134°-LA DOTTRINA DI LUCEBIO E IL SUO METODO D'INSEGNAMENTO

Lucebio, essendo dotato di una intelligenza geniale, oltre che di una singolare saggezza, era risultato un maestro eccellente nell'arte del vivere. Dopo averle sommamente elogiate, l’illustre docente si era dato a parlare bene ai suoi discepoli di tutte quelle virtù, che erano in grado di rendere un uomo spiritualmente ricco e completo. Nello stesso tempo, egli si era soffermato a criticare aspramente quei tanti difetti che, al contrario delle doti positive, rendevano l'uomo interiormente povero. Verso i quali il saggio uomo non si era astenuto dal manifestare la massima disapprovazione e dal provarne un grande ribrezzo. Perciò passiamo subito in rassegna le doti e i difetti che egli aveva trattato in modo approfondito. Così facendo, ci renderemo conto di cosa pensava delle une e degli altri, poiché egli si riferirà a loro con la massima schiettezza.

L'altruismo, secondo quanto insegnava l'illustre maestro, è una virtù nobile e rara. Esso fa diventare l'uomo intrinsecamente valido e lo aiuta a combattere i numerosi tumulti, che spesso gli si agitano nell'animo. Inoltre, lo infervora e lo spinge ad amare di più la vita, poiché gli fa avvertire beneficamente in ogni parte della persona l'appagante consenso della coscienza. Per l'uomo, quindi, sarebbe un guaio serio, qualora egoisticamente badasse soltanto a sé stesso. Se tutti agissero in questa maniera e si consegnassero totalmente nelle mani dell'egoismo o, peggio ancora, dell'egotismo, vedremmo l'umanità languire in un inaridimento di ogni valore di carattere etico e sociale. Così pure, se ogni persona cercasse di sottrarsi agli obblighi che lo legano agli altri esseri della propria specie, scorgeremmo l’intero genere umano rovinare nella propria autodistruzione con uno schianto tremendo e senza una possibile riabilitazione. Concludendo la sua lezione sull'altruismo, egli affermava che, se proprio un uomo non vuole essere un altruista, almeno tenga in mente le seguenti due regole, le quali sono molto importanti: 1) ognuno di noi deve evitare di arrecare al proprio prossimo quei danni materiali o morali che egli medesimo per natura tende a fuggire; 2) nella solidale cooperazione fra i singoli individui, è assicurato non soltanto il benessere della collettività, bensì pure quello di ciascuno di noi.

Parlando poi della difesa personale, Lucebio era di ferma convinzione che, se da una parte il bene deve essere ricompensato con il bene; dall'altra, bisogna reagire in giusta misura a chi ci arreca del male. Chi tollera una offesa senza reagire non c’è dubbio che si mostra ingiusto verso sé stesso e verso il suo offensore. Infatti, chi offende, ricevendo dalla parte lesa una reazione uguale e contraria, si convince di una grande verità. Come non è piacevole essere offeso da qualcuno, così neppure per gli altri non è bello ricevere delle offese da lui. Per questo alla fine se ne deduce che non esiste nessun caso in cui è giusto offendere il proprio prossimo. Anzi, uno ce n'è, nel quale possiamo reagire con il bene all'offesa, cioè quando siamo sicuri che chi ci ha offesi dimostra di avere nel profondo un animo nobile e sensibile. Ricambiandogli la sua offesa con il bene, suscitiamo in lui prima una grande mortificazione e, in un secondo momento, un ravvedimento sincero. Allora entrambe le cose sono da considerarsi le prime espressioni del suo ritorno alla ragionevolezza e alla saggezza. Riferendosi poi all'epiteto offensivo, secondo lui, il saggio lo ignora nella maniera più assoluta, anche perché esso viene sempre affibbiato ai suoi simili da individui che non hanno una propria personalità. In merito ad esso, è risaputo che più il nomignolo calza a pennello ad una persona, più le risulta offensivo e la rende irascibile come non mai. Per tale ragione, da parte nostra, la cosa migliore è evitare assolutamente di ricorrere ad offese ingiuriose, che di certo non risultano dei complimenti.

