141°-IVEONTE SFIDA A DUELLO CROSCIONE E LO UMILIA

Quando aveva raggiunto il gruppo dei cavalieri, l'audace giovane prima si era arrestato a pochi passi da loro e poi aveva messo mano alla favella. Servendosi di essa, egli aveva manifestato parecchia ripugnanza per lo spettacolo, a cui si era trovato ad assistere assai nauseato. Oltre all'atteggiamento disgustato mostrato verso di esso, Iveonte non aveva fatto a meno di ricorrere a dei pungenti biasimi, i quali erano stati rivolti agli intrusi capitati nel campo di Lucebio. In particolar modo, essi erano stati indirizzati a quelli che si stavano macchiando di un'azione tanto turpe quanto infame a danno di una persona anziana. Perciò si era rivolto a tutti loro, mettendosi a dire:

«Canaglie maledette, tanta perfidia si annida in voi? Inveite contro una persona avanzata negli anni e indifesa, solo perché trovate facile il vostro compito? Già, è vostra abitudine uccidere chi è già mezzo morto! Voi, emeriti imbelli, temete di affrontare il vero uomo. Il bravo Croscione questo lo sa benissimo, poiché non fa altro che perseverare in tali ignobili crimini. Egli, a quanto mi risulta, con le chiacchiere ci sa fare meglio di una comare; mentre, passando a vie di fatto, si comporta come un autentico coniglio. A proposito, Croscione, rammenti ancora quella promessa che avesti a fare nella reggia a me e ai miei amici? Se ricordo bene, mi sembra che si trattasse di una certa tua diavoleria, in virtù della quale noi non avremmo più rivisto la luce del sole. Secondo me, dovrebbe trattarsi di una cosa davvero molto divertente. Oppure, al contrario, dovrei spaventarmene parecchio? Quest'oggi ti invito a non venir meno alla promessa che allora ci facesti e ad appagare la mia ansia di conoscere il tuo strabiliante giochetto. Così dopo ne metterò al corrente pure i miei due amici, che in questo momento si trovano assenti!»

Mentre Iveonte formulava tali sue ironiche proposizioni, esternando una certa disinvoltura e facendosi scherno di tutti gli astanti, Lucebio e Lerinda segretamente si erano andati struggendo l'animo. Essi si mostravano preoccupati a non dirsi per lui, visto che, a parer loro, egli si stava mettendo in una situazione molto scabrosa e dall'esito incerto. Nell'uno, una simile preoccupazione era stata avvertita, a causa del cieco amore che nutriva verso la sventurata patria. Infatti, egli aveva ravvisato in Iveonte la persona adatta a capitanare una non lontana insurrezione del popolo dorindano. Il quale così si sarebbe ripreso i bei diritti di libertà e di indipendenza. Per questo aveva paura che gli potesse accadere qualcosa di grave. Ma nell'altra perché c'era tanta preoccupazione per il giovane, che aveva avuto modo di conoscere soltanto da poco? Conviene allora approfondirne i motivi.

Una celata simpatia verso Iveonte in lei era cominciata ad aversi, fin da quando lo aveva visto per la prima volta alla corte del fratello. Ma essa si era rafforzata, dopo il successivo incontro avuto con lui in Dorinda. Così si era data a nutrire per il giovane dapprima una grande stima, poi un affetto accorato, come se si fosse trattato di un proprio congiunto. Infine un sentimento nuovo, che non poteva ritenersi un comune affetto, era subentrato improvviso in lei e l'aveva trascinata in un regno misterioso. Ora esso si presentava circondato da un'atmosfera di sogno e permeato di puro sentimentalismo, il quale il più delle volte le era parso autentico amore. Tale attaccamento a lui era subentrato in lei, perché la giovane era stanca di tollerare quell'ambiente di insincerità, di finzioni e di azioni vituperose, quale risultava appunto la corte del fratello; anzi, ne veniva addirittura asfissiata. Perciò desiderava vivere con qualcuno, che fosse all'esterno del suo palazzo dei veleni, quell’innocenza e quella lealtà, che facevano del mondo qualcosa di meraviglioso. A tal fine, il giovane le aveva ispirato una immensa fiducia, stimandolo degno del suo interesse e del suo incontaminato amore.

