146°-SI RINSALDANO I RAPPORTI ESISTENTI TRA IVEONTE E LERINDA

I giorni arrivavano e se ne andavano con una velocità impressionante, senza che venissero neppure notati dalle persone che li trascorrevano. Allo stesso modo, i lunghi mesi passavano del tutto inosservati dalle medesime, intanto che essi cambiavano abito al variare delle stagioni. Iveonte, Francide e Astoride si erano ormai stabiliti in via definitiva presso il campo di Lucebio, per cui ciascuno di loro si era costruito un proprio alloggio personale. Da quando teneva vicini i tre giovani, il vegliardo Lucebio si mostrava sempre di umore giulivo, siccome essi lo rispettavano e gli ubbidivano di vero cuore, esattamente come se egli fosse il loro genitore. Adesso, specialmente Iveonte e Francide, si prendevano cura di lui in una maniera straordinaria, quasi egli fosse il loro Babbomeo risuscitato. Vedendoli prodigarsi per lui in modo encomiabile, il saggio uomo se ne rallegrava tantissimo; nello stesso tempo, tributava un sacco di ringraziamenti alla buona divinità di Matarum. Secondo lui, il dio aveva voluto inviarglieli allo scopo di premiarlo. Anche se poi, ovviamente per scherzo, egli non smetteva di rinfacciare a loro due e al loro amico Astoride che lo stavano viziando un po' troppo.

Nuovi fatti d'armi non si erano più avuti dall'arrivo dei tre giovani al campo di Lucebio, per cui una letizia rasserenante veniva gustata gradevolmente da quanti vi vivevano. Ma adesso conviene renderci conto più da vicino di alcune cose che li riguardavano. Cioè, bisogna apprendere ciò che essi facevano durante il giorno e come impiegavano il loro tempo, per mantenersi in tanta beata serenità. Naturalmente, nell’indagine introspettiva dei nostri simpatici personaggi, Lucebio sarà messo da parte, poiché la sua felicità non ha bisogno di essere motivata e commentata. Infatti, sono state già elencate le ragioni per cui egli si mostrava felice e non aveva da lamentarsi di nessuna avversità della vita.

Cominciamo col parlare di Iveonte, il quale oramai aveva consolidato le sue relazioni personali con Lerinda. Perciò si conduceva assai di frequente alla reggia, dove trascorreva con lei delle ore di appassionato amore. Vicino alla sua ragazza, la vita gli diventava meravigliosa, desiderabile più che mai, visto che essa gli si trasformava in una oasi di dolcezza e di giubilo. Perfino la natura, in tutte le sue varie manifestazioni, pareva che gli fosse diventata più attraente, più gradevole, più prodiga di benessere. Mostrandoglisi molto favorevolmente, pareva che essa volesse trattarlo da vera amica. Sensibile com'era, il giovane galante approfittava dei momenti a lui propensi e li volgeva al pieno soddisfacimento delle proprie esigenze. Per questo, in nessun caso, egli si lasciava trasportare dalla corrente di quegli impeti eccitanti, che sono soliti condurre l'uomo all'abbandono di sé stesso. Se ciò fosse avvenuto dentro di sé, giustamente si sarebbe detto che il suo carattere fosse debole e che in lui la personalità andasse alla deriva. Invece di ciò non c'era da preoccuparsi, essendo Iveonte dotato di una personalità integerrima. Egli, infatti, si mostrava di una incorruttibilità ferrea e di una volontà di acciaio, per cui non consentiva ai vizi di attecchire nel suo animo. C’è poi da aggiungere che i suoi entusiasmi, le sue sovreccitazioni e i suoi sfoghi personali avvenivano sempre entro i limiti della moderazione. La quale, nella sua vita, era stata da lui violata in una sola circostanza, cioè quando era venuto a trovarsi per la prima volta accanto all'ammaliante fascino femminile. Esso allora gli aveva infuso delle sensazioni ubriacanti, che non aveva mai provate fino a quel momento fatato. Perciò ne era stato contagiato e soggiogato così forte, che alla fine si era sentito impossibilitato a gestirle con la dovuta misura.

