135°-IL RE COTULDO DECRETA LA RAPPRESAGLIA

La sconvolgente zuffa, che era divampata con furore nella Piazzetta degli Antenati e si era poi risolta in un battibaleno, di certo non era rimasta sepolta e dimenticata in quel luogo. Essa, che aveva visto i tre giovani amici e i due uomini di Lucebio contrapporsi ai cinquanta cavalleggeri del re Cotuldo, non era passata per niente sotto silenzio. Al contrario, aveva fatto l'immediato giro della città, giungendo in tutte le sue strade. Erano stati in parecchi quelli che si erano incaricati di propagarla in ogni parte di Dorinda, al fine di farla esaltare ed osannare da tutti i suoi abitanti. Coloro che si erano incaricati di spargerla dappertutto avevano anche invitato chi vi abitava ad inneggiare ai tre imbattibili campioni forestieri, dal momento che essi ne erano stati gli autori.

Come era da prevedersi, il risultato dell'aspra contesa era pervenuto con rapidità anche nella reggia del tiranno. Per l'esattezza, vi era giunto, quando mancava appena una manciata di minuti a mezzogiorno e il sovrano si preparava a consumare il suo pranzo del giorno. Egli si era amareggiato tantissimo, alla notizia che erano stati trucidati quasi tutti i gendarmi inviati a catturare i due preziosi ricercati. Inoltre, aveva inveito contro i tre superstiti con malumore e con immensa rabbia, nonostante essi gliel'avessero rapportata del tutto travisata. Infatti, i relatori di quanto era successo nella Piazzetta degli Antenati, per salvare la faccia e per evitare di rimetterci la pelle, di comune accordo avevano deciso di dare all'inviperito re Cotuldo una versione distorta dell'accaduto. Essi gli avevano riferito che, mentre attendevano i due ribelli segnalati, all'improvviso erano stati circondati da una massa ingente di plebei. Costoro, che erano armati fino ai denti, dopo averli assaliti e travolti dai loro cavalli, avevano ucciso tutti i loro restanti commilitoni. Comunque, pur ricorrendo ad un sotterfugio del genere, con il quale avevano inteso falsare i fatti in maniera incredibile, i poveretti ugualmente non si erano sottratti alle numerose invettive del loro sovrano. Il quale, intanto che dava loro il suo brusco commiato, aveva voluto anche umiliarli, quasi fossero degli esseri peggiori delle bestie. Alla fine, mentre si allontanavano assai timorosi, li aveva perfino definiti dei cialtroni rubapane.

Eppure quello sarebbe dovuto essere un giorno di festa per il sovrano di Dorinda, poiché era sicuro di ricevere quanto prima, da parte dei suoi gendarmi inviati ad arrestarlo, la bella notizia dell'avvenuta cattura del ribelle Solcio! Invece essi, anziché metterlo al corrente che il pericoloso cospiratore era stato catturato, erano andati a recargli tutt'altra nuova. Addirittura gli avevano comunicato il massacro che i loro compagni d’armi avevano subito per mano della lurida plebaglia dorindana, tenendogli nascosto a bella posta che ne erano stati gli esecutori materiali solamente tre giovani cavalieri. Solcio era l’uomo, che la delazione di un anonimo aveva denunciato quale gregario fedelissimo di Lucebio. Quest'ultimo rappresentava per il sovrano l'uomo privo di volto, il quale senza tregua si accaniva a complottare nell'ombra ai suoi danni. Per questo i suoi soldati lo ricercavano da tempo senza successo, benché continuassero a dargli una caccia spietata.

Infine, in preda ad un accesso di rabbia, il despota si era riproposto di farla pagare cara alla gente del quartiere, stabilendo che avrebbe mandato nella Piazzetta degli Antenati il suo fidatissimo Croscione con molti armati. Ma poi egli si era ricordato che il suo braccio destro era assente dalla reggia, avendogli affidato un incarico di fiducia da svolgere nella città di Casunna, presso il viceré suo fratello. Allora si era ripromesso che al suo rientro, il quale era previsto a fine mese, avrebbe concordato con lui una memorabile azione punitiva contro gli abitanti del quartiere, considerato che essi avevano voluto sfidarlo apertamente.

Una dozzina di giorni più tardi, quando Croscione rientrò, era già notte fonda. Per il qual motivo, non poté incontrarsi e vedersi immediatamente con il suo sovrano. La mattina dopo, però, ci pensò il re Cotuldo a mandare una guardia a chiamarlo di buon'ora. Egli, più che essere interessato ad avere notizie del fratello, era impaziente di sfogarsi con il suo consigliere dello smacco subito, ad opera dei ribelli dorindani. Perciò non vedeva l'ora di concertare con lui un piano punitivo contro i responsabili della strage dei suoi soldati. Intanto che attendeva smanioso nella sala del trono, c'era la sorella Lerinda a fargli compagnia. Ella era una fanciulla di rara bellezza ed era dotata di due begli occhi, che facevano mostra di una malia irresistibile. Per cui colmava di grazie l'animo di chiunque potesse starle vicino ed ammirarla. All'opposto del germano, la principessa era presente unicamente per avere notizie di Raco, ossia dell'altro suo fratello, il quale era a Casunna. A lui il re Cotuldo, anni addietro, aveva conferito la carica di viceré della loro città natale, quando egli non aveva ancora raggiunto la maggiore età.