Era manifesto che Lucebio e la principessa Lerinda non avevano compreso che entrambi potevano fare a meno delle loro inutili trepidazioni, poiché l'accorto Iveonte era sicuro del fatto suo, se agiva in quel modo, che loro due invece giudicavano alquanto pericoloso. Ma essi non potevano sapere che il braccio destro del sovrano rappresentava un combattente di infimo valore, se paragonato a lui. Per intanto noi riprendiamo il nostro racconto, senza lasciarci impensierire neppure un poco per il nostro insuperabile eroe. Contro il quale nessuno umano poteva averla vinta, grazie alla sua formidabile preparazione e alla sua alta professionalità sia nel maneggio delle armi che nelle arti marziali.

Il re Cotuldo, dopo le offese che il giovane gli aveva arrecate, si era amareggiato fino all'eccesso e non vedeva l'ora che egli venisse punito nella maniera che si meritava. Dando perciò uno spintone a Croscione, che gli era al fianco ritto come una statua, poiché la viva brama di polverizzare il mordace giovane gli aveva inibito ogni impulso ad intervenire contro di lui in modo punitivo e risolutivo, gli aveva gridato:

«Vai e appioppagli una lezione, quale non hai mai data ad altri, perché egli ne porti i segni anche nell'aldilà! Nessuno dovrà mai poter vantarsi di avere impunemente mancato di rispetto al sovrano di Dorinda e di Casunna. Se ciò avvenisse oggi, si creerebbe un precedente inaccettabile, che farebbe venire la voglia di imitarlo pure a qualcun altro che ha la testa calda come la sua. Quindi, chi ora ci ha provato deve cessare di esistere nello stesso luogo in cui si è consumato il suo oltraggio!»

«Hai proprio ragione, mio sovrano!» gli aveva risposto il suo braccio destro «Tenuto conto di come ti ha sbraitato contro, l’incauto pivello se la merita una lezione coi fiocchi! Non puoi immaginare quanto la sua lingua offensiva abbia fatto perdere la pazienza anche a me, sire! Per la quale ragione, non vedevo l'ora di tagliargliela per sempre!»

Volendo poi addurre una scusa per il suo ritardato intervento e giustificarsi in qualche modo agli occhi del suo stizzito sovrano, Croscione aveva voluto anche fargli presente:

«Stavo appunto pensando in che modo conciarlo per le feste, illustre re Cotuldo. Se poi ci tieni ad esserne informato, ebbene, ho deciso di ridurlo in tanti tritoli di carne e di ossa, da non potere essere più riconosciuto perfino dal suo creatore! Ti prometto che non ti deluderò, per cui tra poco in questo luogo accadrà esattamente quanto ti ho annunciato, senza disattendere il tuo preciso ordine!»

Le parole di Croscione, se avevano prodotto una sensazione di gelo nel sangue di Lucebio e di Lerinda, avevano invece provocato un sorrisetto di beffeggiamento nell'impavido Iveonte. Nel quale c’era la convinzione assoluta che lo smargiasso suo rivale non poteva in nessuna maniera avere una preparazione d’armi tale, da farlo preoccupare anche in minima parte. Perciò, quando aveva avuto di fronte il suo avversario, che in un attimo era sceso da cavallo e gli era apparso davanti inferocito come un demone, il prode giovane non si era scomposto neppure un poco. Anzi, essendosi già preparato a riceverlo con i dovuti modi, aveva incominciato a parlargli in questa maniera:

«Bravo, Croscione! Così mi piaci e te ne sono immensamente grato! Temevo che avresti accampato qualche pretesto, pur di venir meno alla tua parola data. Al contrario, noto con favore che sai mantenere le promesse che fai. La qual cosa mi obbliga a ricredermi nei tuoi confronti! Adesso, però, se non vuoi deludermi e vuoi convincermi nel vero senso della parola, devi dimostrarmi che sei anche capace di mettere in pratica ciò che quel giorno avesti a prometterci nella reggia!»

