previsto. Pervenuti infine nelle terre dorindane situate al confine con la Tangalia, si fece in modo che tutti i genitori dei bambini recuperati venissero avvertiti della loro liberazione da celeri staffette. Tramite le quali li si invitarono ad andare a riprenderseli nell'estesa piana, dove si era soliti accogliere i due giorni degli equinozi con banchetti, giochi e danze. Era pure previsto che in quel luogo si sarebbe festeggiato il gioioso evento che era stato reso possibile, grazie alla generosità dei tre intrepidi guerrieri Dorindani. Quando le famiglie dei bimbi tratti in salvo si furono presentate nell'estesa pianura di loro conoscenza, si diede subito inizio ai festeggiamenti, che erano stati proposti ed organizzati da Siskum, da Kasten e da un'altra decina di contadini della zona. Essi, però, furono preceduti dai sinceri atti di riconoscenza e di gratitudine rivolti ai tre formidabili guerrieri, da parte di tutti i parenti dei ragazzi che erano stati salvati e riportati indietro dalla Tangalia. Costoro, nel porgere la mano ai salvatori dei loro figli e dei loro fratellini, si mostravano commossi e con gli occhi colmi di tiepide lacrime.

L'insolita ilarità, la quale aleggiava sui volti di quanti stavano prendendo parte alla festa collettiva, seguitava quindi ad esprimersi in ciascuno dei partecipanti con rumorosa allegria, poiché il clima festevole la infondeva in tutti i loro cuori. A un certo punto, però, la gioconda atmosfera venne meno di botto in quel luogo, poiché essa fu quasi spezzata, frantumata e ridotta in uno schianto di amarezza dalle urla improvvise di una madre disperata. Esse, in breve tempo, si diedero a propagarsi per l'intero campo dei festeggiamenti, fino a seppellirvi poco alla volta ogni giubilo rasserenante che vi stava regnando. Nello stesso tempo, esse ve lo sostituirono con un clima, il quale si mostrava tutt'altro che festoso. Infatti, esso si andava tingendo della peggiore delle sensazioni, oltre che fare proliferare dappertutto tanti angoscianti patemi d'animo.

Allora le persone, le quali prima erano gaudenti e adesso si presentavano in preda al panico, non smettevano di domandarsi cosa mai stesse succedendo a non molta distanza da loro e perché mai c'era una madre afflitta che si dava ai suoi pianti di inaudita costernazione. Se lo chiedevano perfino Iveonte e i suoi amici, i quali, fino a quel momento e alla pari di tutti gli altri festeggianti, si stavano divertendo con molto gusto. Ma essi, come molti altri, non riuscivano a spiegarsi le ragioni di quelle urla pietose, che facevano impietosire. Più tardi, invece, anziché cessare oppure attutirsi le poche urla che dominavano nella piana, vennero ad unirsi ad esse moltissime altre. Difatti le restanti madri dei bambini salvati, prima a decine e poi a centinaia, comportandosi allo stesso modo, si diedero anch'esse ad emettere le loro urla disperate, tutte che si udivano terribili e laceranti. A quel punto, quella valle si trasformò in breve tempo in un vero inferno di ambasce e di tribolazioni.

La maggioranza delle persone presenti, in verità, non conosceva i motivi che davano luogo a quella consonanza di pianti dirotti e di grida strazianti. Ma ben presto la gente, compresi Iveonte e i suoi due amici, conobbe la causa di quella marea di lamentele tormentose. Perciò si strinse solidale intorno alle sventurate madri, che si disperavano per la sorte toccata ai loro bambini. I loro mariti, invece, apparivano furiosi e, non sapendo con chi prendersela concretamente, si torturavano l'animo ed imprecavano contro colui che aveva rovinato i loro piccoli a vita, per averli privati della capacità di procreare, di formarsi una famiglia e di diventare dei nonni orgogliosi. Ogni bambino orchiectomizzato, da parte sua, scorgendo la loro mamma in preda ad un folle dolore e il loro babbo infuriato come un ossesso, era indeciso a mostrarsi in un modo qualsiasi. Nei suoi occhi tremendamente smarriti, però, poteva scorgersi soltanto una preoccupazione, che non sapeva neppure come motivarla, interpretarla e gestirla dentro di sé. Nel contempo preferiva attendere l'esito definitivo dell'evento, sperando che alla fine nei suoi genitori venissero a calmarsi le acque. Solo così la madre sarebbe ritornata a essere serena, mentre il padre avrebbe smesso di urlare e di inveire contro l'uomo cattivo, che gli aveva arrecato tanto male nella sua fortezza!