Volendo raccontarla tutta, la ragazza era molto legata al più piccolo dei due fratelli, per il semplice fatto che era stato sempre lui, dopo la morte della madre, a starle dietro con grande premura. Per questo l'aveva seguita in tutti i suoi passi, fin da quando ella aveva cinque anni. Avendo poi la principessina perduto anche il genitore a distanza di pochi mesi, il fratello Raco aveva finito per farle pure da padre. Difatti, egli, con spirito altruistico, le aveva prodigato tutte quelle cure che, a un tempo, erano da definirsi fraterne, paterne e materne, contrariamente al comportamento del fratello maggiore Cotuldo. Costui aveva voluto disinteressarsene, non ritenendo fatto per lui il mestiere del bambinaio.

Croscione era ancora intento a dormire, quando fu avvisato che il re Cotuldo lo stava aspettando nella sala del trono. Allora si buttò immediatamente giù dal letto; dopo, impiegandoci il minor tempo possibile, si vestì alla meglio e volò dal suo sovrano. Una volta che si trovò al suo cospetto, egli incominciò a fargli presente:

«Sire, ieri sera, essendo rientrato tardi da Casunna, quando era passata ormai la mezzanotte, ho preferito non svegliarti a quell'ora tarda. Anche perché le notizie, che avevo da darti da parte di tuo fratello Raco, non erano né urgenti né improcrastinabili. Per questo ho pensato che te le avrei potute dare benissimo questa mattina, come appunto mi affretto a fare. Prima però, mio sovrano, se me lo consenti, vorrei approfittare della presenza della principessa Lerinda per consegnarle un dono che le invia il viceré suo fratello. Si tratta di una bellissima collana di raro pregio, la quale è stata cesellata da Tirpo, il famoso orafo di Casunna. Così dopo potremo palare con più calma di ciò che ci riguarda.»

«Certo che hai il mio consenso, Croscione! In questo modo, libereremo la mia dolce sorellina dalla sua forte ansia, visto che le si legge in volto. Ella non aspetta altro che avere notizie di Raco, il quale per lei è sempre stato il fratello preferito. Dopo penseremo alle cose serie, quelle che ci riguardano personalmente. Perciò, insieme alla consegna della collana, riferiscile pure il suo affettuoso messaggio e facciamola finita con questo patetico argomento! Oramai si sa che, per la mia sorellina, non conto niente e non sono nessuno, per non aver mai voluto badare a lei nel passato. È forse colpa mia, se mi ripugnava farle da baby-sitter? Dunque, è giusto che tutti i suoi pensieri siano rivolti a suo fratello Raco e che a lui siano destinate anche le varie sue attenzioni! Ma ciò che non ho mai capito, anzi continuo a non comprenderlo, è quanto adesso mi domando: Perché ella non se ne ritorna a vivere a Casunna, presso il fratello prediletto? Qui non l’ha mai trattenuta nessuno con la forza, né ce la trattiene ora! Inoltre, partì da lei l'iniziativa di voler venire a starsene con me a Dorinda e non fui io ad implorarla di farlo! Questo lo sa bene pure lei e non può negarlo!»

Lerinda rimase quasi interdetta, nel sentire pronunciare dal germano re Cotuldo quelle parole, nelle quali aveva letto la sua evidente gelosia nei confronti del fratello Raco. Ella non avrebbe mai immaginato un fatto del genere, per cui il suo sfogo in quella circostanza era venuto a sorprenderla! Allora all’istante intervenne a chiarirgli:

«Mi stai forse dicendo, Cotuldo, che sei geloso di tuo fratello? Eppure non ti avrei mai creduto capace di un simile sentimento! Ad ogni modo, non è mai stato un segreto che io lo prediliga a te; ma tu ne conosci pure i motivi. Per questo non dovresti nemmeno prendertela, come stai facendo in questo momento! Inoltre, la mia predilezione per lui non deve spingerti a pensare che io non voglia bene anche a te! Dopotutto, siamo sempre dello stesso sangue! Anzi, dovrebbe già bastarti il fatto che io abbia preferito venire a vivere accanto a te a Dorinda, anziché restarmene a Casunna presso il mio carissimo fratello Raco!»

«Lerinda, a chi vuoi darla a bere? Sono convinto che hai preso una simile decisione non per farmi contento. Secondo me, sotto sotto ci sarà qualche altra ragione, che non sono mai riuscito a comprendere e che ti avrà senz’altro spinta a prenderla. Ma prima o poi, mia cara sorella, senza meno ne verrò a conoscenza. Allora, vedrai, che quel giorno te la rinfaccerò apertamente, senza che tu possa rifiutarti di ammetterlo!»

Il re Cotuldo non aveva tutti i torti ad affermare che non era mai riuscito a rendersi conto del perché la sorella non avesse scelto Casunna come sua città di residenza, sebbene ella giustamente avesse un debole per il fratello Raco. Invece la ragazza, contro ogni sua aspettativa, aveva stabilito di andarsene a vivere presso la sua nuova reggia di Dorinda. In merito a tale decisione della sorella, alla fine egli aveva rinunciato a capirci qualcosa, imputando il suo strano comportamento all'incomprensibile e difficile natura delle donne. In verità, la principessa Lerinda si era decisa ad andare a vivere a Dorinda, presso la reggia del fratello Cotuldo, non perché le erano venuti dei grilli per la testa, per cui adesso continuava a tenerseli. Invece lo aveva fatto unicamente perché dieci anni prima, quando era una tredicenne, le era stata fatta una predizione straordinaria da una vecchia e cieca preveggente. Perciò, allo scopo di soddisfare la nostra grande curiosità in merito alla decisione della principessa Lerinda, non indugiamo a conoscerne pure noi il contenuto.


