181-L'ANELLO DI IVEONTE DIMOSTRA CHE OSUR ERA UN DIO

Quando il dio Osur ebbe terminato il racconto dell'avvincente e patetica storia di Kronel, mancavano un paio di ore al tramonto. Allora egli si congedò in gran fretta dalla diva e da Iveonte, che era il suo protetto. La canuta divinità, mentre si allontanava dal campo, fu scorta anche da Astoride, il quale aveva appena finito di schiacciare il suo pisolo pomeridiano. In quel momento, il giovane stava venendo fuori dal suo casolare, dandosi a sbadigliare in continuazione. Giunto poi presso l'amico, che era ancora seduto sotto lo stesso albero, gli si rivolse, dicendo:

«Iveonte, mentre uscivo dal mio alloggio e ne varcavo la soglia, ho appena intravisto un vegliardo, che si allontanava con passo spedito dal nostro campo. Ammesso il caso che egli si sia trattenuto a conversare con te mentre io ero intento a dormire, saresti disposto a dirmi chi era e perché mai era capitato dalle nostre parti? Te ne sarei molto grato!»

«Se te lo dico, Astoride, sono sicuro che non mi crederai. Allora, in base a questa mia convinzione, mi conviene tacere, piuttosto che sentirti affermare dopo che sono uscito di senno. Adesso conosci il motivo per cui preferisco non riferirti niente di ciò che mi è successo, Intanto che te la ronfavi dentro il tuo casolare! Mi sono spiegato in modo da non appesantire la tua comprensione? Ne sono certo, amico mio!»

«Iveonte, come mai sei di pessimo umore a quest'ora del giorno? Se anche tu ti fossi riposato con una bella dormita, allo stesso modo mio, ora non mi avresti risposto in questa maniera così acre! Comunque, conoscendoti bene, deduco che non stavi parlando sul serio! Quindi, devo concludere che il tuo atteggiamento nei miei confronti è da imputarsi semplicemente ad un semplice scherzo, siccome non potrebbe essere altrimenti! Non è forse vero che è come ho pensato, amico mio?»

«In un certo senso, Astoride, puoi anche considerare la mia risposta un banale atto scherzoso; ma posso garantirti che non lo è del tutto, se ci tieni a saperlo! Perciò la cosa migliore, per noi due, è quella di troncare qui il discorso sul nostro ospite, essendo persuaso che giammai crederesti al mio racconto, proprio come esso è avvenuto! Anzi, la tua comprensibile presa di posizione avversa nei miei confronti ci porterebbe immancabilmente ad un litigio, che è meglio evitare! Non ti pare?»

«Mi spieghi, Iveonte, cosa intendi dire, con la tua locuzione "non lo è del tutto"? Vuoi essere più esplicito per cortesia, in modo che io comprenda meglio? Devi sapere che mi dispiacerebbe chiudere questo discorso, senza avermi prima chiarito alcune cose ad esso inerenti, le quali sono rimaste ancora senza risposta. Allora desideri accontentarmi?»

«Astoride, quasi di sicuro mi rideresti in faccia, se io ti asserissi che il vecchio da te scorto mentre lasciava il nostro campo non era un essere umano; invece si trattava di un autentico dio. Oppure, pensando ad una mia volontaria presa in giro avente te come destinatario, erroneamente finiresti per offenderti per davvero. Sto forse esagerando nel dichiararti entrambe le cose, amico mio? Se sei della convinzione che mi sbaglio, parlami pure col cuore aperto e dammi la tua giusta risposta!»

«Hai ragione, Iveonte! La logica non potrebbe che indurmi ad una delle due conclusioni, quelle che tu stesso mi hai appena prospettate. Allora, invitandoti ad essere te stesso, amico mio, dammi la sola risposta che potrò considerare da parte mia, oltre che seria, soprattutto veritiera! Adesso ti ho bene esplicitato il mio pensiero in merito!»