Iveonte e i suoi amici, da parte loro, non potendo stare vicini a tutti gli afflitti genitori per consolarli come meglio potevano, se ne restavano a discutere insieme con Siskum. Costui gli stava domandando perché mai i suoi conterranei, i quali avevano recuperato i figli rapiti grazie a loro tre, ad un certo momento avevano smesso di gioire e si erano dati alla disperazione più insanabile. Allora Iveonte, che in breve tempo aveva compreso la vera ragione di quella loro giustificata reazione, si offrì di spiegargli ogni cosa. Perciò incominciò a dirgli:

«Di sicuro, Siskum, l'atteggiamento tormentato delle madri e quello iroso dei padri è dovuto al fatto che essi si sono accorti che i loro bambini non sono più gli stessi, essendo stati privati dal bastardo Asurok della loro funzione procreativa. Quando li abbiamo liberati, infatti, ai piccoli era stato già asportato il sacco scrotale che conteneva i testicoli, siccome il potente signore per puro capriccio aveva voluto renderli degli eunuchi. Si tratta di uomini che, essendo stati castrati in età prepuberale, non possono più procreare e neppure sposarsi.»

«L'animo di Asurok» osservò Siskum «doveva essere perverso, generoso Iveonte, se è stato capace di commettere un atto così disumano ed abominevole ai danni dei nostri bambini! Poveri figlioli, che non potranno più congiungersi in matrimonio con una donna ed avere una propria discendenza nello scorrere dei secoli! Per fortuna, siete riusciti a sottrarre in tempo a tale mutilazione permanente almeno una parte dei nostri sfortunati bambini, anche se essa è molto ridotta! L'ignominioso intervento avrebbe reso pure loro impotenti ed infecondi, rovinandoli per l'intera loro esistenza, se non foste intervenuti voi ad evitarglielo!»

«Ad ogni modo, Siskum, adesso non bisogna più pensare alla loro integrità fisica, anche se essa si presenta compromessa dal punto di vista sessuale. Nella persona umana, ci sono anche molti altri valori che vanno difesi e promossi, ad iniziare da quello della vita. Ciò che conta è che i bambini si trovano presso le loro famiglie sani e salvi sotto gli altri aspetti, per cui tutto il resto va tenuto da parte, se si vuole vederli crescere felici e sereni. Altrimenti, ogni nostro intervento per salvarli sarà stato inutile, per cui sarebbe stato meglio che non fossimo andati a liberarli nella selvaggia Tangalia!»

«Questo è senz'altro vero, Iveonte; ma ti garantisco che la mutilazione subita dai loro figlioli risulterà ai genitori un boccone troppo amaro, per riuscire a buttarlo giù facilmente! Perciò, almeno nei padri, ci sarà per esso una vera idiosincrasia, che minerà in ciascuno ogni propensione alla rassegnazione e alla loro accettazione. Purtroppo, sarà proprio così, sia per il momento che per il resto della loro esistenza!»

«Probabilmente, Siskum, avverrà come dici. Ma ritengo che sia sbagliato ed ingiusto considerare un uomo unicamente nella sua funzione sessuale. Invece egli comprende una molteplicità di valori altrettanto importanti quanto lo è il sesso. Perciò la perdita di uno solo dei valori appartenenti all'essere umano non ci deve indurre a gettare alle ortiche tutti gli altri, come se fosse avvenuta in lui la fine dell'intero uomo. Una simile visione della vita è totalmente errata e va quindi corretta!»

Iveonte ebbe appena terminato di esprimere a Siskum il proprio concetto sull'uomo completo, considerato nella sua universalità, allorquando incominciarono a sentirsi dappertutto anche molti pianti di bambini tristi e sconsolati. Ma che cosa stava succedendo ancora? Essi si chiedevano, senza che nessuno riuscisse a darsi una risposta. Perché adesso anche i loro figli si erano dati ai loro lamenti disperati? Allora, poiché un suo amico passava per di lì, Siskum si affrettò a domandargli:

«Sai dirmi, Olengo, perché mai adesso sono anche i bambini a mettersi a piangere? Che cosa sta provocando il loro improvviso pianto dirotto ed inconsolabile? Se sei venuto a conoscenza di qualcosa in merito, saresti così gentile da soddisfare la nostra curiosità?»

