142°-IVEONTE SI RECA NEL BOSCO ALLA RICERCA DI LERINDA

Da tempo immemorabile, nella città di Dorinda circolava una strana voce, la quale era ritenuta dalle persone altolocate una indiscutibile suggestione del popolino. Questo, dal canto suo, affermava invece che essa era ben altro che il frutto di un'autentica fantasia! Comunque, sorvolando sul grado di attendibilità della voce in questione, per il momento ci occuperemo soltanto del suo contenuto, quello che da secoli andava suscitando terrore nei Dorindani creduli ed indifferenza in quegli scettici. Ebbene, secondo quanto essa affermava, nel giorno successivo ad ogni notte di plenilunio, si verificavano nel bosco alcuni fenomeni, i quali erano da considerarsi fuori del comune. Essi erano dati per certi da poche persone, che si consideravano completamente sane di mente. Le stesse non avevano alcuna difficoltà a convalidarli con la loro personale testimonianza. Allora ascoltiamone qualcuna per rendercene conto.

Ancora con un po' di tremarella addosso, alcuni cacciatori, infondendo sgomento nelle persone suggestionabili e facendosi dileggiare da quelle diffidenti, raccontavano di essersi trovati nel bosco molto vicini ad un essere strano. In verità, dell'ipotetico mostro, essi avevano udito unicamente l'enorme fruscio, il quale aveva accompagnato ogni volta il suo passaggio. In sua presenza, inoltre, l'intera fauna boschiva si era messa in grande subbuglio; invece la flora ne aveva subito delle conseguenze rovinose. Quanto a quegli arditi, che temerariamente avevano voluto rendersi conto da vicino del misterioso fenomeno, essi tutto d'un colpo erano spariti nel nulla, come se fossero stati inghiottiti da qualche cosa, che non si lasciava avvistare in alcuna parte e in nessun modo. Perciò dopo si era atteso invano il loro ritorno tra i propri familiari, poiché essi non si erano più fatti vedere nel loro focolare domestico. Quindi, basandosi su quelle improvvise sparizioni, tutti i cacciatori referenti giustamente sospettavano che il bosco fosse abitato da un mostro con dimensioni non di poco conto. Inoltre, gli stessi supponevano che il mostruoso essere avesse le attitudini di una talpa, dal momento che riusciva senza difficoltà a sprofondare nel terreno e a venirne fuori. Perciò, a causa di quelle sue peculiarità talpine, alla fine esso era stato soprannominato Talpok. Il qual nome, probabilmente, gli calzava a pennello. Sempre a proposito dei medesimi cacciatori, essi erano giunti a tali conclusioni, non perché avevano assistito di persona a siffatte operazioni di scavo e di sprofondamento nel suolo da parte del mostro; ma perché esse rappresentavano il mero contenuto delle loro congetture. Le quali si fondavano sul fatto che lo smosso terreno e la irreperibilità della sua dimora li obbligavano a ragionare in quella maniera. Per la quale ragione, le persone con la passione venatoria raccomandavano alla gente di non avventurarsi all'interno del bosco nei giorni prossimi alla luna piena, essendo essi quelli in cui il terribile Talpok faceva la sua pericolosa apparizione. Anzi, coloro che si fossero azzardati a sfidare la sorte in tale periodo, il quale era da evitare e non lo si consigliava a nessuno, ci sarebbe potuto essere il rischio di non rincasare più.

Il sovrano Cotuldo stava appunto riferendo alla sorella tali raccapriccianti fatti, intanto che il trotto dei loro cavalli diretti verso la fitta zona boschiva diveniva sempre più alacre. Egli, quasi a voler prendersi gioco della ragazza, con il chiaro intento di spaventarla, cercava di intimorirla, sia esagerando nell'esposizione dei fatti sia simulando una completa disponibilità a dar credito a quelle voci avvilenti. Al contrario, dal discorso che stava facendo alla sorella con l'intento di canzonarla, fu proprio lui a rimetterci, siccome gli derivò da esso tutt'altro effetto sperato.

