136°-IVEONTE E I SUOI AMICI DECIDONO DI STABILIRSI PRESSO LUCEBIO

Erano trascorsi appena tre giorni, da quando i tre valorosi giovani si erano presentati nel campo di Lucebio, dopo che avevano accolto il suo invito ad andare a trovarlo. Perciò, in attesa di prendere una decisione definitiva sul loro futuro e non prevedendo il tempo che vi sarebbero rimasti, essi vi avevano piantato le loro tende. Giunto però il mattino del quarto giorno, Iveonte, conoscendo anche il pensiero dei suoi due amici, per averne già parlato insieme, finalmente decise di chiarire meglio la loro situazione con il capo dei ribelli. Sebbene fosse ancora mattino presto, Lucebio si era già alzato, anche se da poco. Egli, che si era soffermato sull’uscio della propria dimora, dopo essersi sgranchito quanto bastava, adesso prendeva la sua solita boccata d’aria mattutina. Scorgendo poi Iveonte che avanzava verso di lui, all'istante intuì qualcosa sulle sue reali intenzioni e su quelle dei suoi compagni, immaginandole senz'altro positive, ossia conformi alle proprie aspettative. Attraverso il suo sguardo, egli si convinse che esse potevano essere soltanto buone. Così, quando il giovane gli fu a pochi passi, volendo anticiparlo nel saluto, si affrettò ad esclamargli:

«Buongiorno, Iveonte! Hai visto che splendida giornata la prodiga natura oggi si prepara a regalarci? Essa farà rinascere i nostri cuori, ci rallegrerà gli animi e ci infonderà nello spirito molto ottimismo. Non sei d'accordo anche tu con quanto ti ho appena affermato?»

«Innanzitutto, buongiorno anche a te, Lucebio! Riallacciandomi poi alle osservazioni da te fatte sull'odierna giornata, ti faccio presente che le condivido appieno! Sono persuaso che a volte basta un giorno di sole a trasformare la nostra esistenza in un qualcosa di sommamente piacevole, dal momento che esso viene a colmarla di infinita serenità e di ottimo buonumore, come pure a te è capitato di osservare!»

«Mi fa piacere, Iveonte, apprendere che le nostre idee collimano su questo argomento, il quale riguarda il rapporto esistente tra il tempo meteorologico e la nostra salute. Ma adesso veniamo al motivo che ti ha spinto a colloquiare con me così di buonora! Devo forse credere che tu e i tuoi amici abbiate già stabilito come affrontare il vostro avvenire? Se è così, allora sei venuto a darmi la risposta a quanto vi avevo proposto nei giorni scorsi, circa una vostra stabile permanenza nel mio campo. Perciò affréttati a parlarmene, poiché sono ansioso di conoscerla!»

«Non ti sei sbagliato, Lucebio! Ieri sera, dopo una breve consultazione, i miei amici ed io siamo addivenuti alla seguente decisione: almeno fino a quando dei fatti di rilievo non ci obbligheranno a lasciare i territori dorindani, noi, oltre a restare in Dorinda, fisseremo la nostra dimora presso il tuo campo. Francide ed io abbiamo la certezza che essa è la città che ci ha voluto indicare il nostro Babbomeo morente. Di conseguenza, avendo fatto una simile scelta, non ci resta che accettare la tua proposta. Non è forse vero che ci avevi chiesto di stabilirci in modo permanente in questo luogo tranquillo e riposante, poiché te lo auguravi? Ebbene, da quest'oggi, non sarai più il solo a dimorarvi stabilmente; ma ci saremo anche noi tre a vegliare sulla tua persona. Ne sei contento, Lucebio?»

«Come potrei non esserlo, Iveonte? Lo sai anche tu che la notizia che mi stai comunicando in questo momento rappresenta la cosa migliore che avessi potuto desiderare per me! Da oggi in avanti, godrò della vostra meravigliosa compagnia. Inoltre, anche quando vi condurrete in città e non starete qui con me, il pensiero che prima o poi farete ritorno al campo mi terrà lo stesso gaio e giulivo. Vi sento già come se voi foste dei miei figli, ai quali, da questo istante, potrò dedicare le mie cure paterne e dai quali riceverò le più grandi soddisfazioni. Ti prego di perdonare questa mia pretesa assurda, poiché forse neanche in sogno avrei dovuto osare tanto! Comunque, anche se nelle vostre vene non scorre neppure una goccia del mio sangue, avverto dentro di me il bisogno di trattarvi con un affetto così forte, da poter essere considerato paterno!»