«Dopo che hanno scoperto nei loro piccoli familiari salvati l'asportazione dei testicoli, i genitori non vogliono più accettarli come figli ed intendono abbandonarli qui. Secondo la loro convinzione, sarebbe stato meglio, se essi non fossero stati mai liberati o fossero addirittura morti. Le sole madri si mostrano incerte e non sanno come pensarla a tale riguardo. Vano è stato pure l'intervento di amici e parenti per cercare di farli ritornare sui loro passi!»

«A quanto pare,» Iveonte affermò a Siskum «le cose si sono messe proprio come avevi previsto. Ma non credano i padri dei bambini da noi liberati che l'avranno vinta e che si sbarazzeranno facilmente dei loro figli! Vedrai che li farò rinsavire con le buone oppure con le cattive: te lo assicuro! A tale scopo, affido a te il compito di radunarli tutti al centro di questa valle, avvisandoli che voglio parlargli ad ogni costo e che li ammonisco a non assentarsi, se dopo non vorranno fare i conti con me. Riferisci ad ognuno di loro che chi caparbiamente oserà disertare il raduno da me richiesto, il quale dovrà esserci un'ora prima del tramonto, se ne pentirà molto presto!»

Dopo che Iveonte ebbe parlato, Siskum e una decina dei suoi amici si incaricarono di mettere al corrente i genitori dei bambini portati in salvo della volontà espressa dai loro salvatori, che essi avrebbero dovuto considerare categorica e vincolante. Per cui la medesima andava accolta con sottomissione, se non volevano pentirsene e ritrovarsi alle prese con un guaio ancora maggiore. Allora i padri dei trecentododici bambini orchiectomizzati, presi dal forte timore, non osarono disubbidire all'ordine perentorio di chi lo aveva spiccato e si presentarono alla riunione, anche se in modo mogio. Quando Iveonte se li trovò davanti, senza che neppure uno di loro si fosse assentato per paura, salì sopra un macigno, perché tutti lo potessero vedere nell'ascoltarlo. Egli aveva assunto quella sua nuova posizione, siccome desiderava che a nessuno di loro sfuggisse una sola virgola del discorso che stava per fare. Così poco dopo si mise a parlare a tutti i presenti in questo modo:

"Prima che io mi dia a rimproverarvi, padri incoscienti e sconsiderati, ho qualcosa da riferirvi sull'essere umano, del quale, a quanto pare, siete completamente digiuni. Perciò intendo rendervene consapevoli, al fine di farvi valutare con obiettività la situazione, che ora state vivendo nel modo più errato che possa esserci, specialmente in qualità di genitori dei bambini. Ebbene, l'uomo è costituito da varie componenti, tra cui anche quella sessuale, alla quale non sono da subordinare tutte le altre. Anche se è vero che, in virtù di essa, la specie umana si perpetua nel tempo; è altrettanto vero che essa, senza la primaria componente vitale, non avrebbe più senso, siccome si ritroverebbe senza neppure un attimo di esistenza. Comunque, anche quella vitale dipende da altre componenti, come la nutrizione, la respirazione e la sanità fisica. Ma al di là delle prerogative fisiche, biologiche e psichiche dell'uomo, ce ne sono altre ben più importanti di natura spirituale, come l'intelligenza, il senso etico-sociale e quello religioso, le quali si ritrovano ad andare a braccetto in ogni persona ragionevole e giusta. Se nell'uomo viene a cessare una sola prerogativa di quelle elencate, ciò non vuol dire che egli venga meno totalmente, per cui bisogna considerarlo minorato ed inservibile. Anzi, occorre apprezzarlo ancora di più, appunto per evitare di disaffezionarci da noi stessi o dagli altri, a seconda se la causa invalidante si scateni in noi oppure nel nostro prossimo.