«Mi raccomando, Lerinda,» egli stava dicendo alla sorella «dopo che saremo giunti nel bosco, evita di metterti a rincorrere farfalle o altri tipi di insetti, poiché essi di proposito potrebbero condurti direttamente nelle fauci del Talpok. Mi riferisco al feroce mostro, il quale si ciba di esseri umani, con spiccata preferenza per le donne. Perciò tieniti sempre vicina agli altri componenti la comitiva, specialmente oggi che è il giorno in cui il mostro dovrebbe fare la sua temibile apparizione! Coloro che ne parlano hanno attestato che esso può ingoiare una intera persona in un boccone. Ecco perché, ogni volta che ha da farsi una partita di caccia, nel bosco ci vengo con il cuore che mi scoppia sotto il petto! Non ti nascondo che mi succede la stessa cosa, anche quando non è il giorno in cui non è prevista la sua uscita dal sottosuolo! Sai, non mi fido mica dei cacciatori che ne hanno parlato, poiché essi, ignoranti come sono, potrebbero aver osservato in modo errato il periodo ciclico delle apparizioni del mostro nel bosco! E non è di mio gradimento essere sorpreso da lui e diventare un suo prelibato bocconcino! Del resto, neppure tu lo gradiresti, essendo molto attaccata alla vita. Non è forse vero, sorella?»

«Fratello mio, dimentichi che sono già parecchi anni che ho lasciato il grembo materno? Le favole non si addicono più alla mia età, poiché adesso inseguo ben altre chimere! Se poi tali storie malauguratamente dovessero corrispondere a verità, allora saprei io come regolarmi. Sotto la protezione di quel giovane, che ieri ha fiaccato la protervia di Croscione, non credi che potrei considerarmi al sicuro? Egli è una persona valorosa e retta, con un carattere diametralmente opposto a quello posseduto da una coppia di furbacchioni di mia conoscenza! Inoltre, Cotuldo, voglio farti presente che tu non risulteresti al Talpok una vera ghiottoneria, poiché sono convinta che, dopo essere stato divorato da lui, lo faresti morire avvelenato, con tutta la cattiveria che ti ritrovi nell'animo! Non lo credi anche tu, che ne sei il detentore in assoluto?»

Le parole della fanciulla produssero nell'animo del sovrano di Dorinda un'acuta puntura. Il despota intravide in esse un manifesto allontanamento da sé anche da parte del suo sangue. Quest’ultimo, in quella circostanza, si rivelava addirittura sprezzante del suo aiuto ed avverso al suo operato. Le quali cose lo mortificarono non poco e lo misero in un'agitazione non indifferente. Ma poi, non volendo dar peso all'affronto ricevuto dalla sorella, per risparmiarsi una ulteriore arrabbiatura, egli si decise a saltare di palo in frasca. Perciò decise di introdurre nella loro conversazione un argomento del tutto nuovo, il quale gli risultasse più gradevole. Per questo poco dopo le fece osservare:

«Lerinda, se ieri ci avessimo ripensato e non fossimo ritornati subito a corte, l'avremmo indovinata. Infatti, nell'ora successiva c'è stato un totale cambiamento del tempo meteorologico. Dalla giornata di ieri, ho imparato che anche il tempo, quando ci si mette di proposito, riesce a giocare dei tiri mancini a chicchessia, specialmente a quelle persone che, avendo deciso di trascorrere la giornata in un certo modo, sono invece costrette a passarla in altre attività no proprio gradite!»

«Quanto hai affermato, Cotuldo, è una sacrosanta verità. Anche il tempo a volte ne combina di tutti i colori, senza guardare in faccia a nessuno. Non fa eccezione neppure un sovrano come te, per cui non ti è consentito di ricevere da lui dei privilegi oppure dei favori! Perciò, se io fossi al posto tuo, ordinerei al boia di recidergli il capo. Così facendo, gli farei pagare il mancato rispetto che mi doveva nella giornata di ieri e che invece mi ha mancato apposta. Esso sì che sarebbe un risoluto provvedimento da vero re! Facendo poi mostra della mia potenza, dissuaderei qualsiasi fenomeno naturale e qualunque persona dal prendersi gioco di me, perfino quando quest'ultima è intenta a sognare. Fratello mio, ti garantisco che farei proprio quanto ti ho fatto presente!»