Un giorno, approfittando di una splendida giornata di sole, il fratello Raco aveva voluto condurre lei e la sua nutrice Telda a fare una passeggiata a cavallo per le strade della città. Percorrendole gaiamente, ella si era divertita un mondo ed aveva anche approfittato per fare delle compere, che ella aveva ritenute indispensabili per lei. Al ritorno, mentre galoppavano per una viuzza di Casunna, avevano incontrato una vecchia dall'aspetto grottesco, la quale risultava pure orba da entrambi gli occhi. Stando seduta sopra un trespolo, ella aveva davanti a sé un deschetto, sopra il quale teneva poggiate le sue scarne e raggrinzite mani. Ebbene, chiunque capitasse da quelle parti, fosse egli a cavallo oppure a piedi, non se lo faceva sfuggire facilmente. Così, quando le poche persone che ogni tanto si trovavano a transitare per la sua stradina, passandole obbligatoriamente sotto il naso, ella avvertiva all'istante i loro passi oppure gli zoccoli dei loro cavalli. Allora la cieca megera cercava subito di approfittarne e si metteva a ripetere con una voce sottile:

"In cambio di un solo soldino,
Zusca ti svelerà il tuo destino;
perciò, se qui una sosta farai,
di sicuro non te ne pentirai!"


A quelle due coppie di versi espressi con rima baciata, i quali risultavano anche eufonici all'ascolto, la fanciulla si era alquanto incuriosita. Così, arrestato in un attimo il proprio cavallo, aveva domandato alla vecchia donna, che era avanzata negli anni:

«Mi dici, mia simpatica vecchietta, cosa mi rivelerai, in cambio di una moneta d'oro? Spero proprio qualcosa di più, se non vuoi deludermi, siccome essa vale molto di più del soldino da te richiesto! Allora ti va di rispondere alla mia domanda?»

«Se lo vuoi sapere, dolce fanciulla, in cambio di una moneta d’oro, ti verrà svelato un intero tesoro!» era stata la pronta risposta della chiromante, continuando ad esprimersi in buona rima baciata.

All'inizio, Lerinda era rimasta pensierosa, non sapendo quale concetto farsi dell’anziana donna. Poco dopo, invece, provandoci molto gusto, si era rivolta al fratello e gli aveva ordinato:

«Raco, generoso fratello mio, sbrìgati a gettarle la moneta che le ho promessa e sentiamo quale tesoro questa cieca indovina avrà da svelarmi! Spero proprio che ne valga la pena di darle retta e di ascoltare le sue parole! Altrimenti, ritenendola una truffatrice, non esiterò a riprendermi subito dopo la moneta che le avrai lanciata!»

Il giovane viceré, il quale aveva sempre esaudito ogni capriccio della sorellina, pure quella volta aveva voluto accontentarla, mostrandosi divertito. Così aveva fatto cadere la moneta d'oro sul banchetto della vecchietta. Allora ella, dopo essersi impossessata del dischetto metallico, prima lo aveva fatto scorrere fra le ossute dita della sua mano destra e poi lo aveva addentato per saggiare il metallo, di cui esso era fatto. Quando infine si fu accertata che la moneta era stata coniata con il prezioso metallo giallo, senza esserci imbrogli, la vecchia aveva invitato la fanciulla a sedersi. Dopo le aveva chiesto di far combaciare, quasi a sfiorarsi, la sua mano sinistra con la propria, che però era quella destra. Ella, in quel momento, poggiando il gomito sul piano del deschetto e tenendo l'avambraccio in posizione verticale, volgeva il palmo della sua mano verso l'adolescente cliente seduta.

Non appena la sua mano e quella della principessa si erano congiunte perfettamente, cioè proprio come se l'una fosse sopra uno specchio e l'altra fosse il suo riflesso, la ragazza si era sentita attraversare in tutto il corpo da un fluido misterioso, il quale era sembrato quasi che glielo raggelasse. A quella sua sensazione iniziale, ella si era spaventata, per cui istintivamente aveva tentato di allontanare la sua gelida mano da quella dell'indovina. Invece quel suo gesto istintivo era stato inutile, poiché l'intero suo corpo si presentava praticamente immobilizzato, come se fosse stato colto da una paralisi. Ma poi, di lì a poco, erano venute a distrarla le parole dell'indovina Zusca, le quali, pur presentandosi fioche e stentate, avevano incominciato a predirle:

«Perché te ne resti ancora a Casunna, nobile principessa? Non è qui che si compirà il tuo meraviglioso destino, ma soltanto a Dorinda. In quella città incontrerai l'uomo della tua vita e non puoi immaginare quale essere straordinario egli si dimostrerà! Ti faccio presente che perfino gli altri sovrani un giorno si inchineranno davanti a lui! Per questo trasferisciti nella Città Invitta, dove troverai la tua grande fortuna!»

«Se me lo consigli tu, chiromante, che mi hai dimostrato di essere molto brava nel campo della magia» le aveva risposto la ragazza «di sicuro farò come hai detto. Mi trasferirò a Dorinda domani stesso, poiché non voglio farmi sfuggire la bella occasione che mi aspetta in quella città! Ti ringrazio per l'ottimo consiglio che mi hai dato!»