«Comunque, Astoride, non servirebbe a niente affermarti la pura verità con estrema recisione, dal momento che sarei frainteso da te in ogni caso. E non solo da te, bensì da qualunque altra persona che si trovasse a considerare seriamente la mia affermazione! Per il quale motivo, con grande rincrescimento mi vedo costretto a non darti alcuna risposta ed alcuna spiegazione, nonostante la cosa non ti faccia affatto piacere!»

«Insomma, Iveonte, se devo dar credito alle tue parole, sei deciso a sostenere energicamente che davvero quel vecchio era un essere divino e che, da parte mia, posso soltanto mostrarmi scettico, di fronte ad una simile tua attestazione. Ebbene, hai pienamente ragione! Considerata l'evidente assurdità del tuo asserto, come tu stesso hai ammesso, nessun altro al mondo si presterebbe a crederti. Perciò non vedo il motivo per cui dovrei essere proprio io a darti ascolto in questa faccenda assurda! Come vedi, anch'io sono d'accordo con te a chiudere quest'argomento e a metterci una pietra sopra. Così facendo, smetteremo di trovarci in netto disaccordo e di litigare senza un giustificato motivo!»

Astoride aveva appena terminato il suo intervento, con il quale aveva teso a mettere fine alla sua discussione con l'amico presente, allorquando ci fu il rientro di Lucebio e di Francide al loro campo. Essi, che erano di ritorno da Dorinda, dopo aver dissellato e fatto abbeverare a sufficienza i loro cavalli, si affrettarono a raggiungerei i loro amici. I quali in quel momento preferivano mostrarsi muti come pesci. Ma una volta che furono pervenuti presso di loro, i cui volti apparivano visibilmente contrariati, Lucebio, senza pronunciare parola alcuna, si diede ad osservarli per bene. Poco dopo, però, aprendo bocca, iniziò a chiedere ad entrambi, che facevano intendere che non avevano alcuna voglia di parlare:

«Mi sapete dire chi era quel vecchio che Francide ed io abbiamo incontrato a circa un miglio dal nostro campo? Se non erro, egli proveniva esattamente dal nostro campo! A dire il vero, nel suo aspetto ho notato qualcosa che, senza esagerazione, oserei definire soprannaturale! È per questa ragione, giovanotti, che ci terrei molto a conoscere da voi due qualcosa su di lui, a patto che la mia richiesta non vi rechi qualche disturbo o vi risulti di troppo peso! Quindi, esaudite la mia preghiera?»

Alla domanda dell'anziano amico, Iveonte seguitò a restare taciturno. In verità, egli in quel momento, essendo quasi soprappensiero, non aveva prestato alcuna attenzione alle sue parole. Allora Astoride, essendosi accorto che il compagno continuava ad essere distratto e a non rispondere a quanto Lucebio aveva chiesto loro, lo fece lui per tutti e due:

«Lucebio, io non posso riferirti alcunché in merito. Quando il forestiero è stato ospite nel nostro campo, me la stavo dormendo nel mio alloggio. Al termine della mia dormita, mentre uscivo, l'ho appena scorto di spalla, intanto che si allontanava dal nostro campo. Ma posso assicurarti che il vecchio forestiero si è intrattenuto a parlare con Iveonte; però ignoro l'argomento della loro conversazione. A dire il vero, il mio amico aveva cominciato a parlarmene; invece poi è sorta fra noi due una divergenza di opinioni. Così abbiamo deciso di troncare il nostro discorso, ad evitare di accentuare di più il nostro indubbio contrasto.»

«Astoride, credo di conoscere il motivo della vostra disputa, poiché non ho difficoltà ad immaginarmelo. Ma sappi che, per ognuno di noi, non c'è cosa peggiore che vedersi contraddire dagli altri, specialmente quando si hanno tutte le carte in regola per convincersi di stare dalla parte della ragione! È la prima volta che scorgo Iveonte insolitamente immusonito; ma tu, Astoride, non hai alcuna colpa della sua attuale scontrosità. Egli è il primo a non dubitare della tua buonafede, consapevole che chiunque al posto tuo, ignaro di essere in difetto, avrebbe reagito come te! Forse sarebbe accaduto anche a me stesso!»