Il re Cotuldo si ebbe appena reso conto che nella trappola della canzonatura ci stava cascando ancora lui e non la giocosa sorella, allorché si giunse di nuovo presso il campo di Lucebio. A quella comitiva di oziosi incalliti, quel luogo si presentò pervaso di una intensa energia operosa, la quale gli proveniva dai tre vigorosi giovani. I tre amici, infatti, lavorando con grande lena, stavano portando a termine ciascuno un proprio lavoro. Astoride si dava da fare nell'abbattere un albero, dando dei poderosi colpi di scure alla base di esso. Francide, dal canto suo, aiutato da altre due mani abili, era tutto dedito alla costruzione di un casolare: in quel momento, ne stavano intavolando il pavimento. Invece dei lavori più delicati venivano svolti da Lucebio e da Iveonte. L’attempato uomo era intento a spellare con delicatezza una dozzina di volpi, che erano state cacciate qualche ora prima, per ricavarne carni e pellicce. Il giovane, da parte sua, preparava con mani esperte delle snelle saette, le quali sarebbero dovute risultare molto efficaci durante la caccia.

Sebbene lo schiamazzo risultasse assordante alle loro orecchie, composto com'era da abbai di cani, da nitriti di cavalli, da grida di cavalieri e da sordi suoni di corni, nessuno dei quattro si lasciò distrarre dal lavoro. Invece essi seguitarono a portare avanti con assiduità i loro rispettivi compiti. Allora il re Cotuldo e Lerinda, lasciando andare avanti quelli che conducevano al guinzaglio gli agili ed abbaianti segugi, spronarono i loro cavalli in direzione di Iveonte. Quella loro iniziativa fu accolta da Croscione con giustificato sospetto e con morbosa gelosia. Comunque, giunto ad un paio di metri da lui, il tiranno gli esclamò:

«Salve, ardito ed abile giovanotto! Come mi è dato di notare, sei in gamba in tantissime cose! Mi compiaccio con te per queste tue doti!»

Ma dopo attese che Iveonte gli rivolgesse lo sguardo per continuare a parlargli. Gli occhi di lui, però, guizzarono immediatamente sulla persona della sorella Lerinda. Da parte sua, il re Cotuldo, senza dare peso al suo imprevisto atteggiamento ed esternando molto compiacimento per quanto scorgeva tutt'intorno a sé, seguitò ad affermargli:

«Come mi avvedo, in questo luogo spira un intenso lavorio! Se fossero tutti i miei sudditi uguali a voi, in un lampo, vedrei decuplicati i miei introiti! Invece, Iveonte, dovresti vederli come essi si dimostrano apatici ed insofferenti del lavoro. Si direbbe che lo schifino peggio della peste! Mia sorella Lerinda mi ha anche riferito quanto hai fatto in città a favore dello sfortunato marmista capitato sotto il proprio stesso carro. Mi ha fatto piacere apprendere ciò che sei stato in grado di fare per il poveretto. Anzi, non ho potuto fare a meno di considerarlo qualcosa di inaudito e impossibile ad un essere umano!»

Essendosi poi accorto che il giovane lo ascoltava con indifferenza, senza dargli alcuna risposta, pensò che egli ce l'avesse con lui, per averlo accolto male a corte, quando gli si era presentato con i suoi amici. Allora, volendo rimediare, non si astenne dall'ammettere:

«È vero, un grande torto vi feci quel giorno, quando vi ricevetti nella mia reggia; ma oggi sono disposto a scusarmi con te e con i tuoi amici. Sono convinto che Dorinda non potrebbe avere dei cittadini più benemeriti di voi tre; mentre io non potrei avere dei sudditi più benaccetti di te e dei tuoi compagni! Adesso, essendomi reso conto con quali persone ho a che fare, potete restare nella mia città tutto il tempo che volete!»