In un certo senso, se ci riflettete, voi già lo fate in altre circostanze e non capisco perché volete smettere di applicare lo stesso criterio nella vostra attuale situazione. Quando un vostro familiare perde un occhio oppure un braccio o una gamba, cercate forse di liberarvene o decidete di non accoglierlo più in qualità di membro della vostra famiglia? Questo non mi risulta nel modo più assoluto. Allora perché, verso chi viene a perdere la funzione genitale, vi mostrate ostili a tal punto, da non volere più riconoscerlo come vostro figlio? Dunque, avete torto marcio a comportarvi come state facendo adesso e vi prego di ravvedervi all'istante, se volete che pure i vostri figli smettano i loro pianti dirotti e ritornino a vivere la gaia vita di un tempo! Non vi nascondo che, se vi rifiutaste di seguire il mio consiglio e continuaste a vedere il diverso come qualcosa di inaccettabile, sarei costretto a prendere nei vostri confronti dei severi provvedimenti. In quel caso, ve ne farei pentire amaramente! Per questo adesso sta a voi decidere come comportarvi. Sappiate però che, scegliendo la cosa giusta, farete un bellissimo dono ai vostri sfortunati figlioli. I quali sono stati già deprivati di un bene inestimabile. Altrimenti provate già ad immaginare quello che vi capiterà!"

In verità, si è sempre ignorato sotto quale dei due aspetti i padri dei bambini piangenti avessero considerato le parole di Iveonte, ossia se sotto quello umano oppure sotto quello della reale minaccia da lui annunciata. Ma sta di fatto che essi immediatamente si convinsero a cambiare opinione, circa la sventura capitata ai loro figlioli. Infatti, accogliendoli di nuovo con amore ed abbracciandoseli con immenso affetto, se ne ritornarono alle loro case insieme con tutti gli altri loro familiari. La qual cosa spinse anche Iveonte e i suoi compagni a togliere le tende da quelle zone nordiche e a fare un celere ritorno a Dorinda. Intanto che galoppavano, i due amici fraterni non vedevano l'ora di rincontrare le loro ragazze, siccome desideravano dedicarsi ad entrambe anima e corpo, come erano abituati a fare ogni giorno, fin da quando essi le avevano conosciute. Comunque, anche il viaggio di ritorno a Dorinda, intrapreso da Iveonte, Francide e Astoride, durò il medesimo tempo di quello di andata; anzi, riuscirono ad accorciarlo di un paio di ore. Perciò, quando si era al tramonto del quinto giorno, essi erano già in vista della città e la scorgevano da lontano, mentre veniva invasa dal rossastro sole in declino. Invece essi la raggiunsero, quando l'imbrunire iniziava ad annerire ogni luogo e ogni cosa. Per tale motivo, i due amici fraterni decisero di rimandare al giorno successivo la loro visita alle rispettive fidanzate, nonostante bramassero tantissimo incontrarsi con loro. Così, mezzora dopo, la terna di amici si trovava già al campo dei ribelli e poté incontrarsi con Lucebio. Allora costui fu molto felice di rivederseli apparire davanti, a qualche metro da lui; ma prima di tempestarli con le tante sue domande, volle preparare per loro una cena sostanziosa.

Durante il pasto serale, pregò i tre giovani di raccontargli ogni particolare della loro nuova impresa. Quando poi il savio uomo ebbe appreso da loro ogni fatto che l'aveva caratterizzata, oltre ad elogiare il loro eroico comportamento, non si astenne dall'esprimere un severo giudizio su colui che aveva rovinato per sempre tanti poveri bambini innocenti. Infine egli, essendosi fatta notte avanzata, invitò tutti a concedersi il meritato riposo con il sonno, risultando esso un ottimo rimedio per combattere l'enorme stanchezza accumulata nell'estenuante viaggio.


L'indomani, quando l'alba era spuntata da poco, Iveonte e Francide si svegliarono quasi nello stesso momento. Dopo essersi lavati, vestiti e riordinati, essi si presentarono subito all'alloggio di Lucebio. Il quale già era sveglio ed aveva anche preparato per entrambi la colazione, essendo sicuro che i due allievi del grande Tio quel giorno sarebbero stati molto mattinieri. Secondo lui, essi non vedevano l'ora di raggiungere le loro amabili ragazze e di vedersele accanto prima possibile. Egli non aveva avuto torto, visto che si presentarono nel suo alloggio, quando il sole non era ancora sorto del tutto. Così, una volta che si furono scambiati il cordiale buongiorno del mattino, tutti e tre non persero tempo a mettersi a tavola per consumare l'abbondante colazione. Intanto che i due giovani la divoravano con molto gradimento, Lucebio, al quale premeva aprire un particolare discorso, incominciò a parlare a loro due, usando queste parole:

«Avevo previsto, giovanotti, che stamani vi sareste svegliati prestissimo, poiché giustamente siete ansiosi di rivedere e riabbracciare le vostre ragazze. Per questo ho pensato di farvi trovare la colazione già bella e pronta in tavola, non volendo farvi perdere tempo nel condurvi da loro. Sono convinto che anch'esse vi aspettano con un'ansia, che oserei definire maggiore della vostra. Prima di partire per la città, però, avrei da comunicarvi qualcosa di cui non posso fare a meno di parlarvi. In realtà, Iveonte, la mia comunicazione è diretta soltanto a te, dal momento che Francide l'avrebbe appresa senz'altro a casa del mio amico. Comunque, non solo per questo essa ti riguarda personalmente!»