Erano appena sfuggite quelle prime frasi dalle labbra dell’intrepido giovane, che continuava a mostrarsi orgogliosamente sicuro di sé, allorché la tozza figura di Croscione si era avventata contro di lui. Ma l’atletico Iveonte, da parte sua, anche se era ancora disarmato, appariva già pronto ad accoglierlo in maniera adeguata. Spiccando così un agile salto sul suo lato destro, aveva eluso senza alcuna difficoltà la tozza valanga umana rappresentata dal suo avversario. Dopo si era messo a seguirlo con simulata apprensione, senza mai togliergli gli occhi di dosso. Quel suo atteggiamento era continuato ad esserci, finché non aveva scorto il rivale cadere bocconi per terra, dove si trovava molta polvere.

«Devo ammettere, Croscione, che la tua capriola è stata eccezionale!» aveva applaudito il giovane, con un moderato battito di mani «Di sicuro deve avertela insegnata qualche tuo fratello minorenne! Inoltre, sono convinto che essa è stata di preludio all'intero repertorio di acrobazie, nelle quali vorrai esibirti tra poco. In principio, ad essere sincero, avevo pensato che tu intendessi imitare la carica di un arrabbiato pachiderma. Come constato, è sempre valida quella massima che dice: "I giudizi affrettati risultano sempre i peggiori, per cui sono da evitarsi." Faccio ammenda del mio errore e ti prometto che in seguito cercherò di ricordarmelo! Sei soddisfatto?»

Nel frattempo, Croscione si era riavuto dal suo bel capitombolo, a cui era andato incontro, ed ora cercava di riordinarsi alla meglio. Nel fare ciò, mostrava il suo volto interamente imbrattato di polvere. A un simile spettacolo, tutti avrebbero riso volentieri; ma avevano temuto di farlo. Chi poteva permettersi un simile azzardo era il solo re Cotuldo. Egli, però, non si era sentito in vena di esprimersi in tal senso. La sua mente era intenta a smaltire quella stizza esacerbante, la quale gli era provenuta dalla fase iniziale del combattimento, siccome essa stava coprendo di ridicolo il suo campione! In verità, anche Lerinda avrebbe potuto permetterselo, senza che gliene fosse derivato alcun danno. Ma per il momento ella non si era sentita di gioirne, poiché il suo timore per il giovane si manifestava in lei ancora grande e non si decideva a scemare.

Una volta intravisto Iveonte attraverso lo strato di polvere, il quale dal mento gli si estendeva oltre le sopracciglia, ossia fino alla fronte, Croscione aveva raccolto subito la spada, che un minuto prima gli era caduta di mano. Dopo gli si era diretto contro, palesando un forte desiderio di rivincita. Allora, intanto che il famigerato gorilla del re gli si avvicinava palesemente irritato, il baldanzoso giovane, facendo mostra di una indisponente loquacità, si era ridato a parlargli in questo modo:

«Che cosa ti è successo, Croscione? Hai forse già dato inizio alle tue diavolerie? Ci credo: eccome! Secondo il mio giudizio, avresti dovuto camuffarti meglio per non farti riconoscere. Truccato in quella maniera, a cominciare da me, tutti possono riconoscerti senza nessuna difficoltà! Se non ci credi, te lo possono confermare anche gli altri che sono qui presenti a godersi lo spettacolo. Oppure vorresti darmi ad intendere che quell'essere lercio e ridicolo, che si prepara a scagliarmisi contro come un toro, non sei affatto tu, ma semplicemente la tua brutta copia?»