Le parole della preveggente, che era stata in grado anche di riconoscerla, se avevano fatto sorridere il viceré Raco e la nutrice Telda, avevano turbato profondamente l'adolescente, la quale, come abbiamo visto, aveva creduto alla predizione dell'indovina Zusca. All'improvviso, Lerinda si era sentita una persona adulta, invasa da pensieri che ora erano propri di una donna avente alle spalle una consumata esperienza. Perciò la ragazza aveva sentito forte in sé il dovere di dare una mano al suo destino e di aiutarlo ad avverarsi. Per conseguire l'obiettivo che si era prefissato, però, ella doveva far subire una svolta decisiva alla propria vita ed impostarla in modo diverso. Ossia, doveva rinunciare a tutti i suoi capricci e i suoi vezzi, i quali fino a quel momento l'avevano tenuta alla loro mercé. Inoltre, doveva iniziare ad assumersi le proprie responsabilità, com'ella non aveva mai desiderato fare nella sua esistenza passata, avendo amato sempre una vita comoda. Così la ragazza, già il giorno dopo, aveva voluto cambiare radicalmente il suo modo di vivere. Anzi, non dando retta a niente e a nessuno, ella se n'era andata a vivere nella lontana Dorinda, presso la reggia del germano re Cotuldo. A nulla era valso l'intervento del fratello Raco, il quale aveva cercato di convincerla a restarsene con lui a Casunna e a non dare credito alle ciarlatanerie di quella megera, siccome ella era da considerarsi un’autentica impostora. A suo parere, nella nuova città ella non sarebbe andata d'accordo con il fratello re, esattamente come era successo in passato.

Ritornando adesso all'affermazione del sovrano di Dorinda fatta sulla sorella, secondo la quale tutti i pensieri della ragazza erano per il germano Raco, essa poteva essere valida fino a pochi giorni prima. Invece ora le cose erano completamente cambiate. Perché mai? Da quando Iveonte si era presentato con i suoi amici alla corte del fratello, stranamente il giovane era entrato a far parte della sua vita, come nessun altro uomo. Lerinda se ne era innamorata, fin dal suo primo sguardo, per cui ella non faceva altro che pensare a lui. Perfino la figura del fratello Raco era tramontata davanti ai suoi occhi. Quasi si fosse inabissata nelle tetre tenebre della notte, senza che ella sapesse spiegarsene il motivo! Iveonte oramai era diventato l'unico uomo a rappresentare in lei la luce, la gioia, la serenità. Penava, al solo pensiero che il giovane non si fosse accorto di lei o che fosse rimasto indifferente al suo sguardo inequivocabilmente traboccante di simpatia per lui oppure che l'avesse addirittura odiata, a causa del bastardo fratello! Perciò la ragazza desiderava ardentemente incontrarlo di nuovo per avere l'opportunità di leggere nei suoi occhi i pensieri che gli turbinavano nella mente sul suo conto. Ma in modo particolare, ella voleva conoscere i sentimenti, che si agitavano nell'animo del giovane verso di lei.

Anche quando Croscione le aveva consegnato il regalo del fratello prediletto, insieme con i suoi saluti e gli abbracci affettuosi, ella si era ben guardata dal darsi alle solite effusioni di esultanza e di gioia. Invece lo aveva accettato con un atteggiamento inusuale ed aveva manifestato una normale comprensibile contentezza, cioè quella che avrebbe provato per un qualsiasi altro gioioso avvenimento. Allo stesso modo, si era pure preoccupata della salute del lontano congiunto, informandosene con una semplice domanda. Essa in quell'istante aveva avuto più il sapore della pura etichetta, che non quello di una palese ansia o apprensione che le proveniva dall'intimo, come era avvenuto le altre volte. Lo stesso re Cotuldo aveva notato il nuovo atteggiamento assunto dalla sorella e, in un primo momento, ne era rimasto sorpreso moltissimo. Invece dopo il sovrano aveva pensato che ella con molte probabilità si era comportata in quel modo esclusivamente per evitare di farlo ingelosire di più. Il quale comportamento della sorella, sempre secondo il suo parere, era seguito al rimprovero che egli poco prima aveva voluto farle, rinfacciandole l'evidente preferenza che la ragazza accordava al fratello Raco, in termini tanto di affetto quanto di simpatia!

A questo punto possiamo ricollegarci alla nostra storia, la quale intende continuare a srotolarsi nell’interminabile sentiero del tempo.


Non appena il suo braccio destro ebbe effettuato la consegna della preziosa collana alla sorella, il re Cotuldo non perse tempo a riprendere con lui l'interrotta conversazione, la quale era appena iniziata. Infatti, c'erano delle cose importanti che voleva chiarire al più presto, visto che non gli davano pace. Così si diede a dirgli:

«Adesso veniamo a noi, mio fedele Croscione! Dopo che la mia sorellina è stata appagata appieno sia in doni che in affetto, non c'è più motivo di ritardare il nostro colloquio. A causa del quale, stamattina ci siamo ritrovati qui a discutere, siccome esso ci interessa più specificamente! Ma prima di ogni altra cosa, fammi sapere qual è stata la reazione di mio fratello Raco alla nuova imposta erariale da me stabilita.»

«Ti faccio presente che egli non l'ha accolta proprio con gioia, mio sovrano, considerato che non è stato per niente accondiscendente! La tua imposta sugli animali, la quale viene già applicata in Dorinda, non è garbata al nobile Raco, per cui l'ha appresa con molta freddezza. Egli è dell'avviso che essa farà nascere molto malcontento fra la popolazione casunnana. Anzi, a tale proposito, ti invita a riconsiderare la cosa e di pensarci due volte, prima di introdurre in Casunna una tassa del genere. Se poi sarà tua ferma intenzione vararne il provvedimento e passare alla sua concreta applicazione, non gli resterà che chinare il capo al tuo volere. A suo parere, prima di iniziare l'esazione del relativo tributo, occorrerà però che il popolo venga preparato, mettendolo al corrente dell'entrata in vigore della tassa in questione, mediante un normale bando. Perciò, non appena gli arriverà da parte tua la conferma definitiva della legge, unitamente alla bozza del relativo bando, egli si adopererà perché essa abbia prima un'ampia diffusione in Casunna e dopo una effettiva applicazione. Questo è tutto, mio grande re!»

