148°-PARLIAMO ADESSO UN PO' DI ASTORIDE

Ora è giunto il momento di interessarci un poco delle vicende personali di Astoride. Di lui abbiamo conosciuto la sola vita, la quale ci ha rivelato una esistenza travagliata, intesa quest’ultima dal punto di vista sia psicofisico che spirituale. Ciò vuol dire che siamo letteralmente al buio del suo temperamento e delle sue aspirazioni. Invece è risaputo che l’uno e le altre, nel loro insieme, possono illustrarci la personalità di un essere umano in modo ampio ed approfondito. Allora incominciamo col dire che egli aveva un carattere introverso e riservato. Quella sua riservatezza e quella sua chiusura totale al mondo oggettivo, naturalmente, gli erano derivate dall'investimento della sua persona da continue disavventure. Le quali avevano smesso di colpirlo, soltanto quando Iveonte e Francide lo avevano tratto in salvo dal Castello Maledetto. Per fortuna ciò era avvenuto, prima che i suoi selvaggi abitatori lo facessero crollare nella maniera che conosciamo. In seguito, anche dopo che il giovane era venuto a contatto con il tiepido affetto dei due amici liberatori, il suo animo aveva trovato ugualmente difficoltà a venir fuori dal suo raffreddamento di tipo sociale. Esso gli era stato causato dai tanti anni di triste misantropia, dalla quale, purtroppo per lui, egli non era ancora riuscito a liberarsi del tutto.

Se vogliamo essere obiettivi, era stato il suo stesso spirito ad opporre una resistenza tenace alla fase di disgelo psicologico, quella che invano Iveonte e Francide avevano caldeggiato, augurandoselo di vero cuore. Ecco perché nel suo animo restavano ancora ineliminabili la totalità di quegli sdegni, di quei livori e di quelle asprezze, che ne facevano una fornace sempre ardente di disprezzo verso tutti e verso ogni cosa a lui circostante. L'unica eccezione veniva fatta nei confronti dei suoi due amici e di Lucebio, per i quali, possiamo esserne certi al cento per cento, il giovane avrebbe sacrificato pure la propria vita. Per questo Astoride non poteva mai essere scorto in preda all'esaltazione oppure all'allegria, poiché ogni manifestazione di una sua eccitazione stava, sempre ed esclusivamente, a significare sdegno ed odio. Nessuna facezia o motto lepido poteva spingerlo a sorridere con sincerità. Per la qual cosa, ogni volta che Francide ci riusciva, era evidente che il suo sorriso veniva abbozzato alla meno peggio, poiché se ne mostrava palesemente distaccato. Esso era stato sfiorato da lui con il solo proposito di compiacere il grande amico, volendo evitare nel modo più assoluto di fargli un torto più o meno evidente. Di quel suo atteggiamento che lasciava a desiderare, si rammaricavano Iveonte e Francide, i quali tentavano invano, con ripetute esortazioni, di fargli cambiare sua antipatica indole. Difatti essi volevano vederlo più socievole non soltanto con loro, ma anche con tutti gli altri che avevano a che fare con lui. In questo modo, nessuno si sarebbe potuto lamentare del suo carattere, che quasi sempre si mostrava scontroso e solitario, non riuscendo ad apparire in modo diverso. Come possiamo renderci conto, il temperamento di Astoride era diametralmente opposto a quello di Francide. Il primo era ostinatamente chiuso e taciturno; il secondo, invece, era esuberantemente estroverso ed espansivo. Nel mezzo, veniva a collocarsi quello del loro amico, la cui equilibratezza era in grado di temperare la misantropia di Astoride e l'eccessiva esuberanza di Francide. Per tale ragione, Iveonte dimostrava di possedere sotto ogni aspetto un abito morale irreprensibile e cordiale.

Ogni giorno che trascorreva, Astoride non faceva altro che rimuginare sempre. Ma egli a cosa pensava con insistenza? Naturalmente, al tempo della sua vendetta! Il ricordo di suo padre assassinato dalla mano omicida del proprio fratello e la promessa fatta al suo capezzale, ossia che un giorno lo avrebbe vendicato, restavano ancora accesi ed incancellabili nella sua mente. Con molta impazienza, perciò, attendeva il momento opportuno per disobbligarsi con l'anima del defunto genitore, uccidendo lo zio fratricida. I suoi due amici, da parte loro, gli avevano promesso perfino il loro valido soccorso, ma soltanto dopo aver rimesso sul trono di Dorinda il magnanimo re Cloronte. Dal quale speravano di ricevere in seguito gli aiuti necessari per permettere al loro amico di portare a termine la sua giusta vendetta contro l’assassino zio paterno.