«Io non ho niente da perdonarti, caro Lucebio. Anzi, devo ringraziarti per la premura che hai inteso dimostrarci, come se io e i miei amici ti fossimo dei veri figli. La fiducia, che riponi in noi, ci fa onore e faremmo salti di gioia, se avessimo un padre come te! Dunque, se vuoi reputarci come tuoi figli adottivi e vuoi prodigarti per noi come tali, non soltanto sei libero di farlo, ma lo consideriamo come il dono più bello ricevuto da parte tua. In verità, anche noi tre già ci sentiamo legati a te come a nessun altro; è come se tu avessi preso il posto del nostro indimenticabile Babbomeo. Perciò adesso, più che mai, avvertiamo l’esigenza di esprimerti il nostro amore filiale, come già facevamo con il tuo ottimo amico Tio. Ecco: ora ti ho chiarito nel modo migliore il nostro pensiero sul rapporto che vogliamo instaurare con te, prevedendo che esso sarà senz'altro bellissimo! Se parlo anche a nome di Francide e di Astoride, è perché sono certo che entrambi ne saranno felicissimi, quando verranno a saperlo. Te lo garantisco!»

«Stando a quanto mi hai palesato, Iveonte, possiamo solo dedurre che tra di noi è nata una sincera simpatia reciproca. Allora possiamo stare tranquilli che la nostra convivenza non avrà problemi di sorta; invece procederà ed evolverà all’insegna della concordia e della serenità di tutti e quattro. Forse, al momento attuale, un problema c’è e bisogna adoperarci per risolverlo al più presto. Si tratta della costruzione di un vostro alloggio personale, il quale dovrà risultare capiente e confortevole. Voi non potete dormire a tempo indeterminato in una tenda, siccome essa non è in grado di offrirvi in alcun modo i conforti che possono derivarvi da un’abitazione normale. Per questo comincerete già da domani a dedicarvi alla costruzione dei tre alloggi, procurandovi il legno necessario per costruirli. Qui non scarseggiano gli alberi dai quali ricavare i tronchi che vi occorrono per ottenerla; anzi, essi abbondano nella zona. Se sarà necessario, farò giungere da Dorinda degli artigiani del legno e li incaricherò di darvi una mano nella fabbricazione dei vostri alloggi. Se non mi sbaglio, tra i ribelli che voi state addestrando, già ci devono essere un paio di falegnami, i quali sarebbero assai felici di darvi una mano e di esservi utili nel vostro prossimo lavoro!»

«Hai senz'altro ragione, Lucebio. Le nostre tende sono scomode e, se ci dovessimo vivere a lungo, diventerebbero la nostra penitenza notturna. Per questo dovremo privarcene prima possibile, se non vogliamo avere il sonno disturbato dalla sodezza e dall'umidità del suolo. Evitare di dormire in una tenda da campo significa anche preservare il nostro organismo da forme reumatiche, oltre che prevenire tante affezioni artritiche. Le quali di solito fanno la loro comparsa nell’età avanzata. Da domani, inizieremo i lavori che dovranno permetterci di costruire i nostri tre alloggi con materiale di legno!»

Il giovane aveva appena terminato di esprimere a Lucebio il suo pensiero sugli effetti negativi che avevano origine dal dormire giacendo a contatto diretto del suolo, allorché anche Francide ed Astoride raggiunsero lui e il suo maturo interlocutore. Essi, dopo averli salutati ed avere augurato ad entrambi il loro buongiorno, aspettarono di sedersi tutti e quattro insieme a tavola per fare la prima colazione. Comunque, l'attesa durò una manciata di minuti, poiché poco dopo essi si trovavano già seduti intorno al desco a consumare la loro refezione mattutina preparata da Lucebio. Allora Iveonte, mentre si mangiava, si diede a parlare a Francide e ad Astoride, dicendo a loro due:

«Amici, prima che arrivaste voi e ci raggiungeste, come da accordi presi tra noi, ho comunicato a Lucebio la nostra intenzione di sistemarci presso il suo campo e di costituire una sola famiglia con la sua persona. Egli ne è rimasto molto soddisfatto e ha aggiunto che, vivendo con lui in questo campo, potremo considerarlo un vero padre. Anche da parte sua, egli già sente di legarsi a noi, come se fossimo suoi figli.»

