164-IL FENOMENO CHE AVEVA IMPRESSIONATO IL DIO IVEON

Un giorno il dio Iveon, sempre per lo stesso motivo, era impegnato nel suo ennesimo volo spaziale e lo stava effettuando, tenendosi all'interno del sistema stellare in cui orbitava il suo pianeta. All'improvviso gli era capitato di avvistare qualcosa di incredibilmente insolito in uno spazio circoscritto, il quale era situato tra la galassia di Astap e quella di Paren. Ad essere obiettivi, dal punto in cui egli si trovava a volare a velocità supersonica si riusciva ad intravedere ben poco del fenomeno da lui individuato, il quale aveva appena iniziato a prendervi corpo e forma. All'eroe divino, però, erano bastati anche quegli scarsi elementi per convincersi che in tale parte di Kosmos lo spazio non era dedito alla sua regolare evoluzione espansiva. Ossia, esso non si dava a svolgersi, secondo i principi della dinamica celeste architettata ed imposta da Splendor. Perché mai in quella parte del cosmo si stava effettuando una espansione spaziale difforme, come non si verificava altrove?

Presentandosi quell'evento del tutto anormale e non riuscendo ad imputarlo ad alcuna causa sia fisica che metafisica, il dio dell'eroismo si era dato a varie considerazioni e congetture. Con esse egli intendeva spiegarsi lo straordinario fenomeno in evoluzione, la cui natura non risultava ancora inquadrabile in qualche categoria di appartenenza, allo scopo di assegnarla al tipo che più potesse comprenderla. Per questo il dio positivo stava aspettando di venire in possesso di ulteriori indizi, che gli permettessero di annoverarla nel gruppo più confacente ad essa. Nel contempo, la sua mente faceva degli strani percorsi, i quali a volte rasentavano il fantastico altre volte si tuffavano nell'assurdo. Insomma, perché in quella regione cosmica lo spazio stava reagendo in tale maniera? Dopo che c'era stato l'avvento in Kosmos della Deivora, di cui un gran numero di divinità positive e negative avevano sperimentato gli effetti a loro spese, nessuno più avrebbe scommesso che la realtà cosmica fosse l'unica cosa ad esistere, al di fuori di Luxan e di Tenebrun.

Da un momento all'altro, quindi, poteva comparire una nuova realtà del tutto differente, la quale, contrapponendosi a quella di Kosmos, si sarebbe manifestata oltremodo lesiva nei suoi confronti e verso le sue creature. In virtù di quel ragionamento, che presentava basi concrete, il divino Iveon aveva perfino azzardato che si stesse verificando nel limitato spazio da lui considerato qualcosa del genere. Perciò il dio Iveon, non volendo sottovalutare il fenomeno, non si era astenuto dal mettere in conto anche l'incipiente nascita di un essere tanto orribile quanto disastroso. Esso si sarebbe potuto dimostrare non differente dalla ex divoratrice di divinità, che nel passato aveva scombussolato Kosmos.

Pressato da quella profonda preoccupazione, che aveva iniziato ad impressionarlo parecchio, il dio dell'eroismo aveva voluto accertarsi direttamente che l'inusuale fenomeno non stava facendo germinare di nuovo il disastroso evento da lui paventato. Se poi la sua ipotesi fosse risultata fondata, sarebbe stato opportuno troncarlo al suo nascere, prima che diventasse di enormi proporzioni, com'era successo in passato con l'orrida Deivora. Forse le sole sue forze non sarebbero state bastevoli per estirparlo alla radice; però, in tale caso specifico, egli sarebbe ricorso alle due eccelse divinità di Luxan, appunto per richiedere ancora il loro validissimo intervento. Allora, prima di andare a fare il suo sopralluogo in quella zona che non era neppure tanto lontana da Zupes, il dio Iveon aveva ritenuto opportuno avvisare l'amata consorte del viaggio che stava per intraprendere. Così, dopo averle garantito che sarebbe stato di ritorno entro il giorno in cui era stata fissata l'iniziazione del divo Olin, egli aveva lasciato il suo pianeta. Una volta poi nello spazio cosmico, il dio positivo si era dato ad una volata, la quale ve lo faceva sfrecciare più veloce della luce. La sua corsa attraverso Kosmos, però, non era avvenuta priva di talune riflessioni, le quali lo avevano assalito senza sosta, inducendolo a stimare il problema da varie angolazioni possibili. Ma da parte nostra, ci limiteremo a citarne le due più importanti, cioè quelle che maggiormente avevano tenuto impegnata la sua mente.

La prima riflessione gli aveva fatto considerare in senso assoluto un aspetto dell'opera creativa della divinità numero uno di Luxan, che era Splendor. Invece la seconda non aveva cessato di infondergli molta preoccupazione. Innanzitutto, il dio dell'eroismo si era domandato come mai fossero sfuggite a Splendor anomalie di quel tipo. Esse, dal punto di vista esistenziale, a volte mettevano Kosmos in una situazione di grave difficoltà. Oppure, ammesso il caso che ve le avesse intraviste, egli si chiedeva ulteriormente perché mai non avesse voluto oppure non avesse potuto salvaguardarlo da anomalie di quella specie. Ma in seguito, attraverso un attento esame del caso, si era dato da sé la debita risposta, attraverso un ragionamento che tra poco conosceremo.