Le considerazioni del viceré Raco, che erano state riportate fedelmente da Croscione, fecero irritare non poco il re Cotuldo, anche se le aveva previste da parte del fratello. Ma esse, secondo lui, gli erano risultate sciocche e fasulle. Allora, divenuto alquanto bilioso, incominciò a sfogarsi con il suo scaltro braccio destro:

«Lo prevedevo, Croscione, che mio fratello non avrebbe condiviso la mia nuova iniziativa! Di tutto ciò che dico e faccio, per lui non va mai bene niente! Prende sempre le difese del popolo e mai le mie. Quasi lo avesse sposato! Ma Raco non deve dimenticare che sono stato io a conferirgli la carica di viceré di Casunna e non il popolo! Mi sa che dovrò ricordargli che gli ho concesso tale titolo per fargli curare i miei interessi e non quelli dei Casunnani! Forse, mio consigliere, avrei fatto meglio a conferire a te la carica di viceré, anziché al debole e pietoso mio fratello. Almeno tu mi avresti assecondato in tutto, senza mai muovermi delle stupide obiezioni, come fa lui. Sono sicuro che la tua obbedienza mi sarebbe stata senz'altro leale e totale. A quel tempo, purtroppo, la tua presenza mi era indispensabile a Dorinda, come del resto lo è tuttora! Comunque, potrò cambiare le cose a Casunna, anche se deciderò di farlo con ritardo. Vorrà dire che dovrò seguitare ad armarmi di tantissima pazienza con il mio ribelle germano!»

«Illustre re Cotuldo, secondo me, il tuo nobile fratello Raco non ha per niente la stoffa del governante. Del resto, lo hai affermato pure tu! La sua debolezza e la sua pietà gli sono di grande ostacolo nel governo di Casunna e ne fanno un uomo debole di fronte al popolo. Invece, per contrapporsi energicamente alle lagnanze dei furbi tuoi sudditi casunnani, gli occorrerebbe il pugno forte, quello che egli non ha oggi, non ha mai avuto nel passato e non avrà neppure nel futuro! Ma tu questo già lo sai e glielo hai anche sempre rimproverato!»

La principessa Lerinda, pur rendendosi conto che il fratello era infuriato e sarebbe stato meglio lasciarlo perdere, ugualmente intervenne a parlargli con molta franchezza:

«Mi sembra che tu stia esagerando, Cotuldo. Per come la vedo io, quello di nostro fratello è stato un atto dovuto, quindi né di opposizione alla tua regalità né di disubbidienza ai tuoi ordini. Egli, giustamente, ha ritenuto opportuno consigliarti in merito, invitandoti a rivedere quanto stai per deliberare contro i nostri concittadini casunnani. Secondo lui e anche secondo me, la tassa sugli animali sarà di sicuro malvista dal popolo di Casunna. Essa potrebbe spingerlo ad una generale insurrezione armata! E non so fino a che punto ti gioverebbe una sua sedizione nella nostra città natale!»

Dopo avere ascoltato le parole conciliative della sorella, le quali lo stesso non gli erano giunte gradevoli, il re Cotuldo le replicò:

«Come sempre, Lerinda, tu scendi sempre in campo al fianco del tuo fratello preferito, dandoti a demolire con i tuoi interventi ogni mia tesi e ogni mio operato. In tutti i contrasti che ho avuto con lui, non c'è mai stata una sola volta che tu ti sia schierata dalla mia parte oppure abbia perorato la mia causa! Possibile che, ai tuoi occhi, sia sempre io a fare passi falsi, mentre Raco riesca a fare solamente quelli giusti?»

Allora la sorella, non accettando le illazioni del germano sovrano, siccome le trovava come al solito interamente campate in aria, desiderò ancora reagire ad esse con determinazione e senza indugio. Per questo, con una certa foga, ci tenne a precisargli:

«Tutti i miei interventi, Cotuldo mio caro, sono stati ogni volta obiettivi e non tendenti a favorire qualcuno, il quale per te è sempre nostro fratello Raco. Nelle vostre divergenze, ho sempre espresso la mia opinione con imparzialità e non c'è stato mai il larvato intento di difendere nessuno, come appunto mi sto comportando in questo momento! L'odierno mio intervento non è stato per niente tendenzioso; ma esso ha mirato unicamente alla difesa della giustizia. Visto poi che nostro fratello Raco qui non c’entra per nulla, come ora stai malignamente insinuando, per favore cerca di non tirarlo in ballo! Infine, se ci tieni a conoscere il mio spassionato parere a tale proposito, non reputo giusta tale imposta neppure nei confronti dei tuoi sudditi dorindani!»

A quel punto, il re Cotuldo, avendo deciso di troncare sul nascere la nuova vivace discussione, siccome l'argomento a buon ragione non era di suo gradimento, volle ignorare appositamente le parole della sorella. Allora, saltando di palo in frasca, subito si rivolse di nuovo al suo braccio destro e gli fece presente:

«Lo sai, Croscione, che il drappello da te scelto per l'arresto di Solcio e del suo compare non è riuscito a portare ad effetto la sua missione? Mentre era appostato nei paraggi della Piazzetta degli Antenati, esso è stato colto di sorpresa dalla marmaglia del luogo, la quale lo ha anche barbaramente massacrato. Solo pochi dei miei uomini sono riusciti a scamparla bella. Tanto pochi, da potersi contare sulle dita di una mano! Eppure mi avevi assicurato che il drappello era formato da uomini molto in gamba, i quali non avrebbero avuto difficoltà alcuna a portare in porto la loro missione! Invece, dimostrandosi dei pivelli, facilmente essi si sono fatti sorprendere e travolgere da una massa di facinorosi plebei, che hanno pure mandato a monte l'arresto del nostro principale indiziato. Dunque, essendo fallito il piano da te predisposto con meticolosità, Lucebio rimane per noi ancora un problema insoluto! Adesso, Croscione, mi fai la cortesia di dirmi in che modo puoi discolparti, dopo che il tuo accurato piano ha fatto registrare un autentico insuccesso?»