«Innanzitutto, Lucebio,» gli rispose Iveonte «Francide ed io vogliamo ringraziarti per la gentile premura avuta nei nostri confronti, facendoci trovare già pronta la colazione sul desco a quest'ora del mattino. Avvenuti i nostri ringraziamenti, adesso puoi comunicarmi quanto ti preme farmi conoscere. Dal tuo atteggiamento, deduco che si tratti di una questione abbastanza seria, la quale ti mette pure in grande agitazione. Sono sicuro che vorrai anche che mi interessi al tuo problema e te lo risolva io, prevedendo già che la sua soluzione dipenderà esclusivamente da me. A questo riguardo, il mio amico fraterno non me ne voglia, se l'ho considerato estraneo a questa questione, visto che essa, come ci hai voluto precisare, riguarda soltanto me!»

«Non ti sbagli affatto, Iveonte;» acconsentì Lucebio «ma tra poco ne prenderà atto anche Francide. Ebbene, ieri mattina è stato arrestato Solcio dai soldati del re Cotuldo, ma non in qualità di ribelle. In città, avendo visto che alcuni di loro deridevano un povero vecchio, egli è intervenuto per prendere le difese della persona canzonata. Il suo intervento, però, è stato un po' duro e carico di offese, la qual cosa ha spinto i soldati da lui redarguiti ad arrestarlo. Il nipote del mio amico sarebbe scappato senz'altro, se la sorte non gli fosse stata sfavorevole. Infatti, proprio in quel momento, si è trovato a passare di là anche uno squadrone di cavalleria. Per la qual cosa, egli ha preferito non fare resistenza ai soldati di Cotuldo. Al contrario, ha permesso loro di condurlo nelle carceri, restando abbastanza tranquillo e nell'anonimato più assoluto.»

«Dunque, Lucebio, vorresti che ne parlassi al fratello della mia Lerinda e lo facessi scarcerare. Certo che lo farò, non appena sarò giunto a corte! Altrimenti, nel nostro campo mi ritroverei con un allievo in meno da istruire. Anzi, se ci tieni a saperlo, Solcio si dimostra quello più in gamba del gruppo che viene seguito da me. Inoltre, ha già fatto parecchi progressi nell'apprendimento dell'uso delle armi e delle arti marziali!»

«Grazie, Iveonte, per averti preso subito a cuore la sua causa. Sono certo che riuscirai a trarlo fuori dall'attuale cella, senza alcuna difficoltà. A questo punto, non mi resta che lasciarvi andare dalle vostre amate fanciulle. Ma prima che voi partiate, voglio pregare Francide di riferire al nonno di Solcio di non stare più in pensiero per il nipote, poiché nella giornata odierna egli se lo vedrà nuovamente a casa sua, grazie all'intervento del tuo amico Iveonte!»

«Certo che recherò al generoso Sosimo l'ambasciata che mi hai appena fatta per lui, Lucebio!» lo rassicurò Francide «Così lo tranquillizzerò con tutti gli altri familiari. Adesso, però, è tempo che Iveonte ed io ci incamminiamo senza altro indugio verso Dorinda, siccome in città ci attendono due anime in pena. Esse sono molto ansiose di buttarsi tra le nostre braccia e di riempirci di caldi baci e di affettuose carezze!»