Le parole di Lucebio, da una parte, avevano fatto stare in orecchi Iveonte; dall'altra, avevano suscitato stupore in Francide. Invece non avevano affatto convinto l'incredulo Astoride. Perciò egli, senza indugio, deliberò di controbattere la sua assurda tesi, la quale, a suo parere, non poteva stare né in cielo né in terra. Per questo gli rispose:

«Lo ritengo molto improbabile, Lucebio, che tu possa sapere da che cosa sia derivato il momentaneo dissapore sorto tra Iveonte e me. Ma ti prego di non prendertela, se sono convinto che, qualunque cosa tu abbia supposto riguardo alla nostra questione di mezzora fa, essa è ben lontana da quella che ci ha messi l'uno contro l'altro! Non può essere altrimenti, considerata la straordinarietà dell'argomento, poiché esso, a mio avviso, presenta un contenuto del tutto paradossale!»

Del resto, pure Iveonte la pensava alla stessa maniera di Astoride, per la quale ragione non riusciva ad afferrare ciò a cui il loro saggio amico si era voluto riferire. Allora Lucebio, mostrando parecchia calma, si affrettò a ribattere il suo giovane interlocutore, il quale era apparso assai sicuro di sé. Perciò, mostrandosi abbastanza convinto di quanto stava per affermargli, si diede a rispondere al Terdibano:

«Astoride, scommetto che Iveonte, riferendosi al suo ospite occasionale, ti ha lasciato intendere che egli era un dio; ma tu, completamente incredulo, gli hai rinfacciato che la sua asserzione poteva essere soltanto un'autentica stravaganza. Non sono forse andate così le cose tra voi due nel nostro campo, prima che Francide ed io ci presentassimo a voi? Scrutandolo bene, il tuo volto mi dimostra che non mi sono sbagliato!»

L'attestazione del savio Lucebio, oltre a sorprendere e a stupire sommamente Iveonte, fece rimanere di stucco Astoride. Essa gli risultava non meno assurda della convinzione del grande amico di aver conversato con un'autentica divinità. Per questo immediatamente domandò a chi l'aveva enunciata con la massima sicurezza:

«Vorrei sapere da te, Lucebio, come hai fatto a renderti conto facilmente di quanto era avvenuto fra me ed Iveonte. Sono convinto che anch'egli ci tiene a scoprire tale mistero, considerato che pure nel suo sguardo attonito noto una curiosità di questo tipo! Avanti, per favore, mettici subito a conoscenza di come hai fatto a subodorare le ragioni della lite, la quale poco prima c'era stata tra noi due!»

«Lucebio,» acconsentì Iveonte «come ti ha fatto presente Astoride, le tue parole hanno sbalordito me non meno di lui! Quindi, vuoi spiegarci come facevi a conoscere l'argomento, del quale noi avevamo discusso in tua assenza, mettendoci l'uno in contrapposizione dell'altro? Allo stesso modo suo, anch'io desidero aver chiarito lo straordinario acume che hai dimostrato di avere circa la nostra questione di poco fa!»

«La risposta è più semplice di quanto voi due possiate immaginare, Iveonte. Prima ho studiato tutti gli elementi che avevo in mio possesso, poi ho tirato le somme e alla fine ne ho dedotto che due più due fa quattro. Passo a spiegarmi meglio. L'elemento chiave è stato quello che già possedevo prima ancora di arrivare al campo, cioè la certezza che quel vecchio poteva essere soltanto un dio. Dopo, giunto al nostro campo, Astoride mi ha fornito anche gli altri due elementi, che mi occorrevano per trarre la conclusione. Quali? Naturalmente, la tua conversazione con il vegliardo forestiero e la discussione dai toni contrastanti che era sorta in seguito fra te e il tuo amico. Quindi, da tutto il quadro della situazione, ho arguito i tre fatti che erano in successione e in correlazione fra di loro. Prima l'ospite ti ha rivelato la sua natura divina. Dopo tu, non volendo fargliene un mistero, hai cercato di farlo presente con tutta franchezza ad Astoride. Infine il tuo amico, dimostrandoti giustamente il suo scetticismo, ha dato luogo alla vostra divergenza di opinioni. Ecco quanto avevo da farvi presente!»