Rivolgendosi alla sua Lerinda, il giovane le parlava con calore e con grande passione. Inoltre, le si esprimeva con un linguaggio, il quale tendeva a manifestarle il suo inestinguibile amore. Per cui i suoi vari discorsi, nella forma e nella sostanza, non si discostavano dal seguente:

"Amore mio soave, come la primavera mette in festa la campagna, così tu allieti l'intera mia persona e doni al mio cuore un piacevole sapore di giocondità. I tuoi caldi baci sono per me ciò che i gorgheggi degli uccelli rappresentano per i rami fioriti. I tuoi calorosi abbracci diventano per me ciò che gli svolazzamenti delle farfalle risultano per i vari tipi di erbe. I tuoi dolci sospiri valgono per me ciò che i fiori variopinti vengono a rappresentare per i verdi prati. Perciò ammirare il tuo volto è come incantarmi davanti alla natura che rinasce, verdeggia e fiorisce. Tu sei la mia primavera, per cui riesci ad infondermi infinite sensazioni sublimi e tante dolci tenerezze. Dunque, come potrei smettere di amarti e di sognarti? Invece ciò giammai accadrà dentro di me!"

Dal canto suo, Lerinda si rivolgeva al suo amato ragazzo con pensieri intessuti di toccanti frasi d'amore ed intensi di ardente passione, come quelli che seguono:

"Luce dei miei occhi, calore sempre ardente della mia anima innamorata, forza del mio spirito fremente, armonia dei miei pacati pensieri, sostegno della mia vita spensierata, mi dici cosa farei senza di te? Privata della tua amabile compagnia, non sai in quale mondo gelido finirei per vivere e in quale atroce martirio si trasformerebbe la mia esistenza! Ma stanne certo che ben lo so io! Sì, ogni cosa in me si risolverebbe in un penoso e tragico destino! Diventerei la vittima di ogni circostanza, sarei bersagliata da tutte le sventure, sarei dilaniata dagli incubi più minacciosi e tremendi, mi vedrei sbattuta in ogni parte dalla frenetica tempesta dei venti. Mi sentirei anche in balìa di onde agitate e voraci, decise ad inghiottirmi e a disperdermi nei lugubri abissi marini. Ecco cosa avverrebbe di me, se non ti avessi più accanto, se mi venisse meno l'affettuoso tuo sorriso, se fossi privata del tuo insostituibile amore, il quale è grande e sincero quanto il mio! Quindi, tesoro mio, stammi sempre vicino, senza mai abbandonarmi. Quando mi appare il tuo volto, mi si illuminano la mente e l'animo, per cui non mi stancherei mai di ammirarti, di coccolarti e di fare di te la mia occupazione preferita!"

Secondo le giuste constatazioni di qualcuno, il quale ci tiene a conservare l'anonimato, il re Cotuldo vedeva di buon occhio la presenza di Iveonte a corte. Come pure non gli dispiaceva l'assiduo corteggiamento, che egli indirizzava con passione alla sorella Lerinda. Ella, da parte sua, lo accettava con compiacimento, infondendo in Croscione parecchia invidia e molto malessere. Ma l'una e l'altro provenivano al braccio destro del re Cotuldo dal fatto che egli da parecchio tempo aveva messo gli occhi addosso alla incantevole sorella del suo sovrano. A tale riguardo, non si sa con precisione se il suo sentimento d'amore verso la ragazza fosse partito da lui spontaneamente, oppure fosse stato il fratello di lei a mettergli in testa un'ambizione del genere. Naturalmente, ammesso che fosse vero, il sovrano gliela prospettava con il solo larvato intento di fargli eseguire alla perfezione le innumerevoli odiose incombenze, che egli gli andava affidando, giorno dopo giorno! Ad ogni modo, era incontestabile che la fanciulla aveva voluto ignorare ogni volta gli occhi di triglia del consigliere del fratello, che non aveva mai smesso di farle. Inoltre, ella aveva sempre evitato d'incontrarlo da solo. Quando poi le capitava di intavolare una discussione con lui in presenza del fratello, contrastava sempre le sue opinioni. In quelle poche circostanze, la principessa aveva cercato ogni volta di palesargli il suo disprezzo e di spegnergli l’ardore, che egli le manifestava in modo inequivocabile.