Queste ultime parole del re furono accompagnate da un patetico sorriso di Lerinda. In quel modo, ella intese dare una valenza di sincerità all'interessamento del fratello verso il giovane e i suoi due amici. Ma Iveonte non ci teneva ad essere rassicurato di ciò, poiché sapeva a fondo che il re Cotuldo era una persona inemendabile. Invece era la simpatia della sua giovane sorella che gli stava di più a cuore e di cui adesso aveva avuto l'assoluta certezza. All'istante, perciò, era venuta ad esserci nel suo animo una gioia immensa, la quale lo faceva apparire esteriormente assai compiaciuto. Comunque, era dubbia la interpretazione del tiranno del nuovo atteggiamento assunto da Iveonte. Era possibile che lo avesse ritenuto opera delle sue parole di riconciliazione appena pronunciate? Pur prescindendo dal fatto che egli fosse rimasto all'oscuro dell'atteggiamento della sorella verso il giovane, una volpe del suo stampo mai e poi mai si sarebbe persuasa di una cosa simile. Perciò, con un volto apparentemente appagato, continuò ad esprimerglisi così:

«Ieri mi sono convinto che anche nella caccia mostri una perizia inimitabile. La qual cosa mi fa molto piacere! Sai che stamani ho promesso una bella ricompensa al cacciatore che mi procurerà la preda migliore? Se prendessi parte anche tu alla gara, non avrei dubbi che essa andrebbe a te, abile come sei nel cacciare! Dunque, perché non ti unisci alla nostra comitiva e ci dimostri con i fatti che veramente ci superi tutti anche nell'arte venatoria? Come vedo, pure la mia carissima sorellina ne sarebbe molto felice, visto che ha iniziato ad ammirarti!»

Iveonte, che aveva stabilito di dare tregua ad ogni sua ostilità nei confronti del tiranno di Dorinda, ma unicamente perché non voleva inimicarsi la sua deliziosa germana, né tanto meno intendeva farla soffrire, lì per lì preferì tacere. Poco dopo, però, divenuto di nuovo abbastanza serio nel volto, gli ebbe a rispondere:

«Devi sapere, re Cotuldo, che i miei compagni ed io andiamo a caccia soltanto per procacciarci il cibo che ci serve come sostentamento e le pelli che ci occorrono per ripararci dal freddo dell'inverno. Quindi, tale attività giammai viene praticata da noi a scopo di diporto o al fine di scacciare da noi la noia, dopo che essa si è inserita provvisoriamente nel nostro animo! Per questo motivo, devo ricusare il tuo invito.»

«Naturalmente, Iveonte, non è mia intenzione forzarti a seguirci nel bosco.» tese a concludere il despota «Se queste sono le tue convinzioni nei riguardi della caccia, rèstatene pure dove sei. Così non diventerai debitore del dovere! Quanto a me, invece quest'oggi intendo spassarmela quanto basta e sgranchirmi le membra con un po' di moto. La vita di corte mi fa arrugginire le ossa ed afflosciare i muscoli!»

Poi, essendo intenzionato ad abbandonare quel luogo al più presto, egli si rivolse alla sorella, la quale in un certo senso appariva visibilmente contrariata, e le disse:

«A questo punto, Lerinda, ci conviene lasciare questo posto, dal momento che ci siamo attardati più del necessario, senza combinare un bel niente. Sono convinto che gli altri si staranno spazientendo tantissimo per il nostro forte ritardo. Dunque, evitiamo di farli attendere altro tempo! Allora andiamo via, sorella?»

«Sì, fratello, raggiungiamo gli altri!» acconsentì la ragazza, spronando il cavallo e seguendo a pochi metri di distanza lo stretto congiunto. Nel fare ciò, ella diede a vedere di essere anche un po' imbronciata. Quando poi si fu allontanata di una ventina di metri dal giovane, che aveva appena lasciato, facendo voltare indietro la sua bestia, gli gridò:

«Sono sicura che verrai senz'altro, valoroso Iveonte. Perciò starò in ansia ad attendere il tuo arrivo nel bosco! Non dimenticare che potrei aver bisogno di qualcuno che mi difenda dalle insidie che vi sono annidate. Chi meglio di te potrebbe farlo? A presto, quindi, poiché starò ad aspettarti ad ogni minuto che trascorrerà!»