Avendo poi dato una occhiata maliziosa ad una gora colma di acqua, la quale non stava neppure molto distante da dove si stava avendo il combattimento, Iveonte aveva pensato di servirsene per un suo scopo. Perciò con calma aveva affermato al suo inviperito avversario:

«Ma stanne certo che mi adopererò per smentirti, Croscione! Vedrai che ti priverò del trucco e ti smaschererò davanti alle persone che ti stanno guardando, senza poterti ammirare. Così dimostrerò ad ognuna di loro che sotto quella patina di polvere, dalla quale ti fai coprire il viso, puoi esserci nascosto soltanto tu! Ne ho la certezza assoluta!»

Ciò detto, Iveonte aveva brandito anch'egli la spada per tener testa al suo rivale, il quale, manifestando che oramai aveva perso le staffe, seguitava a dirigersi verso di lui. Quando poi il mastodontico Croscione lo aveva raggiunto, si era dato a scaricargli addosso una procella di colpi davvero terribili. Ma l'ottima sua esperienza schermistica gliel'aveva fatta sostenere con estrema facilità. Quando poi la furia iniziale del braccio destro del despota di Dorinda era svaporata, tra i due antagonisti la tenzone si era andata svolgendo alacre ed interessante, oltre che piacevole ed avvincente. Naturalmente, aveva iniziato a svolgersi nel modo che il giovane aveva voluto impostarla, siccome egli adesso seguiva un suo obiettivo recondito. Infatti, l'amico fraterno di Francide aveva mirato a far cadere il suo avversario in quella specie di piccolo acquitrino. Ma siccome se ne erano discostati una ventina di metri, egli aveva simulato una retrocessione, allo scopo di attirare verso di essa il suo antagonista, il quale appariva tumido d'ira ed intenzionato ad ucciderlo.

Quando infine i due duellanti erano giunti a due passi dall'acqua stagnante, il giovane, mettendo in azione delle tattiche mosse di aggiramento, aveva costretto Croscione a volgere le terga ad essa. Subito dopo lo aveva incalzato con molta veemenza, essendo intenzionato a farlo cadere nell’acquitrinoso terreno. Allora il consigliere del tiranno, trovandosi già sull'orlo di esso, senza che se ne fosse accorto, aveva finito per perdere l'equilibrio. Era stato così che, essendo barcollato all'indietro, vi era piombato dentro con tutta la persona, a guisa di un pesante masso. Tentando poi di venirne fuori in gran fretta, egli si era dato a guazzare nell'acqua. In quell’istante, pareva un’anatra matta, che aveva una gran voglia di farsi un bel bagno nel torbido liquido.

Anche di fronte a quella nuova scena grottesca, la quale di sicuro avrebbe cavato il riso di bocca a chiunque non fosse appartenuto alla compagnia del despota, tutti erano rimasti ammutoliti. La sola principessa Lerinda questa volta aveva sfiorato un lieve sorriso; però, intanto che sorrideva con molto gusto, la ragazza si era data a sussurrare sottovoce all'orecchio del germano: "Come vedo, fratello, il tuo Croscione aveva sottovalutato un po' troppo il giovane forestiero. Se anche i suoi due amici sono forti quanto lui, credo che non basti l'intero tuo esercito a tenerli a freno! Inoltre, non dimenticare quanto ti ho riferito ieri sull’episodio accaduto al trasportatore di marmi e ciò che il giovane fu in grado di fare per salvarlo. Se fossi in te, mi adopererei per accattivarmi la stima dei tre giovani e non per attirarmi addosso la loro antipatia. Quindi, fratello, vuoi dirmi come giudichi la mia idea?" Il re Cotuldo, in verità, non aveva voluto esprimersi all'istante sulla proposta che gli aveva ventilata la sorella Lerinda e che poteva ritornargli utile. Comunque, apparendo meditabondo, le aveva quasi dato ad intendere che stava proprio considerando la cosa sotto tale aspetto.