Ritornando al rapporto che si era instaurato tra Iveonte e Lerinda, come già è stato chiarito, esso era benvisto dal re Cotuldo. Il despota, infatti, mirava ad accattivarsi l'animo del valoroso giovane, siccome lo considerava una persona prodigiosa che conveniva tenersi amica, anziché nemica. Per questo improvvisava gli atteggiamenti più assurdi nei suoi confronti, pur di convincerlo che il suo interesse per lui era sincero e disinteressato. Un giorno era arrivato al punto da voler far credere al suo futuro cognato che gli stava più a cuore lui che il suo regno. Ma il tiranno era all'oscuro del fatto che chi esagera in un certo atteggiamento quasi sempre finisce per manifestare sia le proprie false apparenze sia i propri veri obiettivi, non potendo le une e gli altri nascondersi all'infinito!

Ogni volta che Iveonte lasciava la reggia, Cotuldo, estrinsecando un dispiacere incredibile, lo pregava di restarvi e di sistemarsi in essa per sempre. Per lui, era come sentirsi rosolare sopra una graticola, quando pensava che un eroe degno delle stelle se la vivesse in un tugurio, il quale valeva poco più di una stalla. Avrebbe voluto perfino farlo accompagnare dai suoi soldati al campo di Lucebio, che per lui continuava ad essere Celubio; ma più per una forma di riguardo che non come scorta personale. Tutte le volte, però, il giovane si era opposto con un rifiuto reciso, a tale sua iniziativa priva di senso. Come si vede, il sovrano di Dorinda cercava di recitare la parte della volpe, pur scorrendo nelle sue vene sangue lupino. Soltanto la collera metteva a nudo la sua vera natura, poiché cancellava dentro il suo animo l'astuzia della volpe e vi sostituiva la ferocia del lupo. Iveonte, da buon segugio, subito aveva fiutato le reali intenzioni del sovrano ed aveva compreso pure a che cosa egli mirava. Per cui, da un momento all'altro, egli si attendeva delle proposte inaccettabili. Il giovane, però, facendo lo gnorri, fingeva di ignorare ogni cosa, pur di non precipitare la rottura con il futuro cognato. Anche Lerinda se ne era accorta e quasi era spinta a mettere in guardia Iveonte, affinché non accondiscendesse mai ad alcun piano del fratello. Ma poi, fidando nella incorruttibilità del suo ragazzo, il quale poteva essere additato come esempio di giustizia, la fanciulla si sentiva molto rassicurata. Ella era convinta che il suo amato era il tipo che non si lasciava influenzare e tentare da nessuno, neppure da un re che gli promettesse mari e monti per corromperlo!

Quanto a Lucebio, che Iveonte aveva presentato al re Cotuldo con il nome di Celubio, egli si sentiva più che tranquillo, essendo fiducioso nella integrità morale del giovane. Essa, a suo giudizio, non si sarebbe lasciata corrompere da nessuno, nemmeno in cambio di tutto l'oro del mondo. Egli accettava di buon grado il fatto che Iveonte si recava spesso alla reggia per un semplice motivo. Il saggio uomo voleva che il giovane se la studiasse da cima a fondo. A tale proposito, l'attempato uomo gli suggeriva anche i diversi percorsi che vi doveva seguire attentamente. Lucebio era convinto che uno studio approfondito del palazzo reale da parte sua era da considerarsi di primaria importanza. Se un giorno gli avessero teso qualche insidia nella reggia, l'esatta conoscenza del posto sarebbe potuta risultare un vero toccasana per la sua salvezza. Ma egli non poteva essere a conoscenza che nessuna insidia al mondo avrebbe potuto mettere in difficoltà il valoroso giovane. Perciò adesso Iveonte, grazie ad un misterioso sesto senso che gli aveva facilitato il compito, conosceva a menadito tutti gli angoli della reggia, perfino il passaggio segreto che conduceva alla necropoli. I soli reparti delle carceri gli restavano ancora ignoti per una semplice ragione. La principessa Lerinda, ogni volta che aveva accompagnato il giovane per i vari ambienti del palazzo reale, si era sempre rifiutata di fargli visitare l'attiguo ambiente carcerario, adducendo la scusa che esso le faceva parecchio orrore. Invece la verità era un'altra. Ella si opponeva a tale sua richiesta, per il semplice fatto che il fratello le aveva detto che poteva condurre il suo amato in una qualsiasi parte della reggia che egli le avesse chiesto di visitare, eccettuati i reparti carcerari. Anzi, il re Cotuldo le aveva proibito categoricamente di farglieli conoscere, per una ragione che non le aveva voluto rivelare. La ragazza, dal canto suo, ce lo avrebbe condotto volentieri, al fine di istigarlo maggiormente contro i soprusi del germano. Ogni volta, però, evitava di farlo, non volendo avere problemi con colui che regnava in Dorinda. Ma soprattutto ella si rifiutava per garantirsi il più a lungo possibile nella reggia la compagnia del giovane da lei amato. A tale riguardo, la principessa Lerinda era certa che quest'ultima le sarebbe venuta a mancare, qualora fossero sorti dei gravi dissidi tra lo stretto parente e il suo prezioso fidanzato.