Pur rappresentando egli la somma perfezione, Splendor poteva ottenerla in tutte le sue creature, a condizione che la loro creazione avvenisse in Luxan. Anche in questo luogo, però, la perfezione, di cui erano dotate le sue creature, pur dimostrandosi della migliore qualità esistente, giammai sarebbe potuta essere identica a quella del suo creatore. Altrimenti si sarebbero avuti altri infiniti esseri, che erano da reputarsi autentiche copie di sé stesso. Invece tutt'altra storia era stata per lui, quando l'onnipotente padre di tutte le divinità aveva creato Kosmos e si era dovuto confrontare con una materia indocile, che si ribellava perfino alle energie in essa circolanti. Per questo, data la difficile malleabilità della materia, la quale per natura era portata a non lasciarsi plasmare dall'elemento spirituale, egli aveva faticato abbastanza nell'assoggettarla alle proprie leggi e nell'obbligarla a conformarsi ad un proprio modello di perfezione. Esso, comunque, in un regno dove la concreta materia veniva a farla da padrona, era da stimarsi il massimo che il padre degli dèi aveva potuto ottenere. Per causa di forza maggiore, dunque, c'erano stati alcuni decrementi perfettivi nella creazione di Kosmos, in termini sia di resa che di durevolezza. Di fronte ai quali, arrendendosi, egli aveva dovuto cedere il passo, senza potersi opporre.

Può darsi anche che erano state proprio quelle perdite o imperfezioni, dipende da come le si volessero definire, a sottrarsi volutamente al controllo del creatore di Kosmos. Oppure quest'ultimo, nonostante le avesse ravvisate nella sua opera creativa, non aveva ritenuto opportuno attribuirgli un peso eccessivo. Infatti, esse venivano a rappresentare nella realtà cosmica una parte talmente esigua e trascurabile, da non potere essere nemmeno rilevate in qualche modo nell'immensità della sua infinita creazione. Va fatto presente che quelle anomalie e menomazioni c'erano state fin dall'inizio e seguitavano ad esserci tuttora, benché nessuno potesse rendersi conto di loro. Difatti le medesime esistevano là dove l'arcano più fitto le celava perfino agli occhi delle divinità. Se invece fossero rimaste per sempre nella loro esistenza occulta, occupate solamente a prendere coscienza passiva di sé stesse, il loro problema poteva anche non destare nessuna preoccupazione in seno a Kosmos. Al contrario, le suddette anormalità creative, come la Deivora aveva dimostrato, non sempre se ne restavano nel loro torpore esistenziale, ossia in uno stato di assoluta calma e di invisibilità. A volte esse, dimostrandosi annoiate della loro esistenza apatica, reagivano con tutta la loro violenza distruttiva per far mostra delle proprie potenzialità. In una simile evenienza, queste ultime si trasformavano in un qualcosa di infinitamente mostruoso per dare attuazione alla loro invincibile forza. La quale, da parte sua, era capace di scatenare nello spazio cosmico degli scenari apocalittici davvero impressionanti e destabilizzanti.

In merito alla seconda riflessione dell'eroico dio, la quale gli era derivata dal fenomeno che si apprestava a studiare, essa si era incentrata su un problema di natura filantropica. Il quale non lo teneva affatto allegro, se egli prendeva in considerazione i devastanti sviluppi che ne sarebbero potuti originare, ammettendo che esso nel futuro si fosse verificato realmente. Infatti, trovandosi le divinità e i Materiadi di nuovo di fronte ad una entità del tipo della Deivora, le cose avrebbero preso ancora una brutta piega, prevedendo la disastrosità del suo esistere in Kosmos nei confronti delle une e degli altri. Anche se i soli Materiadi sarebbero stati danneggiati in maniera catastrofica per vie traverse, per il fatto che la loro rovina sarebbe derivata dalla distruzione delle stelle e degli astri che orbitavano intorno ad esse.

Questa volta, però, l'eventuale apparizione di un mostro così straordinario e malvagio non sarebbe avvenuta in una località spaziale remotissima, com'era successo con la Deivora. Invece esso sarebbe divenuto un fatto reale in uno spazio, che doveva essere considerato poco distante da Zupes. Il suo pianeta, perciò, sarebbe stato minacciato quasi da vicino dall'ipotetico essere abominevole. Il quale non era disposto a fare sconti agli astri sia accesi che spenti, poiché avrebbe bramato di travolgerli nella sua rovinosa spirale di distruzione. Ecco perché, prospettandosi per il suo pianeta e per i suoi abitanti un avvenire tanto calamitoso quanto incerto, il dio Iveon non aveva potuto fare a meno di rammaricarsene seriamente. Nel medesimo tempo, egli si era ripromesso di prendere al più presto i dovuti provvedimenti, affinché l'uno e gli altri non avessero a subirne le micidiali conseguenze. Ciò, anche nel caso in cui si fosse avverato il temuto evento minaccioso!

Ovviamente, nelle sue possibilità, il dio indagatore avrebbe lottato con ogni mezzo per sottrarli all'inarrestabile ed incontrollabile evoluzione del distruttivo fenomeno, putacaso fosse risultato reale. Secondo il suo parere, che era da considerarsi una certezza matematica, esso avrebbe fatto di tutto per scatenare in una buona parte di Kosmos lo scompiglio più caotico e sconvolgente. A ogni modo, in cima alla lista di coloro che il dio dell'eroismo si preoccupava di proteggere, non poteva che esserci la sua divina consorte. In verità, anche i carissimi amici di famiglia, ossia il dio Ukton, la dea Elesia e il loro figlioletto Olin, occupavano un posto preminente nell'animo suo e di quello della moglie.