Una volta sgomberato dal corteggio reale, il rifugio di Lucebio ritrovò la quiete di prima; ma non la stessa cosa si poteva dire del giovane. A descrivervi la sofferenza del suo animo, basta pensare alla folla osannante di un'arena. Essa, mentre applaude tutta estasiata il suo spavaldo torero che le sta offrendo un avvincente e travolgente spettacolo, cade poi nel più tetro sbigottimento. Il nuovo stato d'animo in preda allo sconforto è provenuto ad essa dall’avere scorto il suo campione soccombere sotto le cornate fatali dell’inferocito animale. La medesima onda di emozioni, bellissime a prima vista e assai brutte dopo il subentro della riflessione, invase Iveonte. In un primo momento, le parole della ragazza si erano ripercosse sul suo timpano auricolare come festosi rintocchi di campane a festa. Perciò, non lasciandosi sfuggire l'occasione, egli le aveva utilizzate a fare di sé l'uomo più felice della terra, esultando e provando molto giubilo. Quella sua iniziale contentezza, però, era durata solo poco tempo, cioè fino a quando non era sopravvenuta una nuova realtà dall'aspetto truce e sadico, la quale gli si presentò come una vera guastafeste. Ma occorre precisare meglio la sua situazione.

All’inizio, infatti, Iveonte si era gustato con ingordigia la piacevolezza del momento, la quale gli era derivata dalla stima che gli aveva dimostrata Lerinda. In seguito una valanga di pensieri scocciatori spietatamente si affacciarono alla sua coscienza ed iniziarono a martoriargli l'animo. Perché c'era stato quel colloquio con il re Cotuldo, nel quale egli aveva voluto adoperare un linguaggio da uomo integerrimo? Adesso era proprio esso che, assoggettandolo al senso del dovere, gli complicava l’esistenza. Di preciso, non intendeva assolutamente apparire incoerente con sé stesso, tradendo con i fatti quel dovere che aveva difeso a spada tratta con le parole. Quindi, nel giovane lottavano due forze contrastanti: l'una era quella del cuore e l'altra quella della mente. La prima corrispondeva a quella del sentimento; mentre la seconda era quella della ragione. Per tale motivo, ne soffriva tantissimo. Ad ogni modo, lo addolorava anche il fatto che egli non riusciva né a conciliare le due opposte tendenze che si andavano dibattendo nel suo animo, né a dichiararsi apertamente a favore di una delle due. Ne conseguiva che, tra l'accettare e il rifiutare l'invito di Lerinda, il poveretto vi vedeva nel mezzo un baratro colmo di numerose lotte interiori, le quali lo tenevano in grandissima tristezza. Allora Lucebio, da eccellente conoscitore dell'animo umano qual era, non ci mise molto a penetrare quello dell'angustiato giovane. Anzi, all'istante vi scorse la tempestosa bufera che lo stava affliggendo in modo inusitato. Perciò pensò di venire immediatamente in suo soccorso, con l'obiettivo di liberarlo da quel suo penoso dissidio interiore. Così, dopo che gli si fu avvicinato, con cautela si diede a fargli il seguente discorso:

"Mi congratulo con te, Iveonte! Ho visto che la splendida sorella del despota è ciecamente innamorata di te. Non hai visto come ti rubava con quei suoi occhi tanto ammalianti quanto pudichi? Perché, dunque, non accetti il suo invito, il quale è pure il primo che ricevi da lei? Ti invito a non dare retta a quanto si agita in te, poiché ella, intelligente com'è, ha pensato al modo di sistemare la cosa, appunto per non farti sfigurare agli occhi della tua coscienza e a quelli altrui. A mio avviso, la ragazza, oltre ad essere saggia, ha un intuito psicologico formidabile. Ella ha compreso all'istante che non ti avrebbe smosso e trascinato nella partita di caccia con un semplice invito. Strano a dirsi, ma ella è già convinta che nessuno ti avrebbe fatto recedere dai tuoi giusti principi morali. Perciò, ricorrendo ad una trovata psicologica, ha voluto pensarci lei a scioglierti quello che per te sarebbe risultato un nodo tanto indissolubile quanto imbarazzante. Chiedendoti di difenderla dalle insidie del bosco, la principessa ha voluto farti trovare in una situazione del tutto diversa.