Un giorno, però, sia perché era stato invitato da Lucebio a farlo sia perché il re Cotuldo risultava assente dalla reggia, essendo dovuto partire per Casunna, Iveonte convinse Lerinda a fargli visitare le carceri. Allora la principessa non osò opporsi al giovane, essendosi resa conto anche del modo come glielo aveva chiesto. Infatti, il suo ragazzo era apparso molto determinato nella sua richiesta ed affatto rinunciatario ad essa. Per questo, perché il desiderio del fidanzato fosse esaudito, ella fece di tutto per ottenere l'acquiescenza delle guardie carcerarie alla loro decisione di visitare i vari reparti della prigione. In verità, non si sa con precisione se i secondini fossero stati convinti dall'alta dignità della ragazza oppure dalla fama del giovane. Quest'ultima, infatti, era già alquanto in auge nella reggia del re Cotuldo, dopo che il giovane aveva dato una dura lezione a Croscione. Ma poi la medesima era accresciuta a dismisura, dopo che egli, in un brillante combattimento, era stato capace di mettere in fuga il mostruoso Talpok.

Una volta che si fu ritrovato all'interno del penitenziario dorindano, mentre percorreva con la sua ragazza i corridoi carcerari che si diramavano non molto sottoterra, Iveonte le fece la seguente constatazione:

«Queste celle, Lerinda, non sono affatto orribili, come mi attendevo. Basta questo a dimostrarci che il re Cloronte era contro ogni forma di tortura. Ma la sofferenza imposta ai numerosi detenuti è eccessiva e disumana. Essa è dovuta alle dure pene corporali che vengono loro inflitte senza alcuna commiserazione! Non sei anche tu d'accordo con quanto da me constatato?»

«Hai proprio ragione, Iveonte.» acconsentì la fanciulla «Le sofferenze, che si fanno subire ai reclusi, sono davvero inumane. Perciò vorrei che si mettesse fine ai crudeli tormenti che vengono loro imposti. Mi riferisco a quelli che vengono fatti patire ingiustamente alla gente innocente, la quale vi è stata condotta soltanto per poterla defraudare!»

Da dietro le grate delle celle, da parte di coloro che vi si trovavano rinchiusi, provenivano dei pietosi lamenti di dolore, nonché alcune imprecazioni contro il re Cotuldo. Costui li aveva fatti arrestare con un pretesto assurdo ed inconsistente. Difatti, da un giorno all'altro, essi si erano visti privare dal tiranno di tutti i loro averi e anche della libertà personale, senza che egli avesse giustificato il proprio iniquo provvedimento contro di loro. Inoltre, come aveva prima osservato Iveonte, i carcerati, che erano inumanamente seviziati dagli orribili supplizi congegnati da esperti in materia fatti venire da Casunna, trovavano sollievo, grazie alla buona condizione delle celle. Esse, susseguendosi sul lato destro dei vari corridoi lunghi e serpentiformi, si presentavano sufficientemente arieggiate, anche se vi si notava una scarsa illuminazione.

L'ultima cella del corridoio che stavano percorrendo ospitava una coppia di coniugi anziani, dai cui volti traspariva un senso di fierezza e di nobiltà; ma soprattutto si leggeva l'amarezza di essere in quel luogo, in seguito ad un vile atto dovuto a ingiustizia. Per fortuna, soltanto a loro due non veniva inflitta nessuna pena, a parte quella di essere obbligati a rinunciare alla libertà di poter vivere all'aria aperta. Lerinda giunse per prima davanti alla cella delle due persone anziane, dal momento che Iveonte si era fermato a rispondere a talune domande di un recluso, il quale si trovava nella terzultima cella. Egli, a forza di continue domande, cercava di trattenere Iveonte più a lungo possibile, siccome desiderava distrarsi dalla sofferenza che non lo mollava.