Pochi attimi dopo, i due giovani amici già erano in cammino verso la città, galoppando con un'andatura sostenuta. Anche se di tanto in tanto essi si scambiavano qualche parola o qualche impressione sui dintorni, le loro menti erano rivolte principalmente alle rispettive fidanzate. Così, dopo neppure una mezz'ora di galoppata, Iveonte e Francide avevano già oltrepassato le mura della città, all'interno delle quali si separarono, dovendo essi percorrere strade differenti per raggiungere l'uno la sua Lerinda e l'altro la sua Rindella. Ma il primo ad arrivare a destinazione fu Francide. Il giovane trovò presso il portone del palazzo l'anziano Sosimo e Zipro, che era il suo migliore allievo, i quali discutevano appunto sulla cattura di Solcio. Non appena scorsero l'innamorato di Rindella, non persero tempo ad accoglierlo con grande calore. Dopo, però, il ricco possidente si affrettò a domandargli assai compunto:

«Hai saputo, Francide, della cattura di mio nipote Solcio, da parte dei soldati del re Cotuldo? Per fortuna, essa non c'è stata per la sua attività di ribelle, ma per un banale motivo. Comunque, scusami, se per prima cosa non ti ho chiesto come è andata la vostra missione nella infida e pericolosa Tangalia, come avrei dovuto fare!»

«Non devi scusarti di niente con me, Sosimo, siccome adesso hai ben altro per la testa a cui pensare! È stato stamattina che ho saputo della carcerazione del tuo nipote preferito. A tale proposito, Lucebio mi manda a dirti che puoi fare a meno di impensierirti, dal momento che Solcio quasi di sicuro sarà scarcerato entro quest'oggi. Nel frattempo, perciò, devi smettere di preoccuparti e di darti pena per lui! La stessa cosa suggerisco a Zipro, che è il suo amico intimo, oltre ad essere l'allievo che mi dà più soddisfazione negli allenamenti! Magari fossero tutti i miei discepoli come lui!»

«Mi dici, Francide, come fa il mio illustre amico Lucebio ad esserne certo? Sai dirmi che cosa lo fa essere talmente ottimista, da garantirmi la scarcerazione di mio nipote in tempi così rapidi? Ovviamente, egli saprà senz'altro quello che dice!»

«Stamani Lucebio ha incaricato Iveonte di occuparsene di persona, quando si presenterà a corte. Per cui chi più del mio amico fraterno può ottenere la libertà di tuo nipote? Nessuno, ti dico! Adesso, però, lasciatemi correre dalla mia Rindella, poiché non intendo più farla stare nella trepidazione e nella sofferenza un minuto di più, a causa della mia lontananza. Quanto alla nostra missione, Sosimo, ne discuteremo in un altro momento, quando ci sarà più tempo per stare insieme e per farci una bella chiacchierata, magari anche bevendo dell'ottimo vino!»

Di lì a poco, il giovane era stato visto allontanarsi come un fulmine e dirigersi all'alloggio della sua amata. Quando la raggiunse, egli la trovò a conversare con la sua tutrice, poiché anche le donne si mostravano alquanto preoccupate per Solcio, essendo il nipote prediletto del loro prodigale benefattore. Ma alla vista del suo Francide, Rindella subito gli si lanciò tra le braccia, stringendosi in un vicendevole abbraccio. Il quale pareva che non volesse avere più termine, intanto che anche i baci fioccavano dall'una e dall'altra parte. I due giovani bramavano giovarsene fino all'inverosimile, facendo arrossire con il loro impeto passionale la matura Madissa, la quale era presente. Quando infine si fu esaurita l'enfasi di emozioni e di sfogo da parte di entrambi i fervidi innamorati, si normalizzò anche la loro condotta. Allora essi, mentre si scambiavano i loro gioiosi sguardi, si diedero a raccontarsi i fatti che avevano vissuto durante l'intero tempo del loro lungo distacco.


Nel frattempo, anche Iveonte era arrivato alla sua meta. Egli, però, prima di incontrarsi con la sua Lerinda, aveva voluto fare una visita a Gerud. Il quale, da quando il suo predecessore Croscione era diventato cieco, con nomina ancora provvisoria, espletava le funzioni di consigliere militare e di braccio destro del re Cotuldo. Il giovane, in verità, aveva ritenuto opportuno di non rivolgersi direttamente al fratello della sua amata, al fine di fare scarcerare Solcio. Invece aveva preferito tenerlo all'oscuro della scarcerazione del suo allievo, volendo evitare di avere degli obblighi di riconoscenza verso il cognato re. Così un domani non sarebbe sceso ad alcun compromesso con lui, se gli fosse stato richiesto dal sovrano. Perciò, dopo essersi presentato all'alto ufficiale, il quale sostituiva Croscione ancora come precario, costui lo aveva accolto con sommo riguardo. Ma poi Iveonte gli si era rivolto con diplomazia:

«Allora, Gerud, il re Cotuldo te l'ha ancora resa a tempo indeterminato la carica che attualmente ricopri? Oppure dovrò metterci io una buona parola, allo scopo di farti ottenere la nomina senza limiti di tempo? Io sono del parere che un ottimo elemento come te non può mica starsene ad aspettare in eterno perché ciò avvenga!»