Perciò adesso non devi più scegliere tra il lavoro e l'ozio, bensì tra il lavoro e il soccorso a chi ne necessita. Essendosi messe così le cose, la giusta legge ti ordina l'interruzione immediata di qualsiasi attività e ti obbliga a soccorrere la tua Lerinda. Perciò lo farai, senza perdere altro tempo e senza farti prendere dal rimorso. Inoltre, devi sapere che per il bosco si aggira il mostruoso Talpok e la tua ragazza, senza avere al fianco un invincibile guerriero come te, potrebbe diventare la sua ennesima vittima. Anche se, riguardo alla sua esistenza, mai nessuno ha saputo affermare con certezza se si tratta di un essere reale oppure immaginario. Dunque, che cosa aspetti a deciderti? Corri senza indugio a salvare la tua dama, la quale, come è già avvenuto con alcuni cacciatori dorindani, potrebbe diventare la nuova ambita preda del mostro!"

Le parole di Lucebio rincuorarono l'abbacchiato giovane e, dopo aver rimosso in lui gli ultimi restanti scrupoli, l'obbligarono ad aderire all'invito della fanciulla. Così, tra i consigli di prudenza di Lucebio e gli auguri di un ottimo diporto da parte dei suoi due amici, Iveonte si incamminò rapidamente verso il vicino bosco. Egli voleva trovarsi al più presto accanto alla sua Lerinda che lo stava aspettando, volendo proteggerla da qualunque pericolo che le si fosse presentato e garantirle con la sua presenza l'incolumità, nel caso che esso avesse cercato di sopprimerla.


Quando giunse ai margini della boscaglia, Iveonte non scorse nessuno in ogni suo angolo; la stessa cosa gli capitò di constatare, dopo aver perlustrato la zona boschiva più interna. La sua considerazione a tale riguardo lo portò a credere che il premio promesso dal re Cotuldo avesse fatto gola a tutti, se l'intero suo seguito si era lanciato nella folta vegetazione, alla ricerca della migliore preda esistente. A quanto pareva, nessuno si era preoccupato minimamente del fatto che in quelle zone infide qualche velenoso serpente potesse avergli serbato una ricompensa ben diversa da quella che gli era stata promessa dal sovrano! Ma visto che ci siamo, possiamo anche ipotizzare che fosse stato invece l’ordine categorico del despota a spingerli tutti quanti in tale impresa. Per cui l'elemento pecuniario o l'intento velleitario di far mostra delle loro doti venatorie non c'entrava affatto. In tal caso, però, bisognava presupporre che il sovrano di Dorinda mirasse a dimostrare a qualcuno di nostra conoscenza che anche i suoi uomini si rivelavano degli ottimi cacciatori. Naturalmente, quando si dedicavano coscienziosamente all'arte venatoria!

Dopo aver iniziato la penetrazione del bosco, Iveonte non aveva fatto ancora molta strada, quando gli sembrò di udire dei ruggiti di tigre. Allora egli si chiese se fosse certo di non essersi sbagliato. Comunque, anche se poteva risultare inverosimile, l’evento era da considerarsi sempre un caso probabile. Anche se la foresta, con le sue svariate specie di belve feroci e con i suoi intrighi mortali, si trovava ben lontana dal luogo in cui egli si trovava. Secondo però il parere dell'ardimentoso giovane, la zona boschiva, che stava percorrendo animosamente, escludeva ogni possibilità di capitare per caso in qualcuno di tali giganteschi felini. I quali, dopo essersi assuefatti alla carne umana, seguitavano a fare una grande strage di persone, allo scopo di cibarsene e di saziarsi con esse.