Nel frattempo, Croscione era venuto fuori dall’acqua tutto inzuppato fradicio. Questa volta, però, egli non aveva più il volto invaso dalla polvere, poiché il liquido glielo aveva in parte lavato, scoprendoglielo alla meglio. Allora, dimentico di essere disarmato, poiché aveva smarrito la sua spada nella gora, egli si era diretto ancora più furioso contro il suo avversario, che in verità aveva cominciato a considerare un vero osso duro. Da parte sua, Iveonte, seguitando a mostrarsi molto divertito, aveva ripreso a far funzionare la sua lingua, dandosi ad esprimerglisi con il suo solito tono giocoso. Infatti, gli si era rivolto, dicendo:

«Hai visto, Croscione, che eri proprio tu a nasconderti sotto quel sottile strato di polvere? A quanto pare, giustamente mi serbi un grande rancore, soltanto perché ti ho smascherato davanti a tutti i presenti! Ma tu avresti dovuto saperlo che non potevo fare altrimenti, se volevo convincere quanti ci stanno seguendo che non sono il tipo che parla a casaccio! Ad ogni modo, da te non mi aspettavo dei mirallegri. Per fortuna, cosa davvero encomiabile da parte tua, in te non scorgo alcuna frustrazione e mostri tutta l'aria di volerti esibire in un nuovo numero, questa volta però inverosimilmente arduo. Io, nonostante mi reputi un profano in simili trucchi, rimango sempre dell'avviso che, per una loro ottima riuscita, conviene premunirsi di una bella bacchetta magica. Allora mi presto io a regalartene una che fa miracoli. Questa potrà farti comodo sul serio, se vuoi riuscire molto bene nei restanti tuoi trucchi!»

Così dicendo, il giovane gli aveva buttato ai piedi la propria spada, facendo sbalordire la totalità dei presenti. Soprattutto aveva prodotto un enorme spavento in Lucebio e in Lerinda. Entrambi, non potendo prevedere ciò che sarebbe successo dopo, ne erano rimasti molto terrorizzati. Ovviamente, anche questa volta essi non avevano nulla da temere, poiché la persona a cui tenevano molto sapeva ciò che faceva. Come si vede, Iveonte era il tipo di schermitore che, mostrando una bravura ed una sicurezza incredibili, forniva alle sue gesta anche un colorito appassionante. In pari tempo, presentava le sue azioni tecnicamente perfette, suscitando gradimento ed anche ammirazione nell'attonito spettatore. Inoltre, quando egli si dava a combattere, sul suo volto non si scorgeva alcuna espressione di ferocia oppure di voglia di eccidio; ma vi venivano scorte unicamente calma, ponderatezza ed incrollabilità. I suoi modi di fare non atterrivano, ma stupivano ogni volta piacevolmente; mentre il suo sguardo non minacciava, ma appariva sempre generosamente incline al perdono. Senza dubbio, tali sue doti meravigliose, le quali lo caratterizzavano, donavano un fascinoso incanto alle sue gloriose imprese. Per il quale motivo, esse finivano per diventare ancora più significative e più celebri, dopo che erano state da lui compiute.

Ritornando a Croscione, egli, non appena aveva scorto la spada del giovane ai suoi piedi, non aveva esitato a raccattarla. Adesso, però, metaforicamente parlando, aveva stabilito di non fare più buchi nell'acqua, come era accaduto poco prima concretamente, e di smorzare per sempre l'eccentricità del giovane rivale. Invece Iveonte, non condividendo affatto la sua intenzione di volerlo sopprimere senza alcuna pietà, aveva badato a disilluderlo per l'ennesima volta. Ce ne renderemo conto tra poco, ossia quando egli deciderà di esprimersi in tal senso.