«Fino ad oggi, valoroso Iveonte, il mio impiego resta ancora avventizio, per cui non posso essere soddisfatto. Se invece mi dessi tu una mano, visto che gentilmente ti sei mostrato disposto a concedermela, sono sicuro che esso diventerebbe all'istante a lunga scadenza. Perciò, considerato il fatto che oggi si va avanti soltanto con le solite raccomandazioni, come tutti sanno, ben volentieri accetto il tuo aiuto!»

«Allora ti prometto che, non appena avrò modo di trovarmi a parlare faccia a faccia con il sovrano mio cognato, gliene parlerò senza meno! A proposito, Gerud, mi hanno riferito che ieri è stato incarcerato il mio allievo Solcio, il quale è un giovane molto giudizioso. Vuoi sapere perché i soldati lo hanno arrestato? Egli ha voluto prendere le difese di un povero vecchietto, che essi stavano insultando senza alcuna ragione. Dovrò forse rivolgermi al re Cotuldo, per la sua scarcerazione, oppure è già bastevole la tua autorità a farlo tornare libero? Ma per come la vedo io, la tua carica è più che sufficiente per farlo scarcerare! Basterà la tua presenza nel carcere ed ordinare ai secondini la sua scarcerazione!»

«Non preoccuparti, Iveonte, perché adesso mi occuperò personalmente del suo rilascio. Perciò non ci sarà bisogno di ricorrere al re Cotuldo; inoltre, in questa maniera si eviterà ogni pratica burocratica! Dunque, puoi stare tranquillo della cosa e ritienila già fatta!»

«Ti ringrazio di cuore, Gerud. Comunque, se te ne vuoi incaricare tu, dopo è consigliabile non riferirlo a mio cognato, potendo prendersela anche per questa sciocchezzuola. Il fratello della mia Lerinda a volte si arrabbia per un nonnulla e non si sa poi come prenderlo, per farlo ritornare ad essere calmo. Anche se con me ben se ne guarda, eccome, dall'assumere un atteggiamento simile! Inoltre, egli potrebbe offendersi, per non essermi rivolto direttamente a lui. Dopo quanto ti ho riferito, ottimo ufficiale, hai compreso benissimo cosa devi fare e come devi agire per portarlo a buon fine. Adesso ti saluto e ti lascio.»

Gerud intendeva replicargli, appunto per assentire a ciò che aveva affermato sul cognato e dirgli che con il re Cotuldo certe volte non si poteva ragionare. Invece aveva dovuto farne a meno, perché il suo interlocutore già aveva alzato i tacchi, per il motivo che era pure a lui noto, essendo premuroso di raggiungere la sua ragazza.

Anche l'incontro, che Iveonte aveva avuto con la sua Lerinda, si era dimostrato elettrizzante. Esso era stato vissuto come un turbine suscitatore di forti emozioni e di attimi estasianti. Dall'una e dall'altra parte, c'era stata una profusione di abbracci e di baci, i quali erano sembrati non terminare più. Inoltre, essi erano avvenuti tra esplosioni emotive di rara passionalità. Alla fine del loro sfogo amoroso, la ragazza aveva preteso dal fidanzato il resoconto dell'intera missione, con i relativi risultati ottenuti. Il giovane non si era opposto alla sua pretesa, sebbene si presentasse piuttosto complicata.

Ritornando poi al presente della nostra storia, Iveonte, al termine del suo racconto, si era congedato da Lerinda per raggiungere Francide a casa del facoltoso amico di Lucebio. Com'era ovvio, il commiato avvenne con un bacio molto passionale tra i due colombi innamorati. Ma poi il giovane non poté appagare in modo rapido il proprio desiderio, poiché si imbatté nel re Cotuldo. Allora il cognato, prendendoselo sotto il braccio, lo condusse nel suo salottino rosso. In tale locale, il sovrano volle apprendere ogni cosa sulla sua trasferta nelle remote terre del nord, dove si era trasferito con i suoi amici, allo scopo di dare una mano a quelli che vi abitavano contro i rapitori dei loro bambini. Quando infine Iveonte ebbe finito di narrare pure a lui gli eventi che si erano succeduti prima nella Tangalia e poi sul territorio dorindano, il sovrano non poté fare altro che stupirsene. Ma subito dopo osservò:

«Non c'è alcun dubbio, Iveonte, che la tua spada riesca a fare dei prodigi davvero strepitosi in ogni circostanza! Magari potessi averla anch'io un'arma così prodigiosa! Per averne una uguale alla tua, sarei disposto a rinunciare perfino alla mia corona!»