Riguardo alla sua adorabile Annura, egli intendeva preservarla da ogni genere di pericolo, siccome la sofferenza della consorte sarebbe stata anche la sua. Per la quale ragione, l'eroico dio non se lo sarebbe mai perdonato, se avesse permesso che un accidente qualsiasi fosse capitato alla sua metà. In quel caso, egli si sarebbe addossato la intera responsabilità, anche quando la colpa fosse da ricercarsi invece in qualcuno che poteva trovarsi in una parte di Kosmos lontana da lei una innumerevole quantità di lucet! Secondo lui, sua moglie riusciva a riempire la vastità del suo animo e della sua mente, suscitandovi una gaia atmosfera e cospargendola di amenità estasianti. Ella arricchiva l'uno e l'altra di suggestioni indefinibili, le quali vi si insediavano come essenze gradevoli ed appaganti. A volte bastava il solo suo pensiero a lei rivolto, per vedersi e sentirsi trasformare positivamente fuori e dentro di sé. Gli sembrava come se un improvviso turbine ciclonico venisse ad investirlo esternamente con tatto, con grazia e con amorevolezza infinita. Nella sua interiorità, lo stesso ciclone si mostrava apportatore di stati emozionali suggestivi ed ineffabili, nonché di un gaudio impagabile ed incommensurabile. Senza avere Annura al suo fianco, l'intera sua esistenza finiva per vacillare: vi morivano i pensieri, vi si annichilivano le idee, vi ammuffivano i desideri, vi tramontavano le speranze, vi affievolivano le idealità. Non c'era un valido motivo perché la passione seguitasse ad esserci, siccome essa diveniva qualcosa di conturbante, pronto a piombare nell'orrido e nel raccapricciante. Per lui, considerare la sua amata inesistente era come venire sommerso dall'oblio assoluto. Il quale tendeva a rendere fatiscente ogni sua concezione e ad annullare ogni sua facoltà intellettiva. Anzi, era probabile che alla fine egli dichiarasse sé stesso un essere inutile ed impotente a produrre atti coscienti.

A conclusione delle sue considerazioni nei confronti dell'amata, l'eroe divino vedeva nell'esistenza di lei anche la sua ragion d'essere, per cui il suo sé diveniva esistente e pensante. D'altro canto, il suo divenire si esplicava in un momento di fusione delle sue due componenti costitutive, cioè quella spirituale e quella psichica. Cercare di prescindere dalla somma di tali fattori, era la stessa cosa che autosospendersi dal proprio essere e divenire. Così diventava lo spettro di una divinità che faceva fatica perfino a riconoscersi come tale. Infatti, essi erano in correlazione con l'esistenza di lei e ne dipendevano a guisa di un cordone ombelicale, il quale non era stato mai troncato alla sua nascita. Per questo continuava a vivere esclusivamente perché esisteva lei.


Le sue riflessioni erano appena terminate, quando il dio Iveon si era ritrovato alquanto vicino al fenomeno che lo aveva impressionato e che gli premeva di studiare. Il suo studio gli doveva servire per averne una conoscenza, che fosse il più possibile reale e dettagliata nella sua autogenerazione. Perciò egli prima aveva impresso una decelerazione alla sua volata e poi aveva privato la sua avanzata di ogni velocità, ponendo fine ad essa. A quel punto, il dio si era allogato in un posto che avrebbe dovuto garantirgli sia una efficiente copertura sia la massima sicurezza. Tenendosi poi appartato in quella postazione, la quale era situata ad una distanza tale da consentirgli un'agevole osservazione del fenomeno, egli aveva iniziato a scrutare quanto di inverosimile si stava verificando davanti ai suoi occhi basiti. Intanto che si dava ad osservarlo e a studiarlo, evitava ogni distrazione.

Si può sapere cosa in realtà si andava svolgendo alla sua vista di tanto immane e stupefacente, da farlo trasecolare come non gli era mai accaduto? Beninteso, il terrore non lo aveva ancora investito o sfiorato; forse giammai una cosa simile sarebbe accaduta in una fibra spirituale come la sua. Al contrario, l'eroico dio era abituato a somministrarlo alle divinità malefiche, quando l'obbligavano a farlo. Perciò egli non era stato mai costretto ad assaggiarlo da parte di un suo rivale o di qualche circostanza avversa derivante dall'anormalità di un fenomeno. Allora, al fine di dare una risposta esauriente alla nostra precedente domanda, ci mettiamo subito a spiegarlo, facendone una descrizione che sia quanto più circostanziata possibile.

Lo spazio di Kosmos, come le divinità positive e negative avevano avuto modo di constatare, si presentava cristallino; inoltre, esso era immenso e popolato da una miriade infinita di astri, i quali apparivano diversi sia per tipologia che per dimensione. Era in virtù della sua trasparenza che lo spazio permetteva di visionare i vari suoi elementi agli dèi e ai Materiadi, essendo essi in grado di farlo. La sua limpidezza convinceva gli stessi esseri che ciascun settore cosmico preso a caso non poteva avere alcun'altra caratteristica che non fossero la vuotaggine e la trasparenza. Difatti esso risultava vuoto e capace di contenere dei corpi materiali di qualsiasi grandezza. Quindi, era inimmaginabile che il medesimo celasse in qualche parte di sé un secondo vuoto, oltre a quello visibile in cui potevano effettuarsi delle attività oppure rinvenirsi degli elementi materiali di natura differente. Ammesso che ciò fosse stato possibile, molto sicuramente l'ipotizzato nuovo vuoto non avrebbe fatto parte di Kosmos. Al contrario, sarebbe stato considerato appartenente ad una realtà che poteva solo escluderlo, siccome non si mostrava dello stesso tipo e non era rintracciabile in nessuna parte di esso. Ma se era facile considerare un vuoto simile come appartenente ad una realtà diversa, non era altrettanto semplice localizzarlo ed addentrarvisi per studiarlo. La sua natura, rivelandosi nascosta nella sua esplicazione ed assurda nella sua concezione, lo avrebbe reso irraggiungibile in qualsiasi modo si cercasse di contattarlo. Ciò sarebbe avvenuto, sia ricorrendo a mezzi materiali sia facendo uso di facoltà spirituali, dal momento che un vuoto del genere appariva totalmente inesistente proprio in quella parte circoscritta dell'universo.