«Perché, mio grande re, vorresti incolpare proprio me di quanto è accaduto una dozzina di giorni fa in Dorinda? Allora ho fatto del mio meglio e mi sono regolato, in base a quanto ci avevano riferito i nostri delatori quella mattina stessa. Non avresti creduto anche tu che sarebbero bastati cinquanta cavalleggeri, per l'arresto di due soli uomini di Lucebio? Se poi avrei dovuto prevedere anche una sollevazione da parte della razzumaglia del posto, un episodio che non si era mai verificato in città prima di allora, le cose cambiano totalmente! Come tu sai, non sono mai stato bravo nella preveggenza. Perciò, se lo desideri, ti permetto pure di tacciarmi di incapacità nell’azzeccare previsioni, a patto però che non si intacchino le mie qualità di valente uomo d'armi! Se avessi potuto, avrei diretto io stesso le operazioni di cattura ed avrei eseguito personalmente l'arresto. Ma ciò non mi è stato possibile, dal momento che proprio quella mattina, dopo il tuo ricevimento a corte di quei tre stranieri fanfaroni, ho dovuto intraprendere di corsa il mio viaggio per Casunna. Come ben sai, con esso avevo da recare al viceré Raco varie tue ambasciate urgenti, tra le quali c’era pure quella concernente l’imposta erariale sugli animali. Adesso, mio sovrano, sei ancora in vena di farmi dei rilievi ingiusti sull'imprevisto accaduto di quel giorno?»

«In verità, hai ragione, Croscione. Ma resta sempre il fatto che solo tre dei cinquanta soldati da te selezionati per la particolare operazione sono riusciti a salvarsi; mentre tutti gli altri ci hanno lasciato le cuoia. Fra i plebei dorindani, invece, a quanto ho potuto appurare successivamente, non si è registrata neppure una vittima. Ciò vuol dire forse che un lurido plebeo dorindano sappia combattere meglio di un nostro soldato di professione? Come ha potuto una massa di straccioni cogliere di sorpresa un intero squadrone dei miei? Se le cose stanno così, ho proprio di che consolarmi!»

«Ti ripeto, mio re, che non so e non posso immaginare che cosa sia successo in quella giornata e come siano andate veramente le cose, poiché non ero presente al fatto. Sai cosa ti dico? Visto che i nostri uomini in quella circostanza si sono fatti sorprendere ed ammazzare come tanti brocchi, peggio per loro! Perciò non lagnarti per così poco; ma gioisci, al pensiero che da oggi hai meno dipendenti ai quali corrispondere una retribuzione equa! Quanto a Lucebio, non fartene un problema, visto che egli ha i giorni contati. Assai presto lo scoverò e te lo consegnerò sopra un bel piatto d'argento. Sei soddisfatto, mio re? Quindi, ti invito a non curarti di quest'incidente di percorso e a porre mente ad evenienze più lucrose! Al posto tuo, ad esempio, prendendo a pretesto la loro recente ribellione, imporrei un nuovo e più salato balzello all'intero popolo di Dorinda!»

«Sei sempre lo stesso, Croscione, per cui continui a mostrarti cocciuto e borioso! Le tue smargiassate sono proporzionate alla tua mole elefantiaca. Inoltre, non appari per nulla resipiscente per quanto è accaduto, sebbene la carneficina dei miei uomini sia stata originata anche dalla tua scarsa oculatezza nella scelta dei soldati che avrebbero dovuto eseguire l'arresto dei due ribelli! Invece tu ci ridi sopra, anziché proporti di mettere in atto delle meticolose inquisizioni sull'intera vicenda dell'arresto andato a vuoto, affinché un contrattempo del genere non si abbia a verificarsi una seconda volta. Scommetto che vorresti farti anche una ballata per la contentezza, dopo quanto si è verificato a nostro discapito! Allora permettimi di chiamare anche la tua compagna elefantessa, perché ti faccia da compagna nel ballo! Così sarò certo di avere anch’io un motivo per cui ridere a crepapelle, divertendomi fino a notte inoltrata!»

«O mio re, con il tuo linguaggio tagliente, a volte riesci ad offendermi e a demoralizzarmi ingiustamente. Devo allora rinfacciarti che, nella vicenda della mancata cattura, c'è stata anche la tua parte di colpe. Fosti tu a non volere che me ne incaricassi di persona, affrettando la mia partenza per Casunna, sebbene essa non fosse impellente. Invece la si poteva rinviare di almeno un giorno, senza creare alcun problema alla mia missione che dovevo svolgere a Casunna presso il viceré Raco!»

«Sì sì, forse è davvero come dici, mio caro Croscione! Ad ogni modo, voglio raccomandarti una cosa molto importante. Al momento opportuno, vorrei che tu non solo venissi a mancare della calma, dedicandoti unicamente a macellare i nostri nemici; ma fossi, nel stesso tempo, un sagace inquirente. Anzi, vorrei che tu ti dessi alla diplomazia, dalla quale sono certo che ricaveresti un inimmaginabile profitto!»