Per Astoride, anche se il ragionamento di Lucebio appariva senza dubbio perspicuo, esso però veniva fatto basare sulla premessa che egli già aveva la certezza della natura divina del vecchio forestiero. Per lui, dunque, il principale problema adesso era diventato un altro. Il giovane non voleva più sapere come l'anziano amico avesse fatto ad indovinare il motivo del suo dissidio con Iveonte. Invece era impaziente di apprendere da lui cosa lo avesse messo al corrente della divinità del canuto visitatore del loro campo. Allora, rivolgendosi al sapiente uomo assai incuriosito, gli domandò:

«Lucebio, prima che tu e Francide rientraste al campo, ti dispiace chiarirci da quali elementi concreti avevi desunto con convinzione che il vecchio forestiero era un dio? Vorrei comprendere solamente questo particolare da te, poiché esso mi risulta difficile da digerire!»

«Quando Francide ed io lo abbiamo incrociato sul nostro cammino, il suo sguardo mi ha colpito a tal punto, che non ho potuto fare a meno di voltarmi indietro e seguitare ad osservarlo, mentre si allontanava a piedi. A un certo momento, però, l'ho visto spiccare il volo verso il cielo infinito, simile ad uno sparviero. Ma la sua velocità è stata tale ai miei occhi, che in un attimo l'ho visto svanire al mio sguardo. Secondo te, Astoride, chi, se non una divinità, poteva operare un simile prodigio? Quanto a Francide, avendo ancora la mente rivolta alla sua Rindella, non ha scorto il vecchio e neppure lo ha visto prendere il volo verso il cielo azzurro. Ecco perché a tale fatto sono riuscito ad assistere solo io!»

«Comunque, Lucebio, resto ancora scettico, siccome il tuo racconto non costituisce una prova concreta ed irrefutabile. Tanto più che sei stato l'unica persona a seguire l'episodio del sospettato dio! Come tu stesso mi insegni, è possibile che tu sia rimasto vittima di un'allucinazione, nello stesso istante che seguivi il forestiero con lo sguardo. Alcune volte, l'occhio umano, tradito da uno stato psichico deformante, ci trae facilmente in inganno e ci fa vedere cose che in realtà non si svolgono davanti a noi, per il semplice fatto che sono inesistenti!»

«Le tue considerazioni sono giuste, Astoride. Per cui non posso né darti torto né addurre, come prova incontrovertibile, l'episodio che vi ho appena narrato! Esso non può farmi pretendere da te o da altri che vi convinciate della divinità dello sconosciuto, il quale è stato di passaggio dalle nostre parti ed ha perfino sostato brevemente presso il nostro campo. Comunque, c'è sempre il fatto che egli ha svelato ad Iveonte la sua natura divina, la qual cosa dovrebbe già bastarci.»

Avendo poi notato l'anello al dito di Iveonte, il quale non lo aveva mai avuto durante la sua permanenza nel suo campo, Lucebio aggiunse:

«Ad ogni modo, sono certo che il tuo amico vorrà anche esibirci qualche prova concreta, per persuaderci della divinità del suo ospite in maniera indubitabile. Tra poco vedrai che ho ragione!»

Subito dopo, rivolgendosi alla persona che egli aveva tirata in ballo e che lo stava seguendo con particolare interesse, Lucebio gli chiese: «In riferimento al mio discorso, Iveonte, che puoi dirci più di quanto ho già fatto presente? Spero che non mi sia sbagliato, riguardo a ciò che ho dichiarato prima! Allora ci dai la prova concreta, che attendiamo?»

«Sei sempre il solito acuto osservatore, Lucebio.» intervenne a rispondergli il giovane «Comunque, vi posso fornire non una ma due prove. La prima, ahimè, non sarà gradita dal nostro amico Astoride. Da oggi in avanti, come tutti potete constatare, egli dovrà fare a meno delle sue scorpacciate di more! Del nostro bel gelso, che ci offriva anche tanta frescura, oltre che i suoi saporiti frutti, ora possiamo scorgere solo la base. Essa, che si presenta interamente carbonizzata, è ciò che è rimasto del grande albero, il quale era preferito dal nostro goloso amico!»