Ma era proprio vero che il nostro Astoride viveva solo di odio e di propositi vendicativi? Oppure, nel suo intimo, c'era anche un angolo riservato all'affetto e alla riconoscenza? Parlando obiettivamente, sarebbe assurdo affermare che l'esistenza del giovane terdibano si svolgesse in un clima totalmente pessimistico. Se così fosse, dovremmo allora giungere alla conclusione che egli neppure aveva accolto con gioia l'amicizia dei suoi liberatori, dal momento che essa non suscitava in lui calore ed affetto. Inoltre, non poteva esserci stata, da parte sua, alcuna riconoscenza verso coloro che lo avevano liberato e salvato, avendola ignorata nel modo più assoluto. Come abbiamo notato, invece, una cosa simile non c'era mai stata in Astoride. Né poteva iniziare ad esserci in qualche maniera, dopo avere instaurato con i suoi nuovi amici degli eccellenti rapporti, che potevano definirsi quasi fraterni. Per questo volere asserire una cosa del genere è lo stesso che falsare malignamente la nobiltà di un animo, quale attualmente si dimostrava di essere quello di Astoride. Esso, nonostante fosse stato abbrutito dall'enorme quantità di disavventure che gli erano piombate addosso senza fine, non aveva mai smesso di tenere le porte aperte anche alle idealità superiori. Tra le quali, primeggiavano in lui l'amicizia, la gratitudine, la solidarietà, la giustizia e la fede in un essere superiore, la quale lo aveva aiutato a superare ogni sventura ed ogni pesantezza dell’animo.

Prima che venisse liberato da Iveonte e da Francide, Astoride era vissuto a senso unico. Per l'esattezza, aveva trascorso la sua esistenza nella glaciale ostinazione a volere odiare e vendicarsi. Ma successivamente, stando a contatto con i due ineguagliabili amici, era venuta ad esserci nel suo cuore un’apertura di fiducia verso il prossimo. Perciò, dopo aver conosciuto i suoi salvatori, egli era stato ben lieto di scorgerla in sé e di riservarle una discreta accoglienza, visto che essa gli era giunta come un sole che riscaldava e vivificava ogni cosa. Bisogna però precisare che Astoride, anche se interiormente l’affettuoso sorriso dell'amicizia lo risarciva in larga parte delle ingiustizie da lui subite, trovava ancora difficile mostrare la soddisfazione di un simile indennizzo attraverso il suo abito esteriore. Tale difficoltà era dovuta al fatto che egli si era incallito in taluni ferrigni atteggiamenti misantropici, che gli erano derivati dalle continue asprezze presenti nella sua trascorsa esistenza. L'amicizia di Iveonte e di Francide, la quale era venuta a sensibilizzare in modo significativo la sua scombussolata vita, ora rappresentava per Astoride l'unica fonte di serenità e di consolazione. Essa era valsa ad incanalare ogni forma esistenziale del giovane verso una nuova prospettiva indubbiamente positiva. Vale a dire quella di sentirsi spronato a sperimentare anche il lato buono dell'essere umano, ossia del suo prossimo. Dal quale esperimento, gli era provenuta la consapevolezza che la cattiveria umana non era la sola forza incontrastata ad esistere nel mondo. Invece, contro di essa e sempre in armi, vegliava anche una forza nobile e generosa, che era la bontà degli uomini, la quale mirava ad attaccare e a vincere la malvagità insita in alcune persone. Soprattutto tendeva ad accendere nei cuori dei perseguitati dalla sorte uno spiraglio di speranza, che risultava consolatrice e gratificante.

Quanto all’amore, almeno per il momento, esso non faceva ancora capolino nell’animo di Astoride, visto che in esso continuavano a predominare i negativi sentimenti di cui ci siamo resi conti, come l’odio e la vendetta. Ma egli li riservava solo allo zio Romundo, essendo intenzionato a vendicarsi del padre prima possibile. Anche adesso, pur vedendo i suoi due amici impegnati in un amore assiduo con le rispettive ragazze, egli si mostrava del tutto alieno dall'imitarli. Per cui evitava di cercarsi una propria compagna per la vita e di legarsi a lei perdutamente. Eppure Iveonte e Francide spesso lo avevano spronato in tal senso, essendo convinti che i frutti dell’amore avrebbero contribuito a plasmare in maniera positiva il suo carattere duro. Ma esso non si sforzava ancora del tutto ad essere disponibile alle varie relazioni interpersonali. Da parte loro, i due amici gli avevano anche chiesto cosa egli pensasse dell’amore e quale concetto avesse di un così nobile sentimento, da cui si potevano ricavare le dolcezze più invidiabili della vita. Ma ogni volta Astoride aveva voluto essere evasivo a quel tipo di domanda, per non dovere poi giustificare il suo disinteresse nei riguardi del sentimento amoroso.