Prima il nostro ragionamento ci aveva permesso di azzardare le contemplate ipotesi relative al vuoto da noi considerato, poiché si era partiti dalla premessa della sua concreta esistenza. Adesso, invece, c'era la realtà dei fatti a dimostrare che, accettandolo come assolutamente esistente, non si trattava più di una mera supposizione. Comunque, c'erano ancora da verificare le citate ipotesi nella loro insita specificazione, a completamento della reale definizione del suddetto vuoto. A tale riguardo, il dio Iveon si era già assunto il compito di farlo in tempi rapidi. Per il momento, però, conviene interessarci di quello strano fenomeno, il quale stava stupendo l'eroe divino in maniera particolare ed incuriosendo noi in modo ossessivo.

Nella zona suindicata, posta attualmente sotto osservazione dal nostro eroe divino, una gran quantità di spazio aveva iniziato a subire un processo degenerativo, che era impossibile giustificare con qualcuna delle leggi cosmiche. Infatti, esso non lo presentava più con la sua struttura diafana, immota e percorribile. All'inverso, gli forniva una nuova composizione, nella quale sembrava che si andassero addensando moti d'aria appena percettibili, che erano dediti a molteplici estrinsecazioni platealmente avvertibili. A dire il vero, tali manifestazioni esteriori, da parte loro, non apparivano delle semplici forme semitrasparenti. Esse, pur rivestendo la qualità di visibilità specificata, si davano invece a trasformazioni ben più complesse. Nello stesso tempo, tendevano ad essere e a non essere, ad apparire e a scomparire, ad estroflettersi e ad invaginarsi, ad aprirsi e a chiudersi, ad esplodere e ad implodere, ad inturgidirsi e ad afflosciarsi. Così facendo, creavano un frastuono di figure ora omogenee ora disomogenee. Il termine frastuono calzava a pennello, sebbene non si trattasse di veri rumori, poiché la loro dissonanza li faceva percepire assai fragorosi.

Al termine della loro esibizione figurativa, durante la quale si era assistito ad un balenamento intermittente di immagini annegate in una visibilità che l'occhio a stento riusciva a captare, erano poi seguite delle nuove dimostrazioni da parte dello spazio considerato. Questa volta, però, esse si erano rivelate piuttosto truculente, poiché non erano state più delle figure, spesso contorte e deformi, a mettere in evidenza il misterioso fenomeno. Anzi, un diverso spettacolo, che nessuno mai si sarebbe sognato, si era incaricato di darne la raffigurazione, attraverso movimenti e forme che si attorcigliavano fra loro. Quasi si stessero incatenando con grande compiacimento! Di repente, si era messa in moto la formazione di una nebulosa policroma, visto che, a dare origine a tale fenomeno, era un fiume straripante e pullulante di strati nebbiogeni di diversi colori. Esso, venendo fuori dal nulla, si espandeva sfericamente nello spazio ed avanzava dall'interno verso l'esterno, essendo intenzionato ad inondarlo per intero.

In un primo tempo, quel suo movimento spiraliforme era avvenuto senza provocare problemi di sorta, poiché il suo spostamento si dimostrava continuo e costante; inoltre, procedeva con una regolarità che non destava alcuna preoccupazione. Invece, dopo aver completato la sua opera di riempimento, fino a dare origine all'accennata nebulosa, esso aveva preso tutt'altra piega. Così era passato dalla calma assoluta, quella che aveva mostrata fino allora, a qualcosa di enormemente opposto, il quale se ne differenziava in modo profondo. In un baleno, le policromatiche fasce sfumate che lo contraddistinguevano, modificandosi in seno ad un generale rimescolamento, avevano assunto diverse tonalità, questa volta appartenenti ai soli colori nero e grigio. Questi adesso si erano dati a combattersi senza tregua, in una lotta senza quartiere, per prendere il sopravvento dell'uno sull'altro. In breve tempo, la ridda dicromica aveva suscitato in ogni parte di quello spazio delimitato una tempesta di assalti caotici ed inflessibili. Così agendo, essa dava luogo a lampeggiamenti chiaroscurali e a mischie grottesche, da parte dei lembi di strato che si presentavano in bianco e nero. Anzi, gli uni e le altre avevano iniziato ad azzannarsi reciprocamente, dando luogo ad una efferata baruffa; la quale non se la sentiva in nessuna maniera di smettere di provocare dei danni a dismisura.

Dal punto di vista fonico, quel groviglio brumoso, dalle sfumature grigionerastre, non si esprimeva invece in alcun modo, per cui non c'era alcun tipo di rumori a caratterizzarlo: né tenui né modesti né forti. In realtà, anche se non provenivano degli effetti sonori da quel fenomeno non previsto dalla dinamica celeste, a chi l'osservava da lontano pareva che ne giungessero una caterva e di molti tipi. Perciò, ciascuno in modo differente, essi gli bistrattavano l'udito, a causa della stridente cacofonia che riproducevano durante il lungo tragitto, tempestando il vuoto spazio di ingenti riflessi rumorosi. Nell'affondare con lo sguardo in quel caos di campi spaziali disomogenei, che si rimescolavano con manifesti intenti di zuffa e ripullulavano di infiniti chiaroscuri in fermento, il dio Iveon non si era mostrato immune da simili emissioni soniche menzionate. Per questo era stato costretto a subirle, senza che ci fosse il suo consenso.