Un attimo dopo, il giovane si rivolse al loro anziano amico e gli fece la seguente domanda, per avere conferma di quanto aveva assicurato ai suoi due compagni:

«È vero, Lucebio, che ti sei espresso come ho detto e che non mi sono sbagliato neppure di una virgola nel riferirlo ai miei due amici? Ti prego di confermaglielo, per favore!»

«Certo che non ti sei sbagliato, Iveonte!» gli attestò il capo dei ribelli immediatamente «Inoltre, c’è stata da parte tua piena accondiscendenza, dichiarandomi che avreste fatto altrettanto nei miei confronti, non smettendo mai di trattarmi con amore filiale. Nello splendido rapporto che sta per instaurarsi tra noi quattro, giovanotti, anche se non esiste, lo stesso mi piacerà scorgervi un prezioso vincolo di parentela. In questo modo, esso ci si dimostrerà più gradito, oltre che più profondo. Spero che pure voi, Francide e Astoride, vi mostriate bendisposti ad accogliere questo mio pensiero, che potrà apparirvi candido nella sua ingenuità. Esso, invece, vuole augurarsi che tra noi si familiarizzi in modo approfondito e nella forma più autentica che possa esserci. Ma tutto dipenderà da noi e dalla nostra volontà di farlo realizzare come ho detto!»

«Anche Astoride ed io, Lucebio,» gli rispose Francide «come già ti ha garantito Iveonte, ne andremo fieri, se potremo considerarci tuoi figli! Perciò, poiché pure a te un simile rapporto fa piacere sul serio, si costituisca quindi tra di noi una famiglia di fatto, nella quale tu venga ad essere nostro padre e noi i tuoi tre figli! Infatti, essendoci la condiscendenza di tutti e quattro, nessuno ci vieta di attuare la tua nobile idea già da questo momento! Allora cosa ne dite?»

«Vedo che sei sbrigativo, mio caro Francide!» gli rispose Lucebio «Parti subito in quarta e vorresti vedere le cose già attuate, prima ancora che esse vengano pensate. Comunque, esattamente come hai asserito, se tutti siamo d’accordo perché un tale legame affettivo nasca all’istante fra di noi, non c’è motivo di rimandare a domani o ad altro tempo indefinito quello che possiamo stabilire oggi stesso. Allora, una volta che l’idea di reputarci membri della stessa famiglia è stata condivisa ed accettata unanimemente, possiamo già renderla una realtà effettiva, proponendoci di rispettarne la sacralità e i principi fondamentali su cui essa si fonda. A questo punto, però, occorre chiudere questa parentesi, intraprendente Francide, dal momento che c’è qualcos’altro che ho da riferire a te e ad Astoride, siccome Iveonte ne è già al corrente!»

«Inizia pure a parteciparcela, Lucebio, perché noi due ti ascolteremo. Speriamo che quanto stai per comunicarci ci giunga gradevole e non ci lasci l'amaro in bocca!»

«Miei bravi giovanotti, considerato che voi tre dovete sistemarvi stabilmente nel mio campo, non è possibile che continuiate a disporre di una tenda per il vostro pernottamento in questo luogo. Per questo, prima che voi arrivaste e ci interrompeste, avevo suggerito al vostro amico Iveonte che sarebbe opportuno costruirvi un vostro alloggio personale. Esso dovrà essere un modesto casolare di legno, nel quale tenere custodite le vostre cose; ma soprattutto esso dovrà permettervi di dormirci comodamente. Allora che ne dite tu e Astoride? A tale proposito, un attimo fa stavo dicendo ad Iveonte che, tra i ribelli che voi addestrate di pomeriggio, ci sono anche due falegnami. Perciò essi potrebbero darvi un aiuto, nel caso che esso vi occorresse. Sono sicuro che, se glielo chiederete, essi non ve lo rifiuteranno; ma saranno felici di darvelo.»