«Chi è stato, Iveonte, ad incendiare l'albero che prediligevo più di tutti gli altri?» gli domandò il compagno, alquanto irritato «Riducendolo in quello stato pietoso, egli mi ha fatto uno sgradito regalo, come se avesse voluto punirmi per qualcosa!»

«È stato il vecchio ospite a trasformarlo così, Astoride, quando si è accorto che non credevo alla sua divinità. Allora, per darmene una dimostrazione, prima ha indicato il gelso con il suo indice destro e poi ha fatto partire da esso un raggio portentoso, il quale mi è parso di fuoco. Appena uscito dalla sua falangetta, all'istante esso ha avvolto l'albero con delle grosse vampe. Così esse se lo sono divorato all'istante!»

«Ma con tanti alberi infruttiferi che ci sono qui intorno, Iveonte, egli doveva prendere di mira proprio il mio amato gelso? Tu, amico mio, non potevi suggerirgli un albero diverso? Eppure anche a voi altri piacevano le sue dolci e gustose more! E non venite a dichiararmi che non è vero che pure voi le gradivate quanto me! Senza che lo manifestaste apertamente, forse esse vi piacevano più che a me!»

«Si vede che il dio Osur l'ha fatto di proposito, Astoride. Evidentemente, in quel momento, egli intendeva già punire l'incredulità che tu dopo avresti mostrata nei suoi riguardi. Su che sto scherzando, amico mio! Il guaio è stato che egli né mi ha detto ciò che intendeva fare dell'albero, né mi ha chiesto se esso andasse bene per me. Sennò lo avrei fatto agire contro un altro albero, che non era il nostro gelso!»

«Vedo, Iveonte, che conosci anche il nome del tuo divino ospite!» osservò Francide, intervenendo per la prima volta nella conversazione «Allora sono sicuro che sai riferirci anche più specificamente qualcosa su di lui! Ce ne vuoi rendere partecipe, con nostro sommo gradimento? Te ne saremo molto grati, amico mio fraterno!»

«Naturalmente, Francide, è stato il dio a rivelarmi il suo nome. Perciò adesso lo sapete pure voi che egli si chiama Osur. A ogni modo, anche se lo volessi, non saprei dirvi niente di più sul divino vegliardo, oltre al fatto che si chiama così! Mi dispiace di non potervi dire di più!»

In verità, Iveonte non se la sentì di aggiungere altro, siccome intendeva evitare di raccontare agli amici il contenuto dell'intera conversazione che aveva avuta con il dio; né voleva metterli al corrente delle varie rivelazioni che gli erano state fatte da lui. Per questo egli preferì palesare a loro tre il solo nome del dio e null'altro di quanto lo riguardava, lasciandoli con la loro insoddisfatta curiosità. Lucebio, da parte sua, si accorse subito della ritrosia di Iveonte a soddisfare le altre loro richieste che concernevano la sua conversazione con il dio Osur. Allora pensò di intervenire a modo suo, con il chiaro proposito di privarlo di un tale fastidio. Infatti, con l'intento di distrarre i suoi due amici da altre domande afferenti la preziosa divinità, egli, dopo essere entrato nuovamente nel discorso, incominciò a parlare al giovane in questo modo:

«Iveonte, la prova schiacciante, che ci hai fornita circa la divinità di Osur, convincerebbe perfino le pietre a crederti senza riserve. Ma adesso vuoi informarci dell'altra prova, alla quale hai fatto riferimento prima, quando hai asserito che ne avevi perlomeno due? Noi ti saremmo infinitamente grati, se tu ti mettessi a parlarci anche di essa! Anche se, ad esserti sincero, avrei già una mezza idea in merito ad essa!»

«Davvero dici, Lucebio?! Secondo te, allora essa quale sarebbe?»

«Non è forse un dono del dio Osur, l'anello che tieni infilato al dito medio della tua mano destra, che prima non hai mai avuto?»