Venuto in possesso della fiammeggiante arma, il boia del re Cotuldo si era convinto di essere diventato anche il possessore della vittoria. La vanagloria, in un certo senso, lo aveva accecato così forte, da farlo avventare come un rinoceronte contro l’inossidabile giovane. Ma costui, senza scomporsi per niente, lo aveva atteso con calcolata accortezza. In verità, l'impatto, che stava per esserci, aveva fatto prevedere che sarebbe avvenuto con chi sa quale catastrofico schianto. Al contrario, esso si era risolto in un rapido susseguirsi di mosse impercettibili alla vista, le quali erano state prima studiate dal giovane e poi anche magistralmente eseguite da lui con una prontezza di riflessi ineccepibile. In un primo momento, era apparso che Iveonte fosse stato infilzato da Croscione, tra la grande trepidazione di Lucebio e di Lerinda. Ma subito dopo tutti avevano scorto il braccio destro del tiranno mentre veniva sollevato dal suolo dalle robuste braccia del giovane, le quali poi lo avevano lasciato cadere a terra come un peso morto. In ultimo, da quella confusa evoluzione di rapide mosse, si era passato ad un quadro limpido della situazione. Allora tutti gli astanti avevano potuto prendere consapevolezza che l'abile giovane era venuto nuovamente in possesso della propria spada, in virtù di chi sa quale prodigioso intervento. Nel loro intimo, i vari cortigiani lo avevano perfino ammirato, mentre la sua arma poco dopo rasentava la gola dell'ansimante Croscione. Ma com'era potuto accadere quel prodigio? Gli stessi si chiedevano strabiliati. L'impossibile era stato reso possibile da Iveonte, dimostrando una straordinaria bravura. Comunque, in seguito egli aveva badato a fare un sermone molto serio, cambiando il destinatario e il tono di voce.

«Stammi bene in ascolto, re Cotuldo!» si era dato a dire al despota «Se hai buona vista, puoi renderti conto che il tuo braccio destro si trova in condizioni disperate. Secondo me, soltanto un tuo atto di clemenza potrà salvarlo. Non si tratta di un ricatto, ma di un semplice scambio di favori. Ossia, mi devi giurare che, se risparmio la vita al tuo consigliere, tu lascerai in pace il mio amico Celubio. Inoltre, in avvenire non intraprenderai alcuna azione ostile contro di lui. Devi sapere che il bene, che gli voglio, non è da poco e farei qualsiasi cosa per lui. Probabilmente, pur di proteggerlo, attenterei perfino alla tua vita! Suvvia, fai vedere alla tua sorellina, che è senz’altro una giovane bella e gentile, come sai essere prodigo di generosità, facendo diventare legge ogni tua promessa. In questo modo, nessuno in Dorinda potrà darti del fedifrago!»

Al sentire pronunciare il suo nome dalle labbra del giovane, che ella già sentiva di amare perdutamente, come se lo conoscesse da tempo, l'affascinante sorella del re Cotuldo aveva provato un piacere immenso nel suo intimo. Perciò, allo scopo di ringraziarlo sentitamente, si era affrettata a rispondergli con queste testuali parole:

«Grazie, valoroso giovane, per i complimenti di cui hai voluto farmi dono. Ma oggi meriti che i presenti si congratulino vivamente con te, avendo dimostrato con sommo valore a tutti loro la tua insuperabile bravura nell’uso della spada e in altro ancora. Dunque, accetta le mie più sentite congratulazioni, dal momento che esse provengono da un cuore sincero, il quale può solo traboccare di ammirazione per te!»

Poi la fanciulla aveva lanciato al fratello un sorriso espressivo e malizioso, appunto per invogliarlo ad assecondare il giovane forestiero. Allora esso era valso a comprimere nel re Cotuldo il suo tiremmolla interiore. Per cui alla fine era riuscito facilmente a tirargli di bocca un bel "Ebbene, te lo giuro!". Esso, naturalmente, era stato rivolto ad Iveonte.

Nello spazio di tempo che c'erano stati questi fatti nel campo di Lucebio, il cielo non se ne era rimasto inoperoso. Al contrario, era andato ammassando larghi strati di nuvole cumulonembi, fino a quando non aveva visto rannuvolata l'intera sua volta, rendendola a tratti ora grigia ora plumbea. Il maltempo aveva perfino accennato ad un temporale non di poco conto, la qual cosa aveva costretto il re Cotuldo a rinviare al giorno successivo la tanto agognata partita di caccia. Invece il tempo, con il trascorrere delle ore, sfatando ogni umana previsione, si era solo espresso con una pioggerellina di breve durata. Inoltre, esso si era dato a riacciuffare l'intero sereno che qualche ora prima gli era sfuggito di mano. Allora il sole, benché fosse al termine del suo stanco percorso, era ritornato a mostrarsi magicamente vivificante e rosseggiante.