Al loro cospetto, la ragazza si sentì prendere da uno sconforto mai provato in vita sua. Di sicuro, i motivi non erano facilmente spiegabili oppure riconducibili a qualche sensazione momentanea. Probabilmente, era stata la loro età avanzata ad impressionarla in modo così incredibile, poiché giudicava ingiusta la loro detenzione. Oppure c'era un’altra ragione del tutto a lei ignota, la quale la faceva abbacchiare tanto indicibilmente? Insomma, una cosa si dimostrava certa: quegli sguardi penetranti, che fuoriuscivano dai loro quattro occhi paurosamente affossati, la prostravano sia nella sfera sensitiva sia in quella psichica. Per questo, ad un certo momento, ella provò per loro due una grande pena e compassione, proprio come se si fosse trattato di propri congiunti. Negli sguardi dell'anziana coppia, come la ragazza notava, si leggeva qualcosa di drammatico e di sconvolgente, che non riusciva a sfuggirle neppure un poco. Vi si riflettevano visibilmente uno sconcerto angosciante e la riprovazione per il torto subito. In modo preminente, vi si scorgeva l'inflessibile ostinazione a non darsi per vinti. Pareva che, da un istante all'altro, essi dovessero assistere ad una inversione di tendenza del loro tribolato destino; questa volta, però, in senso positivo per entrambi!

Alcuni attimi dopo, Lerinda pensò di prodigarsi con qualche parola di conforto a favore dei due sventurati consorti, i quali, come era facile intuire, avevano una età avanzata. Così cercò di risollevarli dalla loro grave abiezione morale e fisica. L'uomo si presentava con una lunghissima barba incolta, la quale gli faceva dare molti più anni di quanti ne avesse realmente sulle spalle. Egli, alle sue parole, volendo ringraziarla per i suoi propositi umanitari, con passi instabili si avvicinò alla grata della cella. Quando poi la ragazza gli porse gentilmente la mano, stringendogliela con forza e con calore, il poveretto le esclamò:

«Mille grazie, gentile fanciulla, per il tuo caritatevole interessamento mostrato verso di noi! Anche se ci è risultato una goccia d’acqua in un deserto, ugualmente esso è stato ambito da me e dalla mia provata consorte come un bene impagabile! Perciò ti diciamo ancora grazie per il tuo nobile gesto, che giammai dimenticheremo!»

Subito dopo, un pensiero lo trattenne dal seguitare a parlare alla ragazza, quasi fosse intervenuto in lui un sospetto, il quale lo aveva messo sul chi va là. Così si affrettò a domandarle:

«Mi dici chi sei, dolce fanciulla, che sei stata così generosa con noi due? Vorrei sapere pure come mai hai libero accesso a questa prigione e puoi visitarla in piena tranquillità, senza che ti venga imposto il divieto. Ti prego di rispondermi sinceramente, per favore!»

In un primo momento, Lerinda trovò una grande difficoltà a dare la risposta alle sue due domande, poiché non sapeva come avrebbe reagito il carcerato alla sua risposta. Dopo, considerando la menzogna una cosa spregevole, ella ritenne giusto non sottacergli la verità. Perciò, provandone vergogna, si affrettò a rispondergli:

«Ho libero accesso alle carceri, brav’uomo, perché sono la sorella del re Cotuldo. Io, però, non la penso allo stesso modo di mio fratello e sono molto diversa da lui! Chiunque tu sia, devi credere a queste mie affermazioni, considerato che esse sono sincere!»

Ascoltata la risposta della principessa, l'uomo riuscì a captare solo la sua frase iniziale. Subito dopo egli, mostrandosi turbato ed inorridito nel volto, badò a ritrarre la sua mano dalla stretta di quella di lei. Allora la ragazza, colpita intimamente dal gesto sprezzante del recluso, provò un immenso dispiacere. Esso, comunque, non le proveniva dal risentimento provato contro di lui; bensì per la mortificazione che era stata costretta a subire, a causa del suo disprezzo. Il quale, secondo il suo parere, si mostrava più che comprensibile e giustificato!