«Come vedo, Lucebio, a te non sfugge proprio niente. Ebbene, la seconda prova è esattamente l'anello, quello che potete vedere anche voi. Esso è un regalo del dio Osur. Comunque, se devo esservi sincero, non conosco ancora quali poteri abbia questo oggetto. Il divino ospite si è dimenticato di informarmene: né mentre me lo regalava né durante l'intero tempo che si è intrattenuto a discorrere con me!»

«Pare un comune anello.» disse Francide, osservandolo da vicino «Me lo fai provare brevemente, Iveonte? Così vedrò quale sensazione esso è capace di trasmettermi. Probabilmente, nessuna, se neppure tu ne avverti, mentre lo tieni infilato al dito!»

«Se ti fa piacere, ti accontento subito, amico mio! Dammi soltanto il tempo che me lo sfili dal dito e poi te lo porga nel palmo della mano, che mi metterai a disposizione! Ma non aspettarti da esso chissà che cosa, come giustamente anche tu hai premesso prima!»

Così, dopo essersi tolto l'anello dal dito, Iveonte si prestò a porgerlo a Francide. Il giovane, però, immediatamente dopo averlo ricevuto nella mano da parte dell'amico, avvertì sulla cute di essa una forte scottatura. Per la qual cosa, per istinto lo lasciò cadere a terra. Nello stesso tempo, egli si diede ad urlare forte al compagno:

«Ahi, come scotta, Iveonte! Sembra proprio che esso sia arroventato! Dovevi dirmelo, amico mio, che l'anello aveva tale caratteristica negativa, prima di porgermelo per farmelo provare! Se tu lo avessi fatto, non mi sarei scottato! Per fortuna esso non mi ha provocato sulla mano alcuna ustione, neppure la più insignificante!»

Astoride, da parte sua, non credette per niente a Francide. Anzi, immaginò che i suoi due amici, intenzionati a burlarsi di lui per riderci sopra, si fossero messi d'accordo con qualche cenno nascosto, magari facendosi l'occhietto, pur di fargli credere che l'anello scottasse per davvero. Ad ogni modo, siccome il fenomeno non poteva essere assolutamente credibile, mai e poi mai ci sarebbe cascato come un vero tonto. Così, volendo farlo presente ad entrambi, li riprese in questo modo:

«Credete, amici, che io ci caschi, quasi fossi un grullo? Francide, come al solito, è incorreggibile nelle sue trovate burlesche, pur di dare brio alla discussione. Ma dal momento che non ci tiene a provare per primo l'anello, volentieri lo farò io al posto suo, sperando che dal divino Osur almeno mi giunga qualche grande beneficio. Chissà che non voglia restituirmi il mio adorabile gelso, quello che prima mi ha distrutto!»

Pronunciate le sue frasi, Astoride, mostrando una certa fiducia nel dio, in un attimo si chinò a raccattare l'anello, convinto che esso era un normale oggetto, come tanti altri. Invece lo si vide ritrarre all'istante la sua mano, gridando pure lui, alla stessa maniera di come aveva fatto l'amico Francide, qualche minuto prima.

«Ma quest'anello scotta per davvero e non per finta! Potevate dirmelo, amici miei, che questa volta non si trattava di un vostro scherzo! In questo modo, non avrei cercato di provarlo e non mi sarei scottato il pollice e l'indice della mano destra!»

«Io non potevo fartelo presente, Astoride, visto che non mi risulta che esso bruci, come tu e Francide asserite.» gli rispose Iveonte «Se ci tieni a saperlo, anch'io avevo creduto che il nostro comune amico stesse celiando! Oppure adesso siete in due a prendervi gioco di me? Invece vi invito a smetterla di fare gli zuzzurulloni con il mio anello, siccome non mi risulta che esso abbia la caratteristica che voi adesso gli attribuite!»

Francide, volendo giustificarsi con l'amico terdibano, il quale si era bruciato dopo di lui, mentre raccoglieva l'anello da terra senza temere alcuna scottatura, gli rispose:

«Certo che te l'ho detto, Astoride! Secondo me, il mio grido di dolore sarebbe dovuto giungerti più che eloquente! Tu, al contrario, convinto che stessi scherzando apposta per burlarmi di te, scetticamente non hai voluto credere ad esso! Comunque, il tuo scetticismo è risultato unicamente a danno tuo, come hai potuto constatare!»