Passando ora al presente dei fatti, troviamo Lucebio ed Iveonte, mentre sono impegnati a spennare e a scuoiare la selvaggina, siccome parte di essa doveva servire per la cena, dopo essere stata rosolata oppure cotta allo spiedo. Quando poi il tramonto cominciò ad annegare in un crepuscolo che si andava divorando gli ultimi scampoli di luce, finalmente ci fu anche il rientro al campo di Francide e di Astoride. Entrambi si allietarono moltissimo, non appena ebbero annusato il fragrante profumo che proveniva dalle carni che venivano arrostite. I due giovani, infatti, oltre che delle notizie preziose per colui che li ospitava, si portavano dietro una gran fame da lupo. Per loro fortuna, il sagace Lucebio, non appena gli intrusi cortigiani avevano sgomberato il campo della loro nauseante presenza, si era messo a preparare un pranzo abbastanza succulento per la cena. La cui preparazione era stata resa possibile, grazie all'abbondante cacciagione, che nel mattino si era procurata il loro amico Iveonte durante le ore di caccia.

Intorno alla lauta mensa, insieme con il visibilissimo appetito dei tre giovani che trovava sfogo su tenere fette di carne rosolate allo spiedo, la conversazione ebbe un posto preminente tra i quattro commensali. Lucebio e Iveonte da una parte, Francide ed Astoride dall'altra, tutti insieme si misero a narrare con classica dialettica gli episodi delle loro avventure della giornata. Ma il momento più bello ci fu, dopo che il dotto Lucebio ebbe finito di raccontare il magnifico duello che c'era stato tra Iveonte e il braccio destro di Cotuldo. Allora Francide, appreso con soddisfazione che il suo amico aveva fatto ringoiare allo spavaldo Croscione la sua smargiassata di un mese prima, volle sottoporsi ad un pegno, che consistette nel divorarsi un intero grosso carbone. Statene certi che egli lo fece sul serio, anche se con qualche difficoltà! Invece Iveonte e Astoride risero a lungo sulla buffa trovata del loro amico e su come aveva deglutito quel nero pezzo friabile. Sul suo volto, mentre lo masticava e lo mandava giù, si era scorta una espressione per nulla consolante!

Quando sopraggiunse la notte, i tre giovani stavano per andare a coricarsi, poiché avvertivano un grande sonno. A quel punto, Lucebio pregò il solo Francide di restare ancora pochissimo tempo insieme con lui, avendo da chiedergli alcune informazioni. Così, una volta che furono rimasti senza la compagnia, egli si diede a far presente al giovane:

«Durante il tuo racconto, Francide, se ho ascoltato bene, la fanciulla da te salvata dai soldati di Cotuldo si chiama Rindella. Per caso, sapresti anche dirmi se la poveretta vive insieme con una donna di nome Madissa? Ci terrei molto a saperlo!»

Ma poi tra sé commentò sottovoce: “No, non è possibile che si tratti proprio di lei!”

«Invece è proprio così, Lucebio!» gli confermò il giovane, che aveva ascoltato le sue parole «Sapessi tu con quale aria misteriosa la donna ha parlato, riferendosi alla sua Rindella! Ma perché mai mi hai fatto una domanda simile? Hai forse già avuto modo di conoscere quella donna? Ammesso che ciò sia vero, allora dovresti anche essere in grado di dirmi chi è Rindella. Adesso che ne sono innamorato, vorrei conoscere ogni cosa su di lei! Perciò, per favore, dammi ogni notizia che la riguarda!»