Nei casi in cui egli era stato costretto ad esprimersi sull’amore, il suo giudizio a tale riguardo era stato criticamente positivo. In pari tempo, aveva fatto trasparire dal suo volto una venatura di chiaro rammarico, come se non accettasse di buon grado la sua difficoltà a vivere l’amore e a tenerlo distaccato da sé, a causa di un trauma interiore che non si era ancora rimarginato. La qual cosa faceva intravedere che in lui il desiderio della passione non si rivelava spento oppure assente per sempre. Si poteva affermare, invece, che esso vi restava momentaneamente sopito, in attesa che qualche evento miracoloso glielo destasse nel profondo del suo inconscio e glielo ravvivasse nell’animo. Ma quest’ultimo seguitava a farsi raggelare dalle brutte esperienze del passato e a lasciarsi traumatizzare dai negativi risvolti. Quindi, bisognava attendere che tale circostanza si presentasse al più presto e attivasse in lui lo sperato disgelo verso il sentimento amoroso. Una simile eventualità avrebbe anche spianato in Astoride la strada che conduceva all’amore.


Non si sa come avvenne o che cosa lo avesse costretto a farlo, un giorno Astoride avvertì dentro di sé una insopprimibile brama di vendicarsi dell’uccisione del padre. La maledetta voglia di assassinare lo zio fratricida, a un tratto, si impadronì di lui in maniera incontrollabile. Allora egli venne a trovarsi nella medesima situazione di un drogato in una delle sue crisi di astinenza. Nel rifugio dei ribelli, in quel momento, c’erano solo lui e Lucebio, poiché i suoi intimi amici poco prima se ne erano allontanati ciascuno per i fatti propri, ovviamente entrambi intenzionati a raggiungere le rispettive innamorate. Allora il pupillo del defunto re Kodrun si accorse subito che nel giovane terdibano c’era qualcosa che non quadrava; anzi, era come se egli non fosse più presente nella sua realtà. Poco dopo, vide i suoi occhi smarrirsi in un qualcosa di insondabile, che si lasciava immaginare fosco ed inquietante. Perciò egli tentò anche di penetrarne la psiche, allo scopo di leggergliela alla luce di quel poco che conosceva della sua vita passata, ma senza conseguire alcun risultato. A suo avviso, unicamente intavolando con lui un aperto dialogo, avrebbe potuto condurlo a scoprire il vero motivo che adesso stava dissestando incomprensibilmente l’interiorità del giovane, costringendolo con la forza a darsi a pensieri tremebondi per nulla rassicuranti.

Astoride, da parte sua, non volle dargli una possibilità del genere. Infatti, quando Lucebio tentò di esplorare la sua psiche, che si mostrava in guerra con sé stessa, già dopo le sue prime domande condotte con cautela, egli lo lasciò subito in modo brusco. Poi, senza neppure degnarlo di un saluto, si allontanò in groppa al suo cavallo. Ma l’atteggiamento del giovane non indignò Lucebio, essendo consapevole che esso era stato causato dal suo abnorme stato psichico del momento, il quale non gli permetteva di rendersi conto delle azioni che andava compiendo. Decise però che avrebbe riferito l’accaduto ai suoi due ottimi amici, non appena essi avessero fatto ritorno al campo. Logicamente, la sua intenzione era soltanto quella di spingerli a cercarlo senza indugio, ad approfondire il suo problema interiore e a risolverglielo nel modo migliore. Stando così le cose, ci conviene seguire Astoride nella sua folle corsa a cui si era dato, dopo aver abbandonato il campo di Lucebio.

Ebbene, il giovane si era messo a correre a spron battuto attraverso i campi; ovviamente, egli aveva come direzione la città di Terdiba. Se consideriamo la cosa dal punto di vista geografico, infatti, era proprio verso di essa che il cavallo del giovane era diretto, senza concedersi soste e rallentamenti. Il suo cavalcatore, però, era spinto da una carica furiosa, la quale lo forzava a proseguire fino alla meta. Se invece prendiamo in considerazione il Terdibano e la sua cavalcata dal punto di vista psicologico, allora le cose cambiano profondamente. Per cui è obbligatorio scindere l’uno dall’altra, non ritrovandosi esse a vivere una comune esperienza. Infatti, mentre la bestia avanzava di gran carriera alla volta della citata città, essendo quella la meta di Astoride, la mente del giovane non viaggiava più insieme con il suo quadrupede equino. Essa era lanciata verso traguardi sconosciuti, percorreva sentieri senza spiragli luminosi, inseguiva obiettivi senza nome e privi di specificazione. Essi, insomma, rappresentavano il tutto e il contrario di tutto. Si trattava, ad essere sinceri, di un lavorio mentale confuso ed ingarbugliato, il quale non consentiva di intravedere un luogo ed un obiettivo ben determinati.