Dopo aver risposto ad Astoride, il quale si era lamentato a ragion veduta, Francide si rivolse al compagno d'infanzia, volendo convincerlo che entrambi sul serio avevano accusato il dolore da loro riferito poco prima. Perciò, incominciò a dirgli seriamente:

«Ti do la mia parola, Iveonte, che io ed Astoride questa volta non stiamo prendendo in giro nessuno: né te né qualcun altro, che in questo caso sarebbe il nostro Lucebio! Anche se devo ammettere che la situazione lo lascia giustamente supporre, questa è la pura verità, amico mio fraterno! Quindi, ti esortiamo a crederci!»

«Insomma, scotta davvero questo benedetto anello oppure lo dite per finta?! Allora me lo affermate voi tre oppure intendete costringermi a verificarlo di persona?» Lucebio domandò ad Iveonte e ai suoi due amici, non riuscendo in quella circostanza a comprendere quale dei tre giovani stesse dicendo schiettamente la verità.

«Se ci tieni a non scottarti, Lucebio, ti consiglio di non toccarlo! Così eviterai la scottatura presa già da noi!» gli rispose Francide, parlandogli molto sinceramente.

«Se invece desideri scottarti, Lucebio, al fine di farti davvero male, non devi fare altro che raccoglierlo da terra!» aggiunse Astoride, mostrandosi altrettanto sincero.

Udite entrambe le risposte di Francide e di Astoride, le quali concordemente avevano cercato di svelargli la verità sull'anello, l'anziano uomo rimase poco convinto. Allora, per accertarne la veridicità senza aver dubbi di sorta, egli decise di rivolgersi a colui che da poco ne era divenuto il legittimo proprietario. Per questo gli domandò:

«Da parte tua, Iveonte, cosa mi consigli di credere, riguardo all'anello? Mi devo fidare oppure no dei tuoi amici, i quali oggi, se non mi sbaglio, si dimostrano dei veri buontemponi? Senza offendere l'uno e l'altro, a te darò retta senz'altro e crederò a tutto ciò che mi riferirai su di esso. Sono convinto che di te mi posso sul serio fidare ciecamente!»

«A questo punto, Lucebio, non saprei cosa consigliarti. So soltanto che l'anello al mio dito non scotta affatto. Ma siccome sono entrambi a confermarti che al tocco esso brucia, oserei suggerirti di dargli credito. Anche perché essi non si permetterebbero in alcun caso di coinvolgerti in una loro scherzosa presa in giro. Te lo garantisco!»

Una volta espresso il suo parere a Lucebio, Iveonte si affrettò a riprendersi l'anello da terra. Poi se lo infilò di nuovo al dito, senza che gli altri notassero in lui alcun sintomo di scottatura e di dolore. Lucebio allora, dopo essersi accostato al giovane, cercò di sfiorargli l'anello avuto in dono dal dio. Ma anch'egli dovette ritrarsi in fretta la mano, avendo avvertito una sensazione dolorifica ai polpastrelli delle dita che lo avevano toccato. Per cui si sentì di fare la seguente considerazione:

«Questo anello è una ulteriore prova tangibile della verace divinità del sedicente dio Osur. Esso stesso si dimostra un prodotto portentoso, oltre che rivelare in sé la presenza del soprannaturale. Il divino oggetto non fa scottare soltanto colui che lo ha ricevuto in regalo dal dio. Per tutte le altre persone, invece, esso risulta intoccabile e non si lascia neppure sfiorare dalle loro dita. Pena una bella scottatura!»