Mentre veniva invaso da quel guazzabuglio di rumori, che probabilmente erano da considerarsi dei veri schianti o qualcos'altro di più lesivo per l'udito, gli era accaduto di udire una pluralità di effetti acustici, a volte l'uno di seguito all'altro, altre volte in simultaneità. In qualche caso, aveva perfino avvertito dei boati, delle esplosioni e delle deflagrazioni, mentre si esprimevano in una selva inestricabile di ammassi nebulosi. Inoltre, oltre ad avvolgersi a spire, essi parevano inviare intorno a sé zaffate del proprio essere chiassoso. Spesso il divino eroe era stato tempestato di urli, fischi e sibili acuti, che si erano manifestati in seno a spezzoni spaziali intenti ad aggredirsi e ad avvinghiarsi tra di loro. Non erano mancate neppure circostanze, nelle quali il poveretto era rimasto assordato da clangori, schiamazzi e clamori. Essi erano impazzati in una sfuggente nuvolaglia, che si ammassava e si arrotolava su sé stessa.

Non volendo omettere alcuna cosa appartenente a quel fenomeno, il dio Iveon non era stato lasciato in pace neppure dai fragori, dai rimbombi e dai rintronamenti, i quali erano la conseguenza di immense vuotaggini, che non smettevano di ingurgitare delle masse ribollenti. Queste, infatti, guizzando da una foschia convulsa, volontariamente vi si tuffavano precipitose. Tale terna sonica si era fatta seguire da rovinii e da sconquassi, intanto che l'area spaziale interessata dai medesimi si presentava perturbata da spessi ed immani banchi, i quali prendevano forma di ghirigori allucinanti. Per ultimo, si era avuta la netta percezione che vi si stessero dilagando strepiti, scoppi e stridori inverosimili. Questi si erano accompagnati alla fenomenologia offerta da incrinature e fessurazioni, le quali si andavano verificando sopra l'informe superficie di uno spazio collassante. Procedendo quel fenomeno come abbiamo espresso, il dio Iveon, prima di andare a studiarlo da vicino, aveva aspettato che esso ponesse fine alla sua incipiente evoluzione abnorme e si mitigasse in qualche modo con il tempo. Ma questa seguitava a gravare nell'ambito dello spazio considerato, sottoponendolo alle sue evidenti storture di espressione, che non gli davano né pace né tregua. Per la verità, non era neppure mancato il momento dei cigolii, degli sciabordii e dei tramenii. Essi, intanto che si originavano, consonavano con quegli spettacoli contemporanei che non venivano meno nel medesimo spazio. Anzi, vi si esibivano con la loro assurda carrellata di sinistri e di biechi stravolgimenti di quel ristretto settore della realtà cosmica.

Alla fine, il debellatore della Deivora non ne aveva potuto più di tollerare quel misterioso spazio da lui tenuto sotto stretta sorveglianza, la cui mostruosità in ebollizione non faceva altro che renderlo maldisposto nei suoi confronti. Visto poi che esso continuava a ferirlo visivamente ed acusticamente senza moderazione, egli aveva deciso di raggiungerlo e di affondare in esso e di penetrarlo. Secondo il suo parere, se lo avesse scrutato stando all'interno di esso, avrebbe ottenuto dei risultati non più opinabili; ma sicuramente indiscutibili ed inoppugnabili. Così, da parte sua, ci sarebbe stato un immancabile studio di un simile fenomeno, esente da ogni errore. Allora, avendo accolto con favore tale sua convinzione, l'eroico dio aveva abbandonato la postazione che gli stava permettendo di osservare da lontano lo strano evento cosmico. Dopo si era lanciato alla volta di esso, poiché aveva l'intenzione di addentrarvisi e di comprenderlo nel suo contesto germinativo, considerato che tale fatto gli restava tuttora ignoto. Durante il nuovo volo, il divino eroe si convinceva maggiormente che, standovi dentro, non avrebbe avuto difficoltà a studiarne l'embrione, oltre che l'energia e la potenza. Le quali vi risultavano ingenite, come promotrici instabili del suo essere e divenire.

Comunque, gli obiettivi preminenti della sua missione sarebbero stati due. Con il primo, egli intendeva addivenire alla conoscenza dell'origine del fenomeno spaziale in questione, il quale si rivelava sul serio molto strano; mentre, con il secondo, mirava a prendere coscienza del suo fine ultimo. Solo a conseguimento avvenuto di entrambi, il dio avrebbe potuto trarre le debite conclusioni, decidendo così se dargli importanza oppure non tenerne addirittura conto. In caso affermativo, egli avrebbe anche stabilito a quali provvedimenti ricorrere, allo scopo di prevenire oppure di evitare inattese catastrofi cosmiche. Altrimenti, se non fossero state ostacolate, esse avrebbero potuto coinvolgere le divinità e i Materiadi di una parte considerevole di Kosmos.


Dopo essersi trasferito nella brumosa area dello spazio, da lui tenuta sotto controllo, la quale era in netto contrasto con la realtà cosmica, il divino Iveon non aveva accusato niente di particolare che avesse potuto metterlo sul chi va là. Il suo ingresso in quella massa oceanica di agitazione e di scombussolamento era avvenuto regolarmente, ossia senza che nessun fatto di potere straordinario avesse arrestato la sua corsa oppure gli avesse causato disturbi di qualche specie. Perciò egli aveva continuato ad avanzarvi senza timore, essendo desideroso di pervenire al più presto al centro di quel pezzo di spazio, che nel cosmo si presentava come l'eccezione alla regola. Invece il suo arrivo nella sua parte centrale all'stante gli aveva segnalato che il suo spostamento appariva irregolare, poiché i suoi movimenti non erano più agevoli e tendevano ad essere impacciati. Essi, nel suo sentire psichico e non nella sua realtà spirituale, erano cominciati a diventare in qualche modo difettosi. Difatti gli era parso che i suoi arti iniziassero a rattrappirsi e ad accusare dei lievi disturbi motori, se proprio non si trattava di una vera anchilosi.