«Che cosa dici mai, o mio sovrano! C'è forse qualcosa di più diplomatico della mia spada? Stento a crederci! Devo ringraziare soprattutto la mia arma, se riesco a tenermi lontano da ogni disavventura e a conservarmi la testa sul collo. Se tu potessi vederla in che modo essa riesce ad infilzare e a sistemare quelli che le si scagliano contro, non esiteresti a ricrederti sinceramente di questa tua controversa opinione!»

«Vedo, Croscione, che è tanto grande la tua cocciutaggine, che ti fa ancora ribadire e difendere il tuo modo di agire. Esso si presenta troppo impulsivo e poco adatto ad un uomo d'armi come te! Inoltre, ci sono i tanti fatti che mi danno ragione. Riandando agli ultimi avvenimenti, mi sorge spontaneo il sospetto che ogni cosa cominci a mettersi male per me. Perché non chiedi alla tua furia istintiva o alla tua spada dove avvengono le riunioni segrete dei nostri ribelli? O devo ritenere che siano entrambe in convalescenza, per cui ti è impossibile domandarglielo?»

«Stanne pur certo, mio sire, che lo chiederò all'una e all'altra, non appena mi capiteranno davanti i ribelli dorindani. Vedrai allora che esse mi risponderanno: "Accantona questi pensieri assillanti e pensa ad ucciderli tutti, quei bastardi bifolchi!" Ma adesso desidererei che si concludesse il nostro discorso su questo argomento. Esso, oltre a mettermi in una posizione di biasimo, mi sta pure coprendo di ridicolo! A tale riguardo, sappi che la mia indole non tollera da parte di nessuno simili ingiusti affronti e tale linguaggio offensivo. Ciò, anche quando i medesimi provengono ad essa dalla tua maestà in persona! Sono fatto così e nessuno può farmi cambiare la natura e il carattere, anche pagandomi con grosse somme di denaro! Te lo dovevo far presente già da tempo!»

«Su, non prendertela e non scaldarti per così poco, Croscione! Se ti ho offeso in qualche maniera, ti chiedo di scusarmi, siccome non era mia intenzione recarti alcuna offesa. Ma ora ascoltami tutt'orecchi. Fra pochi giorni daremo sfogo all'arte venatoria, più precisamente alla cinegetica. Ebbene, in quel giorno che ci sarà la caccia con i cani, voglio che vengano dati alle fiamme i sozzi bugigattoli che danno sulla Piazzetta degli Antenati. Inoltre, dovrà essere tratta in arresto la gente che vi abita, colpendo a morte chiunque oserà opporvi resistenza oppure cercherà di sfuggirvi. Anche i vicoli viciniori dovranno subire la vostra dura azione; ma in questi ultimi dovrete solo limitarvi ad arrestare alcuni residenti, che potremmo spremere in seguito per farli sbottonare.»

«Ah! Ah! Questa sì che è una bella notizia, mio re Cotuldo! Mi hai ordinato esattamente ciò che stavo per proporti da parte mia. Perciò non comprendo come tu abbia fatto a leggermi nel pensiero senza errori! Probabilmente sarai dotato di fenomeno telepatico, se in questo momento sei stato capace di riuscirci alla perfezione!»

Fu in quel preciso istante che la giovane sorella del tiranno decise di intervenire anche lei. La principessa era rimasta muta e attenta per tutto il tempo che c'era stata la discussione tra i due emeriti volponi. Essendosi poi resa conto della reale minaccia che pendeva sulla testa di una parte dei Dorindani, con il suo intervento cercò di tenerla lontana da loro il più possibile, scongiurando la morte di persone innocenti.

«Vedo che qualcosa vi è sfuggito, caro fratello e famigerato macellaio Croscione. La qual cosa è molto grave da parte vostra!» interloquì la nobile fanciulla, che aveva uno scopo ben preciso «Se me lo consentite, passo a spiegarmi meglio, indicandovi con esattezza dove il vostro ragionamento è apparso traballante.»

Quando infine il fratello Cotuldo e il suo braccio destro Croscione manifestarono la loro volontà di darle ascolto, essendo essi ansiosi di apprendere a cosa ella volesse riferirsi, la ragazza non perse tempo a continuare ad aprire bocca e a spiegarsi in modo chiaro. Così incominciò ad esprimersi ad entrambi con queste testuali parole:

«Non vi sorprende il fatto che la carneficina dei vostri soldati sia stata consumata nello stesso giorno che avete ricevuto a corte la visita dei tre giovani forestieri? Prima di allora, non si era mai verificato un fatto simile da parte dei Dorindani. Secondo quanto mi risulta, fratello, essi non hanno l'abitudine di assalire apertamente le tue truppe, conoscendo già il tipo di reazione che ne consegue da parte tua. Sono convinta, perciò, che quel giorno nella Piazzetta degli Antenati ebbe ad agire una mano estranea alla vicenda e non quella dorindana, come invece vi è stato fatto credere!»

Alle parole della ragazza, ridacchiando, Croscione borbottò al suo re:

«Non credevo, sire, che la principessa tua sorella avesse l'abitudine di sognare pure ad occhi aperti e in pieno giorno! Ma tu lo conoscevi già questo suo difetto?»

«Taci per favore, Croscione, e lasciamola andare avanti!» lo ripigliò il re Cotuldo «Rimandiamo invece a dopo i commenti e le offese gratuite, come tu stai facendo in questo istante!»