Anche Astoride, da parte sua, ricredendosi, si era convinto che era suo dovere scusarsi con l'amico. Infatti, prima si era mostrato scettico verso quanto Iveonte aveva provato ad affermargli, a proposito dell'ospite. Dunque, rivolgendosi a lui con pentimento, egli tese a concludere il discorso con le seguenti sentite parole:

«Stando così le cose, Iveonte, non mi resta che farti le mie scuse, per non aver preso seriamente ciò che avevi cercato di riferirmi sul conto del forestiero. Si vede che in quel momento avevo dimenticato che hai dei protettori lassù, pronti a venirti in soccorso in caso di bisogno! La stessa tua spada è un'arma miracolosa, essendo intervenuta alcune volte a tuo favore. Essa lo ha fatto, quando ti sei trovato a combattere contro le soprannaturali forze malefiche. Così il suo provvidenziale intervento ha avvantaggiato pure quanti erano con te. Di certo, il suo aiuto non ha mai sminuito il tuo valore e il tuo coraggio, i quali si sono sempre dimostrati insuperabili, portandoti a compiere atti di eroismo eccezionali. Anche sul conto di Francide posso dire la stessa cosa. Egli, se proprio non è par tuo, manca poco che lo sia. A voi due debbo la mia riconoscenza, per avermi tirato fuori dal Castello Maledetto e per avermi consentito di godere nuovamente del gradevole miracolo della natura! Perciò sono convinto che non mi dimenticherò mai più né di te né di lui per la restante parte della mia vita!»

Nel frattempo il sole si era avviato verso il tramonto, iniziando ad avviluppare ogni cosa in una soffusa luce rossastra. Quel fenomeno naturale di fine giornata ricordò a Lucebio e ai tre giovani amici che quella era pure l'ora della cena. Allora essi si sedettero a tavola senza perdere un minuto di tempo. Quella sera essi non si dovevano preparare il pasto serale, poiché se lo trovavano già bell'e pronto. Esso, infatti, era stato loro donato da Sosimo, il quale lo aveva consegnato a Lucebio e a Francide, quando erano stati a casa sua a far visita a Madissa e a Rindella, precisamente mentre la lasciavano.

Dopo cena, visto che Francide ed Astoride se ne erano andati in giro a far quattro passi al chiarore lunare, Iveonte era rimasto solo con Lucebio. Così aveva approfittato di quell'occasione per raccontargli integralmente la conversazione avuta con il dio Osur. Da essa, era saltato fuori anche che era la sua spada, cioè la divina Kronel, ad organizzare i misteriosi sogni che erano appartenuti a lui e alla sua Lerinda. Ella gli aveva pure promesso che, per il momento, li avrebbe lasciati in pace. Perciò il mattino dopo si sarebbe precipitato dalla sua ragazza per metterla al corrente di ogni cosa e per liberare la sua mente dal pensiero che la faceva preoccupare. A quelle sue notizie, Lucebio diede al giovane il seguente consiglio:

«Iveonte, ti raccomando di non dire alla tua ragazza che, sotto le apparenze di una spada, si cela una diva, la quale è tanto bella quanto innamorata di te. Non si sa mai come ella potrebbe prenderla! Magari, non volendo, le rovineresti per sempre l'esistenza. Perciò ti limiterai a dirle solamente che la tua spada è un'arma prodigiosa, la quale, organizzando i vostri sogni in quel modo, ha esclusivamente cercato di recarvi piacere. Quanto al resto, ti esorto a tenere la bocca chiusa, se non vuoi crearti un sacco di inutili problemi! Ti raccomando, giovanotto: tieni a mente le mie parole!»

«Certamente farò come mi hai consigliato, Lucebio. Giammai, comunque, mi sarei azzardato a fare una sciocchezza simile!» gli rispose Iveonte «Oramai ho imparato a conoscere benissimo la mia Lerinda, fino a scoprire che ella si mostra molto gelosa di me. Sono sicuro che l'esistenza di una sua rivale, per giunta divina, non la farebbe più stare tranquilla tanto di giorno quanto di notte! Te lo posso garantire!»

Dopo aver dato quella sua risposta al saggio amico Lucebio, il giovane si congedò da lui. Egli era già pronto per andarsene a dormire, considerato che il sonno si faceva avvertire in lui in modo invincibile. Per la qual cosa, non vedeva l'ora di consegnarsi nelle sue spire avvolgenti, al fine di saziarsi di un buon riposo ristoratore.