Pensandoci bene, in simultaneità, il dio Iveon aveva avuto la sensazione che dentro di sé si stesse manifestando pure un ottundimento della coscienza. Il quale gli stava portando via in parte la libertà di pensiero e di riflessione, facendolo calare man mano in uno stato confusionale sempre più grave. Nel divenire cosciente della sua sintomatologia psichica ormai in atto contro la propria volontà, il dio dell'eroismo era stato del parere che essa fosse solo all'inizio e non ancora conclamata. Allora aveva cercato di correre ai ripari, prima che per lui fosse troppo tardi. Così, essendo intenzionato a non farsi intrappolare da una entità sconosciuta, egli si era affrettato ad uscirne, essendo convinto di potercela fare. A suo giudizio, l'evenienza dell'intrappolamento si sarebbe verificata senz'altro, se fosse rimasto di più in quel posto ad approfondire la sua incipiente situazione poco felice. Al contrario, il dio Iveon aveva fatto male i conti, siccome gli era venuta meno qualunque possibilità di ripensarci e di evitare ciò che aveva temuto poco prima. Ma egli se n'era accorto in seguito, quando aveva constatato che gli era sfuggita per sempre l'occasione di abbandonare quel luogo e di allontanarsene in tempo utile. Nello stesso tempo si era pentito di non averlo fatto, quando gli era consentito di tirarsene fuori senza difficoltà di sorta.

Constatata l'impossibilità di ritornare sui propri passi, il divino eroe, non essendo disposto ad arrendersi a chi cercava di sopraffarlo, aveva tentato ogni strada possibile per sfuggirgli. Intanto, però, doveva liberarsi da quel qualcosa che si stava rivelando per lui un'autentica trappola, a cui non sapeva dare un nome. Pur di raggiungere il suo scopo, egli non aveva tralasciato nessuna cosa ed aveva messo in campo ogni sua risorsa di divinità scaltrita e sagace. Ma ugualmente il suo darsi da fare in tal senso non lo aveva aiutato ad uscire dal ginepraio di scombussolamenti in cui si era immesso. Anzi, si era reso conto di non essere più in grado di fare neppure un passo verso la sua sospirata liberazione. Il dio dell'eroismo ignorava che per lui il peggio doveva ancora arrivare, siccome lo attendeva una lotta impari, la quale per il momento non si manifestava ancora. Essa, dopo avergli demolito la volontà e fiaccato lo spirito, lo avrebbe messo in ginocchio, senza permettergli di reagire.

Mentre la sua reazione cercava invano di approdare a risultati concreti, all'improvviso c'era stato un arresto coatto anche per essa, poiché egli era stato privato perfino della capacità di reagire in qualche modo. Alla fine, si erano dimostrati irriti tutti gli sforzi del dio nel tentare di ottenere qualche risultato positivo contro la forza oscura, che lo stava attanagliando nella sua morsa spietata. Per cui di lì a poco il poveretto si era visto andare alla deriva, senza poter più nulla contro di essa. In un attimo, era diventato una entità spirituale e psichica privata di ogni potere di agire e di decidere. Infatti, il dio Iveon si rendeva conto che adesso c'era qualcun altro a prendere qualsiasi decisione al posto suo, naturalmente contro di lui, dopo aver fatto diventare impotente la sua volontà. Inoltre, non gli era dato di sapere chi era il suo invisibile nemico che lo aveva adescato a sua insaputa. Come pure gli era negato di conoscere ciò che il medesimo stava facendo della sua essenza malconcia. Anzi, in breve tempo le cose avevano incominciato a peggiorare ulteriormente per lui, essendosi visto e sentito cadere a capofitto in un qualcosa di profondo, che sembrava non volesse terminare più.

In quel suo forzato viaggio all'ingiù, più che la sgradevole sensazione che avvertiva nel suo precipitare senza fine, era stato ben altro a scombussolargli l'intera esistenza. Ma cosa lo aveva ferito principalmente, se è lecito saperlo? Intanto che sprofondava in quel cunicolo a perpendicolo e senza fondo, il divino eroe era stato costretto a subire delle aggressioni violente di natura psicologica da parte di esseri ignoti. Dei quali, in verità, non si riusciva a comprendere la provenienza e a percepire il reale stato esistenziale. Quest'ultimo, mostrandosi in modo indeterminato nell'una o nell'altra realtà, si lasciava considerare dubbio sotto diversi aspetti. Infatti, si faceva collocare senza problemi tra l'essere e il non essere; ma evitava di farsi definire con qualche forma sui generis.

L'ambivalenza assurda dell'esistenza di tali esseri aveva fatto diventare problematica anche l'esatta interpretazione della loro esplicazione, che si manifestava indifferentemente a volte reale altre volte irreale. Ma da parte nostra, soprassedendo alla loro incomprensibile caratteristica ambigua, cercheremo di comprendere almeno in che maniera essi, nei confronti dell'imbottigliato dio, erano capaci di mostrarsi offensivi, fino a renderlo un autentico straccio nelle loro mani. All'inizio quegli esseri spettrali lo avevano investito con subitanee conflagrazioni, che risultavano portatrici di numerosi cangiamenti spazio–temporali. Per cui davano origine a mille tensioni conflittuali di tipo visivo ed acustico. Dopo essi lo avevano trasformato in un relitto sbattuto dalle tempestose acque di un oceano in pieno sommovimento. Non bastando ciò, i medesimi lo avevano prelevato in modo istantaneo e repentino dal posto in cui si trovava e lo avevano scaraventato in un baratro senza fondo, il quale dava ricetto ad effetti di luci e di suoni che lasciavano il segno.