«Li conosco entrambi, Lucebio, perché i due artigiani del legno sono nel gruppo che addestro io. Di loro, però, solo uno esercita il mestiere del falegname, ossia Uldis. Quanto all’altro, cioè Turfon, egli fa il carpentiere; comunque, ha una certa dimestichezza con il legname. Ritornando alla tua pensata, con la quale ci suggerisci di costruirci tre alloggi personali, essa è stata senz’altro un’ottima pensata e te ne ringraziamo di cuore. Perciò ci conviene metterci subito all’opera, al fine di vederli realizzati al più presto possibile. Ma ciò che non sai, forse perché il mio amico Iveonte ha dimenticato di fartelo presente, è che anche noi ce la caviamo abbastanza bene in tutti i mestieri, compresi quelli di falegnameria e di carpenteria. Il nostro Babbomeo, quando vivevamo nella foresta, si preoccupò anche di farci diventare dei provetti artigiani del legno, come lo era lui. Ad ogni modo, il loro aiuto potrà ugualmente esserci utile, avendo essi anche gli attrezzi adatti a lavorare il legno!»

«È come tu dici, Francide. Adesso che mi sovviene, Tio si mostrava in gamba anche nell’adattarsi ai vari mestieri, dimostrandosi ingegnoso in molti lavori artigianali. Ma penso che quattro braccia in più, dotate oltretutto di una discreta esperienza nel campo, possano sempre tornarvi comode. Quanto ad Uldis e a Turfon, se non altro, essi potranno mettere a vostra disposizione gli arnesi, come hai fatto presente, dei quali siete del tutto sforniti. Essi vi saranno senza meno utili nell’esecuzione dei diversi lavori, visto che non basteranno le sole vostre mani ad eseguirli. Non è forse vero ciò che vi sto asserendo?»

«Certamente, Lucebio! Chiederemo anche la loro collaborazione, quando inizieremo i nostri lavori di costruzione. Oggi stesso ne parlerò con loro due, appena si presenteranno da noi per addestrarsi. Così già domani pomeriggio, quando ritorneranno al campo, ci porteranno gli attrezzi che ci occorreranno per abbattere gli alberi e lavorarli. È ovvio che avremo bisogno di zappe, accette, seghe, canapi e scortecciatoi.»

I lavori per la costruzione dei tre alloggi ebbero così inizio due giorni dopo che ne era stato parlato durante la colazione, cioè quando i vari attrezzi per eseguirli si trovavano già pronti nel campo di Lucebio. I tre giovani cominciarono a lavorare nel primo mattino, dopo essersi rifocillati in modo frettoloso. L’opera iniziale, che consistette nell’abbattimento e nella deramificazione di un numero di alberi sufficiente per la fabbricazione degli alloggi, si protrasse però per quasi tre giorni. A tale attività seguì quella di scortecciamento e di taglio dei tronchi, per essere poi segati secondo misure predefinite; ma anche il nuovo lavoro richiese alcuni giorni per essere portato a termine. Una volta che essi ebbero lavorato in quel modo i vari tronchi che avevano un differente diametro, si passò a soleggiarli per un congruo periodo di tempo. Comunque, la loro esposizione al sole non fu inferiore ai dodici giorni, essendo quello il tempo richiesto per un buon essiccamento dei numerosi tronchi abbattuti e scortecciati. Intanto che i lignei cilindri venivano tenuti esposti al sole, Iveonte, Francide ed Astoride, come pure i loro aiutanti, decisero di concedersi una meritata pausa di riposo. Così avrebbero permesso al loro fisico depauperato di recuperare parte delle energie perdute nell’estenuante fatica dei giorni precedenti. I tre giovani amici, in quei giorni di relax, fecero pensiero di cambiare aria, magari almeno per un paio di ore. Perciò attendevano il momento giusto per uscire dal loro ambiente e per divagarsi altrove. Lucebio non era stato contrario alla loro pensata, poiché anch'egli desiderava vederli distrarsi un poco nella nuova realtà cittadina. Secondo il suo giudizio, essa gli sarebbe giovata moltissimo, essendo tutti e tre vissuti e cresciuti fino ad un mese prima in un ambiente diametralmente opposto a quello attuale.