Un fatto di quel genere era la prova lampante che Astoride non stava più in sé. All’improvviso, egli era stato rapito alla sua regolare esistenza, per ritrovarsi poco dopo in un mondo interamente al buio. Quando poi fu in grado di uscirne, per essersi riappropriato della luce del suo presente reale, il giovane fu colto da un immenso stupore. Egli ignorava nella maniera più assoluta perché stesse correndo così furiosamente sopra il suo cavallo, tutto solo e in compagnia della sua sbalorditiva sorpresa. La quale lo faceva meravigliare incredibilmente sia del luogo in cui si trovava sia della strana circostanza, quella che adesso lo stava coinvolgendo in maniera insolita e bizzarra. Alla fine, avendo accusato una stanchezza inverosimile, il giovane si sedette in riva ad un torrente, dove era desideroso di dare un po' di riassetto alle sue idee e di tentare in quel modo di comprendere il mistero della sua assurda situazione.

Qualche ora più tardi, invece, egli fu raggiunto in quel posto dagli amici Iveonte e Francide. Così, dopo esserci stato tra loro tre uno scambio di idee, se ne ritornarono insieme presso Lucebio, come se nulla gli fosse successo. Allora, per come si era messa la vicenda di Astoride, che veniva ignorata perfino da lui stesso, ai suoi due amici convenne non chiedergli nulla su quanto gli era accaduto nella mattinata, dando già per scontata la sua risposta. Secondo il loro parere, essa avrebbe potuto esclusivamente evidenziare la sua più completa estraneità, in merito al repentino vortice di quanto gli era capitato nelle poche ore precedenti.


Erano trascorsi quattro giorni e si era nel primo pomeriggio, quando i suoi due amici abbandonarono di nuovo la loro dimora, per guarire ancora il loro repentino mal d’amore. Mezzora dopo anche ad Astoride venne la voglia di andarsene in giro, avendo avvertito il desiderio di trascorrere un paio di ore in aperta campagna. Allora, salutato cordialmente Lucebio e montato in sella al suo cavallo, egli iniziò la sua galoppata per gli estesi campi in fioritura, dove non si scorgeva anima viva. Così, vagando di qua e di là, alla fine raggiunse un albero, all’ombra del quale sedeva per terra un vecchio dalla capigliatura inargentata. Scorgendolo con la schiena appoggiata al fusto arboreo ed essendosi incuriosito della sua presenza, Astoride immediatamente arrestò la sua bestia e si diede ad osservarlo in modo profondo. Poi, restando ancora sulla groppa della sua bestia, si diede a domandargli:

«Cosa ci fai qui tutto solo, onest’uomo? Non scorgendo alcun cavallo in giro nelle vicinanze, sono portato a credere che tu ci sia pervenuto a piedi in questo luogo, dopo essere uscito da Dorinda. Sarà di sicuro così! Vuoi spiegarmi perché ti ci sei trasferito, camminando per tante miglia? Un motivo ci sarà senza meno e non penso che in ciò mi sbagli!»

«Invece, giovanotto, ci sono venuto a cavallo! È stato un mio nipote a darmi un passaggio fin qui. Egli verrà poi a riprendermi al tramonto, poiché è così che noi due ci siamo messi d’accordo. Non bisogna mai valutare le cose per come ci appaiono, visto che esse possono facilmente ingannarci! Se invece le consideriamo nella loro effettiva realtà, non potranno mai derivarci da esse errori di alcun tipo. Ma perché non scendi da cavallo, giovanotto, e parliamo un po’ insieme, tu ed io? Sono convinto che, se ci scambiamo quattro chiacchiere sotto la chioma di quest’albero, dopo ne trarremo un reciproco beneficio!»

Astoride accolse all'istante l’invito del vecchio. Perciò, dopo essere saltato da cavallo, che lasciò a pascolare nei paraggi vicini, andò a prendere posto sull'erba accanto a lui. Sotto l'albero, dopo avere assunto la posizione che gli risultava più comoda, gli tese il braccio per una reciproca stretta di mano. A quel punto, gli proferì le seguenti parole:

«Io mi chiamo Astoride e frequento da poco queste parti con due miei amici, i quali in questo momento si trovano in città per affari loro. Ci siamo trasferiti in questa zona da neppure un anno e siamo ospitati da una brava persona. Invece tu cosa puoi dirmi di te? Sono sicuro che qualcosa avrai senz'altro da riferirmi: non è vero che non mi sbaglio?»