Un fatto del genere era continuato a ripetersi per un numero imprecisato di volte, ossia fino a quando colui che li emetteva non aveva stabilito di mutare la sorte della sua vittima perseguitata. Il mutamento, comunque, si era avuto non senza uno strascico indimenticabile; inoltre, esso si era manifestato tutt'altro che piacevole a colui che non aveva avuto altra possibilità che quella di subirlo senza potersi opporre. In un certo senso, a causa del nuovo destino che gli era stato imposto forzatamente da chi non smetteva di strapazzarlo nella sua psichicità, il dio Iveon aveva notato che, dal punto di vista esistenziale, stava andando incontro ad un grave peggioramento. Per il momento, però, lungi dal soffermarci su di esso anche per poco, ci limiteremo a far presente che lo spazio che si stava rivelando l'assurdo teatro delle sue sventure, a un certo momento, era imploso. Collassando e sparendo, esso aveva provocato la propria cancellazione da Kosmos, insieme con tutto ciò che vi era contenuto, compreso il divino eroe. Perciò egli, per sua grande sventura, si era trovato all'interno di esso contro la propria volontà.

A questo punto, non possiamo andare avanti nel nostro racconto, se prima non abbiamo speso un po' del nostro tempo, al fine di comprendere il fenomeno, a cui si era trovato ad assistere il divino Iveon. Esso, probabilmente, con periodicità aciclica, era solito verificarsi in Kosmos sempre nello stesso settore. A ogni modo, in seguito approfondiremo il problema che stiamo trattando e riusciremo anche ad inquadrarlo nella situazione da cui è emerso.



Quando Splendor aveva creato Kosmos, allo scopo di esaudire il desiderio delle divinità da lui derivate, al termine della sua creazione, egli vi aveva fatto nascere i Materiadi. Naturalmente, la loro nascita era avvenuta su quei pianeti compatibili con l'essenza vitale. Ma nel dare inizio alle varie specie viventi appartenenti ai Materiadi, il padre degli dèi aveva voluto privilegiare quella umana. Così l'aveva dotata di una scintilla divina improntata ad individualità, la quale veniva chiamata anima. Essa, restando celata nel corpo di un uomo, non avrebbe mai dovuto conoscere né la fine né un deperimento qualsiasi, anche dopo che esso l'avesse abbandonata con la propria morte.

Stando così le cose, ci viene spontaneo domandarci come si sarebbe configurato il destino di un'anima, dopo avere abbandonato la propria dimora materiale, che era costituita dal corpo che la ospitava. Come essenza immortale, quasi simile a quella delle divinità, essa non poteva morire, per cui doveva avere anche una propria storia, dopo la morte dell'involucro materiale che la custodiva dentro di sé. Per questo motivo, venivano a porsi varie domande in merito, compresa quella che cercava di comprendere se l'anima aveva una sua individualità irripetibile.

Apparteneva l'anima a quell'unico determinato corpo, nel quale si trovava a nascere e ad esistere fino alla sua distruzione totale, risultando quindi singola ed inconfondibile in ogni uomo? Inoltre, era possibile supporre che essa, durante la sua esistenza infinita, si desse a trasmigrare da un corpo all'altro anche di diversa natura, ad esempio da un essere umano a quello di un animale? Era risaputo, infatti, che la specie umana, al pari di quella animale e vegetale, era munita della facoltà di riprodursi, trasmettendosi da un individuo all'altro gli stessi caratteri genetici; però aveva una differente personalità. Alla luce di una simile trasmissibilità, che si verificava nei differenti esseri viventi, quale ipotesi era da azzardarsi, in riferimento all'anima? Ovvero, essa vi si trapiantava ipso facto autonomamente, in virtù di un potere trascendente; oppure aveva origine da quelle già esistenti nei due individui generanti, identicamente a quanto avveniva negli organismi viventi? Se vogliamo dare una risposta ad ogni singola domanda, conviene affrontare il problema da cima a fondo. Soltanto così saremo certi che ciascuna di esse affiorerà dalla sua trattazione, a patto che sia chiara ed esauriente al massimo. A ogni modo, per avere tutte le varie risposte, saremo costretti a ricorrere ad una esposizione assai compendiosa.

In relazione all'argomento in questione, Splendor aveva voluto, fin dalla creazione di Kosmos, che ogni essere umano avesse la propria anima. La quale non sarebbe dovuta risultare mai identica ad un'altra, essendo destinata a condurre una esistenza autonoma e responsabile delle proprie azioni. Dopo essersi collocata nella coscienza umana, l'anima l'avrebbe diretta nelle sue decisioni, senza farsene accorgere minimamente. Per cui essa non si lasciava generare da una coppia di anime, come faceva il corpo materiale; ma la sua nascita era simultanea a quella di un essere umano, senza avere nulla a che fare con le due anime appartenenti ai rispettivi genitori. Cioè, la piccola essenza spirituale vi capitava come conseguenza automatica, iniziando anch'essa ad esistere durante il concepimento. Quindi, solo riguardo all'anima, veniva a svanire ogni ipotesi di metempsicosi, che è stata ipotizzata da qualche lettore. Al contrario, la stessa cosa non poteva affermarsi, se si riferiva al pensiero, il quale poteva essere oggetto di un simile fenomeno.