Toccò ad Iveonte allontanarsi per primo dal campo di Lucebio per recarsi in città, prevedendo di restarvi una intera mattinata. Comunque, egli non vi stava andando solo per diporto, ma anche per acquistarvi dei prodotti che dovevano servire per erigere i loro alloggi. Il giovane non avrebbe espletato l’incarico da solo, poiché ci sarebbero stati con lui Uldis e Turfon, i quali conoscevano bene la città. Come da accordi presi con lui, i due Dorindani lo stavano aspettando fuori le mura cittadine. Dopo il ricongiungimento con Iveonte, essi avrebbero dovuto accompagnarlo a fare la spesa in vari posti di Dorinda. Così insieme sarebbero andati dove erano situati gli empori nei quali si vendevano i prodotti occorrenti per ultimare i lavori che si stavano attuando nel loro campo.

Dopo esserci stato il loro incontro fuori le mura, Iveonte e i suoi due accompagnatori si riversarono in città, dove iniziarono a percorrere le diverse vie cittadine. Strada facendo, però, essi furono costretti ad arrestarsi, essendosi imbattuti in un grave incidente, che si presentava ancora caldo. Comunque, esso continuava a mostrare la sua drammaticità impressionante, senza che nessuno dei presenti riuscisse a porvi rimedio. Perciò cerchiamo di renderci conto di quanto vi era successo.

Una delle ruote di un carro, il quale era trainato da un bue e trasportava delle lastre di marmo, era finita in una buca. Dopo, intanto che il conducente tentava di far superare alla ruota la cavità dell’acciottolato, c'era stata prima la rottura di alcuni suoi raggi e poi lo sfascio della medesima. Allora il veicolo a trazione animale si era rovesciato dal lato della buca, investendo colui che ne era alla guida e cercava di sollecitare il bue a darsi ad un tiro più efficiente. Costui, infatti, dopo essere scivolato dal pianale, si era ritrovato con una delle gambe proprio sotto il carro appesantito dal suo carico. Il quale, per tale ragione, adesso gli gravava sull’arto sinistro e lo costringeva ad una pressione dolorosa. In seguito al grave incidente, si era fatta una gran calca intorno al poveretto, il quale adesso non smetteva di emettere urla disperate di dolore. Nessuno degli astanti, però, interveniva in suo soccorso, siccome le pesanti lastre marmoree scoraggiavano tutti dal tentare qualche manovra soccorritrice a favore dell’infortunato. Inoltre, gli unici quattro gendarmi presenti non lo degnavano neppure di un loro sguardo. Per questo i tanti curiosi intervenuti non sapevano spiegarsi a cosa era dovuta la presenza dei militi sul luogo dell’incidente, se poi non dovevano prestare alcun soccorso allo sventurato incidentato.

Quando Iveonte e i suoi due accompagnatori giunsero in quel luogo, la numerosa gente faceva ancora ressa intorno alla vittima dell'incidente. Volendo essere obiettivi, essa era interessata all'accaduto più per mera curiosità che non per cercare di aiutare il disgraziato in un modo qualsiasi, al fine di trarlo dai suoi grossi guai. Allora i tre giovani, aprendosi un varco tra la folla con fatica, raggiunsero il sinistrato, vicine al quale trovarono pure due donne. Una di loro era abbastanza matura e l’altra invece non era stata ancora abbandonata dalla giovinezza. Anzi, la ragazza, essendo chinata sopra il conducente del carro per cercare di procurargli sollievo con qualche parola di conforto, non lasciava scorgere il suo volto. Vedendola in tale atteggiamento, Iveonte in un attimo si curvò e la prese con garbo per le spalle. Dopo, mentre le faceva riassumere la posizione eretta, poiché voleva farla spostare dal carro, le disse:

«Fatti da parte, generosa fanciulla, e lascia a me il compito di soccorrere quest’uomo sfortunato. A mio giudizio, la sua situazione è molto critica; ma vedrai che, in qualche modo, riuscirò a sottrarre la sua gamba dallo schiacciante peso del carro, nonostante sia colmo di lastre marmoree. Esso gli sta procurando un sacco di male!»