Fu in quell'istante che sopraggiunse anche Iveonte. Egli si era appena disimpegnato dal detenuto, che prima lo aveva trattenuto. Una volta arrivato, il giovane, ignorando completamente Lerinda e i due anziani carcerati con i quali ella si era fermata a chiacchierare, si diresse direttamente verso l'opposta parete. Incavata in essa, si poteva intravedere una specie di nicchia alta un metro e mezzo. Nel suo interno c'era collocata una piccola statua raffigurante un arciere. Quando fu ad un passo da essa, egli esclamò: "Se ricordo bene, questa statuina nasconde un segreto!" Iveonte stava poi per toccarla, per cercare di muoverla in qualche maniera, allorché una voce alle sue spalle intervenne a dirgli:

«Ma tu chi sei, per conoscere alcune cose che non dovresti?! Dimmelo, per carità! Chi ti ha mai parlato di tale segreto, che, a parte me, nessun altro conosce?! Un giorno ebbi modo di svelarlo soltanto al mio primogenito Iveonte, proprio come mio padre Kodrun aveva fatto con me da vivo, quando avevo l’età di quindici anni!»

A quelle parole che erano state emesse ad alta voce dal recluso, il giovane immediatamente rinunciò a toccare la statuina e si voltò indietro. Avendo poi scorto colui che gli aveva parlato poco prima e che restava appigliato alla griglia della cella; anzi, continuava a fissarlo con degli occhi quasi stravolti, gli rispose:

«Ma a quale segreto ti sei riferito, vecchio? Io non ne so proprio nulla! Ho detto forse qualcosa in merito? Se sì, non lo ricordo affatto! Comunque, se ti fa piacere, puoi illuminarmi tu su di esso. Intanto che mi spiegherai ogni cosa, ti ascolterò volentieri!»

Alla fine il giovane, cercando di resistere al suo sguardo elettrizzante, si sentì venir meno e cadde a terra svenuto. Iveonte aveva agito dietro un impulso interiore, il quale non era da attribuirsi ad un normale funzionamento del cervello; ma ad un'azione momentanea ed inesplicabile del suo subcosciente. Quest'ultimo, già in altre circostanze, gli aveva presentato alcuni posti della reggia come dei luoghi a lui familiari, senza che egli riuscisse a spiegarsene la ragione. Ogni volta, però, dopo aver agito e detto qualcosa in relazione ad essi, appariva poi come cascato dalle nuvole, ignaro di aver detto e fatto alcunché intorno a quei posti. La qual cosa aveva fatto preoccupare Lerinda, ritenendo il suo innamorato vittima di qualche temibile malattia mentale.

Nel vedere il suo ragazzo accasciarsi al suolo privo di sensi, la principessa si diede ad invocare soccorso. Allora subito accorsero quattro guardie carcerarie, alle quali ordinò di sollevare il giovane da terra e di trasportarlo nella sua stanza. Mentre poi si allontanava, stando dietro ai carcerieri che si portavano via lo svenuto fidanzato con molta cura, Lerinda sentì il vecchio parlottare tra sé nel modo seguente: "Egli mi ricorda moltissimo il mio Iveonte! Stramaledetti siano il mago Ghirdo e il rapace uccellaccio che lo aggredì alla spalla destra! Adesso chissà in quale zona remota si trova il mio primogenito, se riuscì a sfuggire al ventre di qualche fiera affamata!" Un attimo dopo, però, lo sentì anche scoppiare in un pianto dirotto. Invece non poté vedere la consorte, mentre si affrettava a raggiungerlo per tentare di alleviargli l'ambascia e la disperazione, le quali repentinamente si erano impadronite di lui. Esse, intanto che lo ghermivano con forza, si erano date a struggerlo in maniera assai irritante.

Dopo che le guardie carcerarie lo ebbero trasportato nella stanza della principessa e lo ebbero adagiato sopra il letto di lei, Iveonte all'istante riprese i sensi. Inconsapevole di quanto gli era accaduto nelle carceri, egli andava manifestando il massimo stupore. Nello stesso tempo, non riusciva a spiegarsi come mai si trovasse disteso su quel letto e non più nelle carceri. Allora si rivolse a Lerinda e le chiese:

«Dimmi, gioiello mio, che cosa mi è accaduto poco fa e perché mi ritrovo all'improvviso sul soffice letto di questa stanza. Inoltre, voglio avere anche spiegato da te chi, operando lo strano incantesimo, mi ha portato via dalla prigione, senza neppure farmene accorgere! Dunque, mi riferisci tutto quanto ti ho chiesto, mia dolce Lerinda?»