Stando così le cose, restava ancora irrisolto il problema inerente all'esistenza dell'anima, dopo che il corpo materiale fosse stato costretto ad abbandonarla, a causa della propria morte. Ciò è esattamente quanto ci interessa maggiormente, dato che il prosieguo del nostro racconto relativo al dio Iveon si impernierà proprio sul risultato che ci perverrà dalla risoluzione del suddetto problema rimasto irrisolto.

Allora iniziamo col far presente che il fenomeno di quelle anime che rimanevano senza il proprio corpo avveniva su vasta scala. Esso, infatti, veniva a coinvolgere tutti i pianeti di Kosmos, le cui caratteristiche fisiche e naturali permettevano agli esseri umani di nascervi, di crescervi e di sopravvivervi per un intero ciclo vitale. Di conseguenza, le anime, che prima o poi erano costrette a lasciare il proprio corpo e a migrare per lo spazio cosmico, col trascorrere del tempo, avevano raggiunto un numero sempre più consistente. Ma la loro migrazione coatta e nostalgica non era da intendersi né eterna né priva di una meta finale, come tra poco ci si consentirà di apprendere il suo processo nel modo migliore.

Contemporaneamente alla creazione degli esseri umani, che erano stati dotati di un'anima immortale, in una parte di Kosmos si era dato da fare qualcosa di indefinibile, il quale sembrava che si fosse originato dal niente. Suo unico obiettivo era stato quello di gestire il fenomeno delle anime migratrici. Così aveva creato per esse un luogo, che non apparteneva affatto a Kosmos; però aveva la prerogativa di attrarle a sé attraverso la sua periodica manifestazione in una parte di esso. Alla fine ne era venuto fuori Animur, il quale avrebbe dovuto contenere le anime che si fossero autoriprodotte negli esseri umani. Infine c'è da farsi una ulteriore precisazione sull'argomento. Esse, durante il loro viaggio pilotato nello spazio cosmico, non potevano essere avvistate dalle divinità, positive o negative che fossero, poiché per loro risultavano invisibili. Le une e le altre ignoravano perfino la loro esistenza e non potevano percepire neppure l'influenza che Animur esercitava sulle medesime, con lo scopo di attrarle forzatamente nel proprio regno. Ciò avveniva, dopo averle attratte e catturate attraverso molteplici e successivi artifici. Essi prevedevano per le essenze spirituali degli uomini una modalità d'ingresso spaventosa, come quella che già abbiamo avuto modo di conoscere e di temere, a proposito dell'avvenuta cattura del nostro divino campione.

Da quanto appreso, possiamo benissimo renderci conto che il dio Iveon non figurava tra le vittime designate dello strano fenomeno, essendosi esso verificato in Kosmos per uno scopo ben preciso. L'avvenuto suo imprigionamento, insieme con tantissime anime migratrici, era stato solo casuale. Quindi, come pareva, egli si era trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ma corrispondeva a verità ciò che è stato appena supposto, circa la presenza del nostro eroico dio in quel posto? A prima vista, sembrerebbe proprio di sì, per cui possiamo anche chiudere l'argomento con questa nostra convinzione. Se invece le cose non fossero come ingenuamente le abbiamo ipotizzate, senza che ci dedicassimo ad esse con un esame approfondito? Magari con uno studio condotto con minore faciloneria, noi potremmo giungere a tutt'altra vicenda, la quale ci spiegherebbe per quale assurdo motivo l'ingresso di Animur aveva catturato il celebrato eroe delle divinità positive. Per la precisione, dove si vorrebbe arrivare con questa seconda ipotesi, la quale vedrebbe il coinvolgimento del dio Iveon nell'attrazione delle anime nel loro accesso coatto nel Regno delle Anime? In verità, per formularla nella nuova versione, alla sua base ci deve essere per forza almeno un elemento incontestabile, il quale ce l'avvalori e ce la faccia accettare secondo i criteri della pura certezza.

Dunque, bisogna iniziare a tirare fuori delle tesi inconfutabili e per niente arbitrarie, se vogliamo addivenire a qualcosa di concreto affatto discutibile, che ci agevoli la soluzione del problema che intendiamo risolvere. Il quale ci deve convincere che non era stato un caso che il dio dell'eroismo si era trovato in quei paraggi e ne era stato implicato senza volerlo, come abbiamo visto. Allora viene da sé la nostra seguente domanda: Chi ve lo aveva prima trascinato e poi incastrato, senza che egli potesse muovere un dito per impedirlo. In questo caso, perciò, andavano rintracciati il padrone di Animur e lo scopo per cui c'era stato, da parte sua, l'accesso forzato del glorioso eroe divino nel proprio regno.

Probabilmente, non ci sarà semplice riuscire a trovare tale soluzione, poiché chi sta a capo di Animur, almeno per il momento, non vorrà che veniamo a sapere di lui. Di conseguenza, ci verrà meno anche la conoscenza dell'intento che lo ha spinto a catturare un dio così eccezionale. In quel caso, però, non ci dovrà mancare la speranza che entrambe le cose ci verranno svelate durante la nuova vicenda, che il nostro divino eroe quanto prima si troverà a vivere e ad affrontare con animo sereno. Perciò aspetteremo con pazienza, in attesa di conoscere le novità che stanno per giungerci dal Regno delle Anime. Dove il divino Iveon apprenderà i fatti che riguarderanno lui direttamente ed altri che richiederanno il suo intervento per essere sanati dalla sua sete di giustizia.