«Non mi sono mai state presentate né Madissa né la tua affabile Rindella, mio caro Francide. Ma ho sentito dire da altre persone che la donna e la ragazza sono state molto provate dalla sorte, per cui meritano una particolare protezione. Tu, Francide, non abbandonarle mai, cerca di stare sempre vicino a loro due, offrendogli tutto l'appoggio e l'aiuto di cui esse necessitano. In questo modo, potrai pure frequentare la tua dolce compagna, dal momento che l’una e l’altra abitano sotto il medesimo tetto e sono legate da un comune strapazzante destino! Adesso puoi andare a letto, poiché non ho più niente da domandarti.»

Quando il giovane si fu congedato da lui, Lucebio disse ancora tra sé: "Madissa, quindi, riuscì a portare in salvo la principessina, cosa che non seppi fare io con i due principini! A quanto pare, ella è stata anche in grado di allevarla bene, senza farle correre alcun pericolo. Ma non mi spiego perché non mi è mai capitato di incontrarle in Dorinda in tanti anni! Comunque, stando insieme con lei e godendo della protezione del valoroso Francide, la principessa Rindella potrà considerarsi più che al sicuro! Chissà quanto ne sarebbero felici i suoi genitori, se venissero a sapere che la loro figliola è viva, poiché Madissa riuscì a salvarla!"

Nell'interno del loro casolare, se Francide ed Astoride vi trovarono un profondo sonno, invece Iveonte continuò ad essere sveglio. Egli pensava e ripensava alle parole della graziosa sorella del tiranno, le quali risuonavano ancora in lui come dolci note musicali. A suo parere, l'affascinante fanciulla, oltre alla sua simpatia e alla sua ammirazione, gli aveva voluto trasmettere un sentimento più profondo, il quale rasentava sicuramente l'amore, se proprio non lo si potesse considerare ancora tale. Nei suoi occhi, egli aveva scrutato tutto il fascino seducente che vi si annidava; inoltre, con gioia aveva potuto prendere atto che esso era rivolto a lui soltanto. Perciò se ne rallegrava, se ne inebriava, se ne entusiasmava in modo incontenibile. Soprattutto bramava di esserle di nuovo vicino e di trovarsi solo con la sorella del tiranno. In quella magica circostanza, stando insieme con lei, egli avrebbe potuto esprimerle il proprio amore nella sua interezza. Proprio come quello che adesso all’improvviso si era messo a fermentare e a palpitare nel suo animo senza mai smettere, quasi fosse divenuto qualcosa di inestinguibile!

Strano a dirsi, in quella stessa notte, proprio come stava succedendo ad Iveonte, anche Lerinda, dopo che si fu ritrovata all'interno della sua alcova, non riusciva a prendere sonno. Una strana agitazione la sorprese e la diede in pasto ad una insonnia piacevole, poiché stavolta essa le addolciva l’esistenza e le infondeva una gioia paradisiaca. La sua mente, anziché badare a concedersi una bella dormita, come era avvenuto le altre notti, adesso avvertiva l’esigenza di impadronirsi del volto del giovane. In pari tempo, sentiva il bisogno di accarezzarlo e di goderselo, come se quel suo desiderio fosse divenuto reale. Per questo, nel buio della notte, la principessa lo ammirava, lo idolatrava, gli indirizzava i suoi sospiri amorosi e i suoi intimi pensieri carichi di passionalità. Non riusciva a fare a meno di vederselo davanti, nonostante ciò avvenisse unicamente con l’immaginazione, considerato che anche in quella maniera ella si sentiva lo stesso appagata. Pure in lei, quindi, come in Iveonte, nasceva l’intenso desiderio di essergli vicina, di abbracciarselo con tenerezza e di tenerlo fortemente stretto a sé. Oramai ella sperava a qualunque costo di sognarselo ogni notte e a tutto spiano, dal momento che le piaceva molto bearsi, stando avvinta al suo petto, e coccolarsi nel suo consolante abbraccio protettore. Per la ragazza, a tali pensieri, le ore notturne venivano a tingersi con il colore degli occhi cerulei di Iveonte. Nello stesso tempo, esse si aggraziavano con il suono melodioso delle sue parole e, nella tetra notte, si illuminavano con il suo sfolgorante sorriso.