«Non c'è stata la malia di nessuno, mio caro Iveonte; ma hai semplicemente perso i sensi, mentre opponevi il tuo sguardo a quello del vecchio detenuto che occupava l'ultima cella. In quel momento, non riuscendo a farti rinvenire, ho chiamato quattro guardie carcerarie e ti ho fatto trasportare da loro nel mio alloggio personale. Al quale, fino a ieri, l'accesso era consentito alla sola mia nutrice Telda, la quale è la donna addetta al suo riordino e alla sua pulizia. Lo sai, amore mio, che ella mi ha cresciuta da bambina? Si può dire che mi abbia fatto da madre! Inoltre, la mia tata mi è stata sempre molto affezionata e non volle separarsi da me, neanche quando decisi di venire a vivere a Dorinda, presso la reggia di mio fratello Cotuldo. Riguardo poi al vecchio recluso, credo che egli ti abbia ipnotizzato con il suo sguardo, il quale anche a me era risultato un attimo prima molto acuto e penetrante! A mio avviso, non può esserci una spiegazione differente!»

«Non è possibile ciò che affermi, cara Lerinda. Quando mi sono voltato e l'ho scorto, ero già in uno stato psichico anormale; anzi, mi stavo riavendo da esso proprio in quel momento. Direi che sia stata la mia insistenza nel voler scrutare i suoi occhi ardenti ad arrecarmi prima dei forti capogiri, poi uno stordimento e infine la completa perdita di coscienza. La quale mi ha fatto riversare per terra svenuto.»

«Iveonte, vuoi dirmi cosa avevano di strano gli occhi del vecchio carcerato? Adesso non credi di esagerare un poco? Io vi ho letto solamente disperazione e sofferenza!»

«In effetti, non avevano niente di particolare, Lerinda. Mi è solo sembrato che essi mi trascinassero in tempi remoti, i quali non avevano nulla a che vedere con quelli che mi ritrovo a vivere attualmente. Per alcuni attimi, una incomprensibile irrealtà è venuta ad avvolgermi, a rapirmi e a condurmi in un mondo remoto. Così facendo, essa mi ha stordito e mi ha fatto perdere i sensi, senza farmi più pensare a niente.»

«È stata davvero strana la tua nuova percezione di oggi, Iveonte! Nella reggia, le altre volte ti sei soltanto trasformato psichicamente, ma non c'è stato nient'altro in te! A questo punto, caro amore mio, ritengo mio dovere palesarti chi era il vecchio recluso e cosa egli ha affermato sul tuo conto. Dopo starà a te pensare ciò che vuoi!»

«Allora parlami di lui, mia amata Lerinda, e riferiscimi anche in che modo egli si è espresso nei miei confronti!» Il giovane sollecitò la sua ragazza a dirgli ogni cosa sull’episodio avvenuto in carcere.

Dopo l'annuncio che gli aveva fatto la sua fidanzata, egli aveva manifestato molta ansia nel rivolgersi a lei. Anzi, si era comportato in quel modo, anche mentre attendeva di conoscere il contenuto delle parole che aveva pronunciato lo strano detenuto dell'ultima cella.

«Uno dei carcerieri, al quale ho chiesto di lui, all'inizio ha mostrato un'aria misteriosa e perplessa. Dopo, facendomi promettere che non avrei riferito a mio fratello di avermelo rivelato, mi ha assicurato che le due persone anziane sono gli ex regnanti di Dorinda, ossia il re Cloronte e la regina Elinnia. Per Lucebio, per te e per i tuoi amici, Iveonte, questa rivelazione non è forse una bellissima notizia?»

«Certo che lo è, mia Lerinda! Ma voglio pure apprendere da te che cosa ha detto lo sventurato re di Dorinda sul mio conto! Perciò sbrìgati a riferirmelo, per favore!»

«Egli si è messo a dichiarare che tu gli ricordavi un suo figlio, il cui nome era Iveonte. Ma adesso che ci penso, stranamente tu porti il suo stesso nome. In relazione a ciò, cosa sai dirmi, amore mio? Possibile che si tratti di una pura coincidenza?»

«Già, egli si è riferito al suo primogenito Iveonte, il figlio che fu mandato a morte, allo scopo di scongiurare le preconizzate disgrazie di Dorinda e del suo re Cloronte! Ma esse in seguito, ironia della sorte, si sono lo stesso avverate, a dispetto del vaticinio del mago Ghirdo! Oltre a ciò, non so più niente sul primogenito di Cloronte!»