«Oltre a farti conoscere il mio nome, che è Mirnos, e la mia età, che ha raggiunto gli ottant’anni, ti metto al corrente che la mia professione è quella dell’indovino. Invece delle altre cose è meglio non parlare, Astoride; altrimenti mi ci vorrebbero più di dieci giorni per raccontartele tutte. Quanto a te, sono convinto che, nell'ascoltarle, alzeresti i tacchi, molto prima che io terminassi il mio racconto! Ecco che anch'io ti ho parlato di me! Se pensi che sia stato breve, ti tocca accontentarti!»

«Certo che mi accontento, Mirnos! Hai fatto bene a non metterti a narrarmi la tua storia, poiché, come anche tu hai detto, non avrei resistito ad ascoltarla tutta di seguito; invece sarei scappato via molto prima, accampando qualche scusa! Inoltre, ti affermo con sincerità che mi ha fatto molto piacere l’averti incontrato qui, perché ti trovo un vecchietto arzillo e simpatico. Ma sul serio sei un indovino, come hai detto?»

«Certo che lo sono, Astoride! Per la precisione, sono un chiromante, cioè riesco a sondare il passato e il futuro di una persona, attraverso la lettura delle linee della sua mano. Vedo che sei rimasto perplesso, circa quanto ti ho asserito su di me; però, se lo desideri, possiamo fare un provino con la tua persona. Così, ricorrendo alla chiromanzia, fugherò ogni tua perplessità in merito alla mia professione. Allora mi porgi la tua mano sinistra, per favore, allo scopo di consentirmi di leggertela?»

Astoride, in un primo momento, si mostrò indeciso ad assecondare l’invito di Mirnos, essendo stato sempre contrario a credere alle predizioni degli indovini. Poco dopo, però, solo per pura curiosità, forse anche per dimostrare a sé stesso che le bocche dei chiromanti emettevano solo sproloqui, accondiscese a porgere la mano al suo interlocutore. Costui allora, dopo avere invitato il giovane a tenerla ben distesa con la palma all'insù, si era messo a seguire con l'indice destro le sue linee. Esse apparivano dritte, curve e ramificate. Di lì a poco, egli iniziò a rivelargli:

«Vedo, Astoride, che hai avuto una esistenza per niente serena, fin da quando sei stato bambino. La tua stessa famiglia tempo addietro andò incontro ad un lutto inconsolabile, rappresentato dall’uccisione del capofamiglia, la quale era stata ordinata dal proprio fratello. Da allora in poi, cominciasti a soffrire delle pene indicibili, siccome la tua vita si trasformò in un inferno nel vero senso della parola. Ma da quando ne sei stato liberato dai tuoi amici attuali, il destino, avendo preso per te una piega positiva, inizierà a sorriderti per il resto dei tuoi giorni. Presto conoscerai perfino l’amore, che non smetterà di allietare ogni attimo della tua esistenza. La ragazza, di cui ti innamorerai, non sarà di Dorinda; ma ti capiterà di incontrarla in un’altra città edelcadica, dove presto vi condurrete tu e i tuoi amici per una ragione molto seria. C'è poi la questione della tua vendetta, che tieni in sospeso. Ebbene, essa non ci sarà mai da parte tua, per il semplice fatto che la morte di tuo zio avverrà per altra causa. A questo punto, ho finito la mia chiromanzia.»

Il succinto responso divinatorio di Mirnos, la cui parte riferita al passato si era rivelata completamente corrispondente al vero, incoraggiò Astoride a sperare che anche quella inerente al futuro si sarebbe svolta come l’indovino gli aveva predetto. Perciò, quando più tardi egli se ne ritornò al campo, il giovane si presentò con un animo alquanto mutato, visto che ora esso si mostrava sereno e fiducioso nel prossimo. Se ne accorsero perfino i suoi amici e Lucebio; ma tutti e tre, senza un motivo specifico, evitarono di chiedergli a cosa fosse dovuto quel suo nuovo stato d’animo. Anche Astoride, da parte sua, non ritenne opportuno dare alla terna dei suoi amici delle spiegazioni sul suo improvviso cambiamento di umore, anche perché non gli era stato domandato da nessuno di loro. Inoltre, egli si astenne dal riferire agli stessi l’incontro avuto nel pomeriggio con il vecchio indovino che era stato da lui incontrato nei campi, il quale gli aveva letto anche il proprio futuro.