Ammesso pure che Iveonte avesse udito male, come si mostrava convinto anche lui, ma non era da ritenersi del tutto impossibile una evenienza del genere. Era risaputo che una regola era sempre scortata da una o più eccezioni. Infatti, poteva essere avvenuto che la tigre, della cui presenza non si avevano ancora indizi consistenti, fosse capitata in una battuta di caccia effettuata da qualche rozza tribù della foresta con battole o con altri arnesi rumorosi. Da quel luogo, in seguito, sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, dopo aver trovato scampo con la fuga ed aver perduto l'orientamento del luogo, essa fosse infine pervenuta inconsapevolmente nella zona boschiva frequentata dall'uomo. Un fatto del genere, imputabile ad un temporaneo stordimento della bestia feroce, poteva essersi verificato benissimo. Per questo esso era da attribuirsi a quegli assordanti strepiti che i banditori seguitavano ad emettere con i loro tamburi oppure con altri strumenti fragorosi. Quando si cacciava la mangiatrice di uomini, infatti, era abitudine di quelli che le stavano dietro fare accompagnare le loro ricerche da un baccano indiavolato prodotto da vari strumenti a percussione. Dei quali, ovviamente, essi si servivano innanzitutto per stanarla, poi per renderla loro facile bersaglio ed infine per colpirla con le loro frecce.

Ritornando al nostro eroe, egli, pur restando nel dubbio, badò a cautelarsi alla meglio, in quanto era sua abitudine non ritenere mai nessuna cosa assurda ed inammissibile. Inoltre, quella sua cautela gli proveniva soprattutto dal fatto che scorgeva pure il suo cavallo inspiegabilmente agitato. La bestia, come se avesse presentito un pericolo per sé, si mostrava ricalcitrante nel proseguire, impennandosi ed emettendo in continuazione evidenti nitriti di spavento. Allora, per prima cosa, il giovane smontò da cavallo, ad evitare di trovarsi tra due serie minacce, ossia tra un cavallo imbizzarrito sotto e una tigre inferocita sopra, siccome quest’ultima poteva anche essersi appostata su qualche albero. Poco dopo, tenendo le redini della sua bestia ben salde nella mano sinistra ed impugnando la spada con quella destra, il nostro eroico Iveonte si mise ad avanzare tra la fitta vegetazione, evitando di farsi notare dalla belva. Questa volta egli procedeva lentamente e con una certa circospezione, mostrandosi pronto a reagire ad un suo assalto brutale.

Quando Iveonte ebbe fatto appena venti passi, il suo orecchio fu scosso da un lacerante ruggito, il quale turbò la calma che regnava intorno. In pari tempo, si vide e si sentì uno stuolo di uccelli, dalle piume variegate, prendere il volo. Ma una insolita agitazione veniva registrata anche tra gli altri animali selvatici, che brucavano nel sottobosco. Dunque, per come stavano le cose, egli si rendeva conto che in precedenza il proprio udito non si era ingannato, poiché adesso si stava avendo la matematica certezza della presenza del temibile felino nei paraggi. Inoltre, il giovane si convinse che, a giudicare dai suoi versi famelici che continuavano a farsi sentire e a produrre spavento perfino nelle piante, la tigre non doveva aggirarsi lontano. La sua presenza poteva essere localizzata in una zona distante da lui non più di una cinquantina di passi. Tra l'altro, Iveonte osservava che, se essa non smetteva di emettere i suoi terrorizzanti versacci, ciò voleva dire anche che la medesima non aveva ancora avvertito sia la sua presenza che quella del suo cavallo. Difatti era risaputo che tale bestiaccia era solita assalire le sue prede di sorpresa e dall’alto. Allora, ad evitare un suo gioco malvagio, egli decise di agire d’astuzia con essa, costringendola a scoprirsi. Perciò, dopo aver legato il suo cavallo ad un albero lì vicino ed essersi bene acquattato dietro un grosso cespuglio, attese che la pericolosa belva andasse infine ad aggredire la sua atterrita bestia.