«Iveonte, come fai ad essere informato sul primo figlio dell'ex sovrano di Dorinda? C'è stato forse qualcuno a parlarti di lui? Se è così, voglio sapere chi è stato.»

«La vicenda ci è stata raccontata da Lucebio, Lerinda, alcuni mesi fa, cioè lo stesso giorno che i miei amici ed io siamo entrati a far parte del gruppo dei ribelli. In quella occasione, anch'egli ebbe delle idee simili sul mio conto, basandosi forse soprattutto sul nome che portavo. Ma lo convinsi del contrario, dicendogli che il mio nome non era quello di nascita; bensì quello che mi aveva dato chi, fino a poco tempo prima, si era preso cura di me e di Francide. Il mio amico non poté fare a meno di confermarglielo, essendo stato lui stesso a chiedere al nostro Babbomeo un nome per me, visto che non ricordavo più il mio. Questa è la verità pura e semplice, dolce mia Lerinda. Non farti anche tu delle strane idee sul mio conto, poiché esse ti farebbero solamente perdere tempo!»

«Ma il re Cloronte non conosceva il tuo nome, Iveonte, per cui le sue impressioni di sicuro non si sono basate su di esso, come è avvenuto con Lucebio. Quindi, bisogna ammettere che la somiglianza fra te e il suo primogenito, anch’essa per un fatto abbastanza strano, deve esserci senz'altro! Che tu lo voglia oppure no!»

«Ammettiamo anche che ci sia, Lerinda, ciò comproverebbe forse qualcosa? Di certo, no! Tante persone si somigliano, senza esserci tra di loro nessun vincolo di parentela. Secondo te, da pochi centimetri quadrati del volto umano, quanti immagini si possono ottenere? Anche se moltissime, il loro numero non potrà mai essere infinito. Per cui, alla fine, dovranno pure esserci dei volti più somiglianti e meno somiglianti fra loro! Non parliamo poi dei sosia! Hai capito dove intendo arrivare, amore mio? Se fossi il vero figlio del re Cloronte, sarebbe mai possibile che non ricorderei nulla di me, di mia madre, di mio padre, dei miei fratelli, della mia reggia, di Lucebio, insomma dell'intera mia fanciullezza? Secondo me, ciò sarebbe davvero impossibile!»

Allora Lerinda si rese conto che Iveonte aveva afferrato i suoi pensieri; ma si convinse anche che egli era ben deciso a confutarli, naturalmente in buona fede. Stando così le cose, considerò ragionevole non insistere oltre su tali argomentazioni, che si rivelavano possibili ed assurde allo stesso tempo. Riprendendo poi il tema della somiglianza, la ragazza ci tenne ad evidenziare quella esistente tra il suo amato e la ragazza di Francide, la quale lo stesso si presentava davvero incredibile.

«Sai, Iveonte, che scorgo una somiglianza straordinaria anche fra te e Rindella, la ragazza del tuo amico fraterno? Si direbbe che siate fratello e sorella! Questo particolare mi convince quasi a darti ragione, amore mio! Per questo non può essere diversamente da come hai posto tu la questione. Adesso me ne sono convinta!»

«Hai visto, Lerinda? È proprio come ti dicevo poco fa. C'è forse qualche parentela fra me e Rindella? Certo che no! Eppure tu dici che ci somigliamo a tal punto, da sembrare addirittura fratello e sorella. Dunque, la rassomiglianza non deve indurci a credere una cosa per un'altra. Mi fa piacere che te ne sei finalmente persuasa!»

«Te ne do atto, prezioso tesoro mio! Perciò, dal momento che la mia teoria si è dimostrata errata, in avvenire mai più cadrò in un errore simile! Te lo prometto!»

Fu così che ebbe fine la conversazione tra i due innamorati; ma essi vollero suggellarla con un lungo ed ardente bacio. Allora fecero congiungere le loro labbra, le quali già apparivano vogliose di scatenarsi nella sensualità più gratificante. Quando poi essa si smorzò, Iveonte si affrettò a ritornarsene presso Lucebio. Egli era impaziente di recargli la bella nuova, cioè che il re Cloronte e la regina Elinnia erano ancora vivi nelle carceri di Dorinda, anche se parecchio prostrati. Il giovane, mentre galoppava, si mostrava sicuro che essa gli sarebbe risultata immensamente gradita.