«Devo farti presente, mio futuro cognato, che non è stata la spada ad uccidere gli uomini di Asurok; ma siamo stati Francide ed io a farne un vero macello! Hai forse dimenticato che pure il mio amico, il quale non maneggiava la mia spada, ha affrontato ed eliminato un numero così spropositato di guerrieri nemici? Come vedi, è stata la nostra eccellente preparazione nelle armi e nelle arti marziali a farci sconfiggere ed ammazzare i numerosi nostri avversari! Ricòrdati che, con questa nostra missione volontaria, ti abbiamo cavato le castagne dal fuoco, visto che toccava a te liberare quelle sventurate genti dai guai che avevano, facendo intervenire parte del tuo esercito. Invece, ignorando le loro lamentele, appositamente te ne sei voluto lavare le mani, sebbene non ti dispiaccia riscuotere dai poveretti gli esosi tributi da te pretesi!»

Dopo il suo chiarimento e il suo rimbrotto, entrambi rivolti al re Cotuldo, Iveonte si accomiatò da lui e si affrettò a lasciare la reggia, siccome l'amico Francide già lo stava aspettando nel palazzo di Sosimo, dovendo ritornare al campo insieme. Invece, attraversando uno dei corridoi, egli incrociò Gerud, il quale si precipitò a comunicargli:

«Iveonte, ho fatto scarcerare il tuo allievo, il quale in questo momento non è più in stato di fermo, ma completamente libero! Inoltre, ho obbligato i quattro soldati, che lo avevano arrestato senza alcuna colpa, a chiedergli scusa! Sei soddisfatto?»

«Bravo, Gerud, hai fatto il tuo dovere fino in fondo! Ti sono grato per come ti sei voluto prodigare per il mio allievo! Ti prometto che per te le cose si aggiusteranno abbastanza presto, quando meno te lo aspetti! Ti do la mia parola, consigliere di mio cognato!»

Pronunciate speditamente quelle parole, Iveonte si avviò verso l'uscita della reggia, dove, dopo averla raggiunta, si impossessò di nuovo del proprio cavallo, il quale era custodito nelle stalle regie. Da quel luogo poi, stando in sella al suo corsiero, si diede a galoppare di gran carriera verso il palazzo di Sosimo, cercando di recuperare il tempo perduto a corte. Dopo esservi pervenuto, si accorse che già vi spirava un'aria di gaudio da parte di tutti, essendo ritornato tra di loro Solcio, il quale adesso non risultava più un recluso. Anzi, costui, non appena il suo maestro d'armi fece il suo ingresso nella casa del nonno, gli andò subito incontro e lo ringraziò per il suo decisivo intervento a suo favore. Esso gli aveva permesso di ritornare a respirare la salubre aria esterna, avendo trovato malsana e mefitica quella che stava respirando nella sua cupa cella. Iveonte, dopo essersi salutato con Solcio, si condusse all'alloggio di Madissa e di Rindella, dove si incontrò con l'amico Francide. Fatta poi una permanenza lampo in quella casa, che gli permise appena di salutare le due donne, se ne ritornò al campo dei ribelli con il compagno di infanzia. Oramai si era al tramonto e bisognava sbrigarsi, se non volevano viaggiare in compagnia delle tenebre in arrivo.

Giunti presso Lucebio, dove trovarono anche Astoride, gli raccontarono com'erano andate le cose in Dorinda. Iveonte, da parte sua, ci tenne a rassicurare il caro vegliardo che nella reggia si era sistemata ogni cosa riguardo al giovane Solcio. Difatti il nipote prediletto dell'amico era già ritornato a casa, facendo immensamente felici i propri genitori e suo nonno. Qualche ora più tardi, da parte di Lucebio, fu servita anche la cena. Al termine della quale, tutti quanti, essendo stanchi morti, andarono a dormire, volendo ciascuno di loro far riposare le proprie membra affaticate.