All'invito del giovane, la ragazza, da china com’era, immediatamente si rizzò in piedi. Nello stesso tempo, spinta dalla sua curiosità di donna, ella volle anche dare un'occhiata al nuovo arrivato, il quale filantropicamente aveva deciso di prestare aiuto alla vittima della strada, facendo anche intendere di poterla aiutare. Ma non appena i suoi occhi si poggiarono sul volto del giovane soccorritore, la fanciulla all’istante riconobbe in lui Iveonte. Infatti, ella non lo aveva più dimenticato, da quando era stato nella reggia del fratello con i suoi due amici. In verità, anche il giovane la riconobbe all'istante, poiché pure lui, al pari di lei, da quel giorno non l'aveva più scordata. Allora, all’incrocio dei loro sguardi galvanizzanti, i quali in quell'attimo apparvero due saette fiammeggianti, la principessa Lerinda non seppe trattenere la sua doppia emozione. Da una parte, permise all’erubescenza di coprirle per intero il volto; dall’altra, invece, avvertì interiormente una gioia indefinibile. A corte, ella aveva temuto di non rivedere più l’uomo, del quale si era follemente innamorata a prima vista e in un solo attimo. Invece la fortuna le aveva permesso di essere ancora davanti a lui, ma questa volta se l'era trovato molto più da vicino. Ripensando poi al fatto che le mani di lui l’avevano sfiorata, la sorella del tiranno si sentiva esplodere dalla gioia, poiché essa le si stava scatenando intensamente nell’intimo.

A dire il vero, la reazione di Iveonte non si era espressa in modo differente. Nel riconoscere la principessa, il giovane era rimasto come scioccato, poiché anch’egli si era sentito affascinare dalla sua bellezza, fin dal primo momento che aveva avuto la buona ventura di incontrarla per la prima volta. Da quel giorno, non l’aveva fatta sparire dalla sua mente e il suo volto era continuato ad apparirgli davanti sia di giorno che di notte. Anzi, aveva perfino bramato di stare insieme con lei da solo, al fine di esprimerle quanto già provava nei suoi confronti. Per tale ragione, dopo averla riconosciuta, di lì a poco le sue mani istintivamente afferrarono le sue braccia all’altezza delle due giunture scapolari. Tenendola poi in quella posizione, egli si diede a scrutarla con intensità negli occhi. Nel contempo, iniziò a trasmetterle le emozioni che stava vivendo fortemente nell'intimo in quegli attimi di ineffabile dolcezza.

Per sua sfortuna, però, in quell'occasione essi non erano soli. Perciò quella loro atmosfera idilliaca fu ben presto frantumata da più parti di quell’assembramento dei presenti, ad iniziare dalla donna che accompagnava la fanciulla. Ella, prima fra le altre persone presenti, prendendosela a male e reagendo bruscamente, lo assalì, dicendo:

«Giovanotto, come osi mettere le mani addosso alla principessa Lerinda! Ti ordino di lasciarla stare in un attimo, se non vuoi andare incontro a grossi guai, che neppure immagini! Mi sono spiegata abbastanza che devi subito lasciarla, se non vuoi che chiami i gendarmi nostri accompagnatori e ti faccia arrestare da loro?»

Qualcuno della folla, da parte sua, approfittando della situazione, non si astenne dallo scherzarci sopra. Dopo essersi espresso con una bella risata, gli fece presente: "Ehi, tu, generoso soccorritore, non credi che non sia lei la persona che necessita del tuo aiuto? Come fai a non vedere il poveruomo rimasto vittima del proprio carro e a non sentire i suoi forti lamenti? Ah, ah! Ma forse non ti sei sbagliato a prestare le tue attenzioni e le tue cure a chi le merita più dello sventurato! Se ci tieni a saperlo, amico, al posto tuo anch'io mi sarei comportato tale e quale a te. Parola di Ulliceb!" Invece furono i quattro gendarmi, che scortavano la nobile sorella del loro sovrano, a scuotere maggiormente il giovane imbambolato, il quale in quel momento pareva di non esserci più con la testa. Essi, dopo aver sguainato le spade, ordinarono alla gente di fare subito largo per consentirgli il transito, se non volevano cercare rogne. Dopo che si furono avvicinati al giovane, che avevano creduto un importunatore della loro protetta, il più autorevole di loro gli gridò:

«Villanzone, come osi toccare la sorella del sovrano? Se non le togli immediatamente le mani di dosso, va a finire che qui per te le cose si metteranno male! Ti assicuro che esse saranno peggiori di quelle dello sciagurato infortunato, il quale sta soffrendo sotto il carro! Su, sbrìgati ad ubbidirci, insolente furfante! Altrimenti qui ci casca il morto!»

«Invece sarai tu a pentirtene sul serio, impertinente di un gendarme, se non ritiri in fretta gli epiteti spregiativi che mi hai affibbiato gratuitamente!» di risposta, lo riprese Iveonte «Te lo garantisco davanti alla massa delle persone che ci circondano. Esse non aspettano altro per sentirsi soddisfatti! È vero che ho ragione, o voi tutti presenti?»

«Sìììììììììììì!» fu la risposta unanime di quanti assistevano all'incidente.

«Se sei di questo avviso, emerito gaglioffo,» invece ci tenne a gridargli ancora contro il gendarme «allora passiamo subito ad impartirti la lezione che meriti. Così, dopo che ti avremo conciato bene per le feste, ti garantiamo che la smetterai di fare il gradasso con noi. Ammesso che da parte nostra ci sarà la voglia di farti grazia della vita, anziché ammazzarti in questo posto, come un lurido verme schifoso!»

Nel sentir parlare il loro camerata in quel modo, prevedendo un immancabile tafferuglio con lui, gli altri tre gendarmi si disposero alla svelta intorno al giovane, come per accerchiarlo. Invece Iveonte, dopo aver invitato le due donne e i suoi due accompagnatori a farsi da parte, si dispose a contrattaccarli e a riceverli con i dovuti modi. Così, quando il primo di loro osò assalirlo con sfrontatezza per accendere il conflitto, egli, con delle mosse talmente scattanti che nessuno era riuscito a seguire, li disarmò tutti e quattro in un battibaleno. Agendo in quel modo, li fece ritrovare per terra malconci e quasi incapaci di rialzarsi. Quando poi essi tentarono di reggersi in piedi, ai presenti sembrò che i quattro gendarmi fossero diventati dei veri anchilosati. Tenendosi poi ritto a fatica e appoggiandosi alla spalla di un suo collega subalterno, l'interlocutore di prima osò perfino minacciare colui che li aveva malridotti in quel modo, esclamandogli:

«Ti prometto, essere immondo, che non finirà qui il nostro diverbio! Vedrai che molto presto ti ritroverai a marcire nelle carceri di Dorinda. Questa è la fine di coloro che, come te, se ne vanno in giro a far mostra della loro forza o della loro bravura nelle armi! Arrivederci a presto, giovane birbante, perché non vedo l’ora di condurti nelle carceri!»

Iveonte, però, anziché starsene ad ascoltare le parole dello sbirro ridotto da lui davvero male, il quale intendeva rifarsi della batosta ricevuta sparando minacce, si rivolse alla gente e chiese se in giro ci fosse una sbarra di ferro. Egli voleva usarla come leva, allo scopo di fare alzare il carro di quanto bastava per liberare l'arto schiacciato del suo iellato conducente. Ma non avendo ricevuto alcuna risposta affermativa da parte di nessuna delle persone presenti, il giovane comprese che doveva sbrigarsela da solo, se intendeva aiutare il malcapitato che continuava a penare terribilmente.

«Vorrà dire che userò la mia spada, come leva per sollevare il carro e liberare la gamba dell'infelice uomo!» egli gridò alla folla «Voi due invece, miei accompagnatori, baderete a tirarlo da sotto il carro, non appena vi sarete accorti che il pianale del veicolo e il suo pesante carico non poggiano più sulla sua gamba malconcia! Ma dovrete essere veloci ad agire, se non volete peggiorare la sua situazione: mi sono spiegato?»