Allora Lerinda, con il suo successivo intervento, oltre a contraddire il consigliere del fratello e a difendersi da lui, cercò di spiegare ai suoi interlocutori come potevano essersi svolti i gravi fatti nella Piazzetta degli Antenati. Perciò si diede a parlare loro così:

«Non sto sognando affatto, famigerato Croscione! Sappi invece che in un solo campo tu hai la piena idoneità, cioè nel commettere i più orrendi delitti, poiché in te c'è una carenza spaventosa di morale e di religione. Essa ti fa mostrare cieco anche di fronte alla ragione, la quale viene ripudiata da te. Addirittura vorresti insinuare che il mio parlare è vuoto e senza senso. Ma ti sbagli pietosamente! Venendo al dunque, voi credete che i tre forestieri, che si sono presentati a corte la stessa mattina in cui è avvenuta la strage imputata ai Dorindani, non abbiano avuto niente a che fare con essa e che si sia trattato di una pura coincidenza? Che vi piaccia o meno, la mia visione in merito è contraria alla vostra. Sono convinta che c'è stata la loro mano nella strage in questione!»

«Allora vuoi spiegarmi, principessa Lerinda, come abbiano fatto i due ribelli e i tre forestieri a fare la loro subitanea amicizia, senza neppure conoscersi fino a poco prima? A mio modesto parere, una cosa del genere giammai si sarebbe potuta verificare in così brevissimo tempo! Da parte mia, posso solo esserne assai convinto!»

«All'opposto di te, Croscione, sono sicura che i tre giovani, essendo capitati sul luogo dell'agguato per puro caso, si sono lasciati impietosire dalla brutta situazione, nella quale erano venuti a trovarsi i due malcapitati ribelli. Allora, lasciandosi coinvolgere da essa, sono intervenuti in loro aiuto ed hanno mietuto fra i vostri soldati il ragguardevole numero di vittime che conoscete. Se teniamo per buone le asserzioni fatte dai tre giovani, secondo le quali nel mattino già avevano affrontato ed ucciso un numero di cospiratori quasi uguale a quello dei vostri sbirri trucidati, bisogna riconoscere che essi avevano dato prova di un valore e di una prodezza non da tutti. Per cui non possiamo neppure escludere che essi abbiano potuto fare altrettanto con i soldati di mio fratello nella piazzetta, dove si è consumata l'orrenda carneficina!»

«Invece io» intervenne a ribattere lo stravagante Croscione «asserisco che le due circostanze non possono essere ricollegate l'una con l'altra e che, per quanto riguarda la loro concomitanza, si è indubbiamente trattato di una pura casualità. Sono certo che quei tre giovani, una volta usciti dalla reggia, sono stati presi da una tale tremarella, che si sono affrettati ad allontanarsi da Dorinda mille miglia. Ad uccidere i nostri cavalleggeri, quindi, sono stati i pidocchiosi plebei. Perciò essi dovranno essere puniti come si meritano, usando con loro la mano di ferro! Ed è quello che faremo fra pochi giorni!»

«Insisto a non condividere il tuo parere.» la giovane principessa seguitò a perorare la propria tesi «Non posso credere che sia stata la plebaglia dorindana a far fuori i vostri soldati, siccome costoro sono tutti di consumata esperienza. Ad ogni modo, ho la sensazione che, nei giorni che seguiranno, ci sarà chi penserà ad iniettare molto malessere nel vostro animo! Se a voi fa piacere dubitarne, io ne sono molto convinta!»

«A chi alludi, Lerinda?! Ti prego di essere più esplicita, per favore! Lo sai che non mi sono mai piaciuti gli indovinelli, siccome essi mi fanno perdere la pazienza e la calma!» di contro, le gridò il re Cotuldo, mentre si lasciava prendere dalla stizza, la quale iniziava a divorarselo interiormente, dopo le convinzioni manifestate dalla sorella.

«Adesso devo ritirarmi nelle mie stanze e non ho più il tempo di spiegarti alcunché, fratello mio! Inoltre, di certo non prenderesti sul serio la mia opinione! I soli consigli che ti aggradano e ti soddisfano, come si sa, sono soltanto quelli del tuo fidatissimo boia. Dunque, ti conviene rivolgerti a lui, se desideri riceverne veramente di tuo gusto! Ciò chiarito, vi lascio in pace e mi ritiro!»

Dopo il suo ultimo intervento, la principessa Lerinda si congedò dai due marpioni con una certa sollecitudine, avendo deciso di impiegare il suo tempo in cose molto più utili, anziché stare a parlare invano con loro. Allora Croscione, non appena la sorella del sovrano si fu dileguata, rimanendo solo con lui, ebbe ad affermargli:

«Hai visto, mio re Cotuldo? Non ti dicevo forse il vero, quando ti ho fatto presente che la principessa Lerinda stava sognando? Come vedi, nelle mie acute osservazioni, non fallisco mai! Non mi rendo conto come ella abbia potuto immaginare un'assurdità del genere! Cosa c’entrano qui i tre forestieri da te ricevuti a corte alcuni giorni fa con la strage, la quale è stata compiuta dai Dorindani nella Piazzetta degli Antenati?»

«A rigore di logica, Croscione, non dovrebbe esserci alcun nesso! Ma se ci fosse davvero un pizzico di verità nell'ipotesi avanzata dalla mia sorellina? In quel caso, sai cosa ti direi? Che davvero dovremmo iniziare a preoccuparcene abbastanza seriamente, se non si prenderà in tempo un provvedimento contro i tre forestieri!»

Fu a quel punto che ebbe termine la conversazione fra il sovrano e il suo consigliere Croscione. Quest’ultimo, una volta che si fu congedato dal re Cotuldo, mentre se ne allontanava, non si mostrava per niente d’accordo su quanto egli aveva affermato. Secondo il suo parere, invece, i ribelli non sarebbero mai riusciti ad imporsi al loro agguerrito esercito. Come pure era convinto che nessuno mai in tutta Dorinda sarebbe stato capace di sfidarlo a singolar tenzone e di batterlo senza difficoltà!