Così era trascorso poco tempo, quando la tigre fu vista avvicinarsi con moti flessuosi tra i cespugli del sottobosco, facendovi capolino con la sua testa stupenda e fiera. Via via che la belva si avvicinava, il giovane si rendeva conto che il bruno, il fulvo e il rossastro erano i colori predominanti del suo mantello, il quale era fatto a strisce trasversali. Il bianco, invece, era cosparso solamente sul suo ventre e su parte delle guance e delle zampe. Di lì a poco, si poté parlare anche di grandezza. Precisamente ciò fu possibile, quando lo straordinario felino si accostò di molto al cavallo e si presentò con tutta la sua mole gigantesca. Allora essa apparve maestosa e tremenda allo stesso tempo, con le seguenti caratteristiche: essendo alto poco più di un metro e lungo quattro metri, compresa la coda naturalmente, a occhio e croce, l'affamato felino poteva avere un peso superiore ai tre quintali.

Adesso l’astuta mangiatrice di uomini, mediante movimenti guardinghi, tentava di sopraffare l'agitatissimo cavallo, il quale non faceva altro che sferrare poderosi calci in ogni direzione e senza mai smettere. Essa, dopo aver squadrato bene la sua preda, decise di dare infine il suo assalto belluino. Ma Iveonte la prevenne giusto in tempo, scagliandole contro due frecce proprio mentre era sul punto di effettuare la sua aggressione con un agile balzo. Le due saette, senza fallire i loro bersagli, andarono a conficcarsi, l'una dopo l'altra e a distanza ravvicinata, negli arti posteriori della belva. Così le frecce, avendole indebolito tale parte del corpo, le preclusero la possibilità di saltare. Una volta privata della sua arma migliore, che era il salto, la tigre trovava arduo attaccare il cavallo terra terra, senza potergli saltare sulla groppa e sbranarlo. Essa si rendeva conto che l’assalto risultava una impresa alquanto rischiosa anche per un felino della sua mole. Perciò se ne guardava bene dal fronteggiare quella gragnola di calci, i quali provenivano dal quadrupede domestico, senza sosta e in tutte le direzioni!

Dopo i primi infruttuosi tentativi di assalto, che erano risultati inefficaci, la belva si diresse rabbiosamente contro il giovane, tenendo spalancate le profonde e ringhiose fauci. Queste, mentre essa avanzava, lasciavano intravedere una doppia serie di zanne bianche, le quali si presentavano grosse ed acuminate. Iveonte, vista la tigre dirigersi contro di lui, non si impaurì affatto. Dopo aver reciso di netto con la spada uno spesso ramo quasi sfrondato, lo raccolse con la mano sinistra e attese la sua minacciosa avversaria intrepidamente. Quando poi la belva fu a due passi da lui, le infilò il ramo nella gola. Mentre poi glielo teneva premuto forte nelle fauci, egli sollevò la spada con il braccio destro e le assestò un brusco fendente sul capo. Esso, se proprio non fu visto spaccarsi in due parti, lo dovette alla considerevole resistenza che il ramo aveva opposto alla lama della spada. Solamente in quel modo, la tigre, avendo avuto massacrato il duro cranio, fu abbandonata da tutte le forze e cadde per terra esanime. A quel punto, non essendoci più il pericolo della terribile fiera da lui uccisa, il giovane subito andò a slegare il suo cavallo. Allora la bestia, nitrendo per la gioia e tutto piena di riconoscenza, si diede a leccargli entrambe le mani.

Pochi istanti dopo, Iveonte era appena saltato sul dorso della sua bestia, allorché un acuto grido di aiuto, emesso da un timbro vocalico inequivocabilmente femminile, echeggiò nelle vicinanze. In quell’urlo disperato, egli riconobbe la voce di Lerinda e se ne dispiacque a non finire. Perciò, ritenendola in serio pericolo, all’istante si lanciò di corsa nella direzione da cui era provenuta la sua richiesta di soccorso. Egli desiderava esserle accanto al più presto, essendo desideroso di dispensarle il suo prezioso aiuto, nel caso che ella si trovasse in cattive acque. Nel lanciarsi alla sua ricerca, il giovane cercò di essere un fulmine, poiché in lui la premura di raggiungerla e di soccorrerla era così forte, che non lo faceva stare per niente tranquillo. Al contrario, essa lo teneva in una tensione incredibile, la quale, oltre a privarlo della sua abituale calma, gli infondeva una cupa e mesta malinconia; ma soprattutto gli procurava una orribile ossessione.