«Ma cosa dici mai, Iveonte!» gli fece osservare Turfon «La tua spada, quando cercherai di tirare su la sua elsa intanto che la sua punta poggia a terra, si piegherà senz’altro, se è di ferro; oppure si spezzerà in due, se è di acciaio! Non possono esistere spade capaci di reggere anche il peso del solo carro. Figuriamoci poi se esso è sovraccarico di tante lastre marmoree, le quali lo rendono quattro volte più pesante! Inoltre, per sollevare il tutto, ci vorrebbe da parte tua anche una forza immane, quella che giammai potrai avere in qualità di un comune essere mortale! Del resto, nessun essere umano potrebbe averla! Perciò rinuncia alla tua assurda idea e cerchiamo di aiutarlo in altro modo, se non vogliamo perdere tempo nel soccorrerlo! Magari occorrerà amputargli la gamba!»

«Invece, Turfon, sarà proprio la mia spada a far levare su il pianale del carro di un palmo da terra. La quale altezza sarà bastevole per liberare l’arto sinistro dell’infelice sinistrato. Se tu ne dubiti, io ne sono più che convinto. Aspetta e ti renderai conto da te che di noi due sono io ad aver ragione, poiché ci riuscirò senza meno!»

Rassicurato il carpentiere che la sua spada non avrebbe fatto cilecca in quel suo compito, Iveonte si mise a cercare qualche piccola fessura, nella quale poter infilare la sua arma almeno fino a metà. Così dopo avrebbe tentato il sollevamento del carro, convinto che esso ci sarebbe stato immancabilmente. Ma poi si rese conto che le uniche due parti vuote, anche se minime, si avevano solamente ai lati della gamba gravata dall’opprimente peso. Allora il giovane introdusse in una di esse la sua spada, fino a vederla sparire per metà. Dopo, intanto che veniva seguito nella sua manovra dagli occhi increduli delle tantissime persone presenti, le quali si mostravano piuttosto scettiche, iniziò a tirare verso l’alto l’impugnatura dell’arma che stringeva fortemente. Ad un certo momento, tra lo stupore generale, alla fine si scorse il carro staccarsi lentamente dal suolo, fino a liberare interamente l’arto dello sventurato, il quale si presentava gravemente fratturato.

A quella provvida occasione, ritenuta da tutti gli astanti un vero miracolo, Uldis e Turfon si affrettarono a strappare al soverchiante peso il corpo del marmista. Ma i suoi lamenti continuavano ad impressionare le persone che si presentavano particolarmente emotive e sensibili. A detta della totalità dei presenti, compresi pure i quattro gendarmi conciati male da Iveonte, in quell’opera di recupero, si era assistito a due mirabolanti prodigi. Il primo riguardava la spada, la quale stranamente aveva retto allo sforzo a cui era stata sottoposta. Il secondo, invece, concerneva il valoroso giovane, essendo riuscito a sollevare da solo un peso esorbitante ed impossibile a qualsiasi essere umano. Perciò ne erano rimasti tutti strabiliati, non sapendo essi spiegarsi come quei due fatti fossero stati da lui miracolosamente resi possibili ed attuabili. I due incredibili fenomeni fecero passare anche la voglia ai quattro gendarmi di vendicarsi di lui per le batoste ricevute.

Dopo aver soccorso il trasportatore di marmo, che era rimasto parzialmente vittima del suo stesso carro, Iveonte e i due artigiani che erano con lui ripresero il loro cammino, siccome essi avevano da fare degli acquisti in città. Ma allontanandosi da quel posto, il giovane, voltandosi spesso indietro, faceva giungere alla sorella del re Cotuldo le sue occhiate loquaci, le quali la rendevano consapevole di quanto egli ci tenesse a lei. Pure il comportamento della fanciulla non fu diverso dal suo, poiché anch'ella seguitò a non perderlo di vista, fintantoché il giovane non scomparve insieme con i suoi due accompagnatori, tra il continuo andirivieni della gente che si muoveva in entrambe le direzioni.