Che dire poi di coloro che sono soliti atteggiarsi a giudici degli altri, senza disporre dell'esatta valutazione di sé stessi? Essi non sanno che, quanto più approfonditamente ci dedichiamo all'indagine di noi medesimi, tanto più ci convinciamo che il tempo a nostra disposizione è insufficiente per cercare di correggere tutti i nostri difetti. Perciò come riescono talune persone a trovarne tanto, da permettergli pure di atteggiarsi a giudici degli altri? Dobbiamo persuaderci che essi vogliono ignorare i propri difetti, unicamente per prendersi la soddisfazione di criticare quelli degli altri, senza neppure rendersi conto di ciò che fanno. In questo modo, il loro appagamento non può che risultare futile ed effimero, dal momento che esso, presto o tardi, si tramuterà in un profondo dispiacere. Chi ha dei difetti, quindi, deve cercare di correggerli con ogni mezzo. Solo che, in un uomo, il maggior difetto è proprio quello di non adoperarsi per correggerli, ignorando che non si possono emendare i propri difetti, se prima non li si conoscono. Allora la sola maniera di pervenire alla loro conoscenza è quello di permettere agli altri di aiutarci a scoprirli. Difatti, mentre i difetti altrui ci si palesano meglio della luce del sole, i nostri ci si mostrano del tutto larvati. La qual cosa ce li fa risultare difficili da scorgersi ed impossibili da emendarsi. Questo è il motivo principale, per cui essi si fanno considerare da noi inesistenti oppure come se non fossero mai esistiti dentro di noi.

In relazione al tema della giustizia, Lucebio non escludeva dalla sua critica coloro che l’amministravano; anzi, nei loro confronti, egli si esprimeva molto severamente. Secondo lui, a cosa serviva scrivere nelle aule dei tribunali "La legge è uguale per tutti", quando poi essi erano gli unici a non venirne colpiti come gli altri, nel caso di un loro fallo? Ognuno paga di tasca propria, quando si rende responsabile di colpe più o meno gravi nell’esercizio delle proprie funzioni, indipendentemente dal fatto che i propri errori siano di natura colposa, dolosa o preterintenzionale. Paga il medico, che sbaglia un intervento chirurgico; come il conducente di un carro risarcisce il danno causato involontariamente ad altri. Allora perché non deve rispondere pecuniariamente anche il magistrato, quando gli capita di comminare una pena detentiva di tot anni a danno di un accusato che, a distanza di tempo, viene poi riconosciuto innocente? Quindi, la legge è o non è uguale per tutti? Solo quando i colpevoli sono i giudici, essa smette di essere uguale per tutti e non applica la giustizia con egualitarismo, come invece dovrebbe avvenire? Se sbagliare è una caratteristica degli uomini, risarcire i danni provocati ad altri anche deve spettare ad ognuno di loro, nessuno eccettuato. Ciò significa che lo Stato, che è rappresentato dalla collettività, non deve intervenire a favore di nessuno, allo scopo di porre riparo con somme di denaro agli errori da lui commessi. Perciò smettiamola di ingannare il popolo e facciamo valere la legge ugualmente per tutti, sia garantendo ad ogni cittadino gli stessi diritti sia pretendendo da lui l’assolvimento dei propri doveri.

Collegato al tema della giustizia, c’è quello riguardante le pene da comminare contro coloro che si rendono colpevoli di delitti più o meno gravi. Ebbene, Lucebio era del parere che, anziché stare a discutersi di una punizione equa, sono da studiarsi dei castighi che dissuadano i condannati da recidive. Come? Convincendoli che la cosa più saggia e più utile per loro è quella di evitare i delitti, poiché essi saranno i responsabili della loro condanna. Invece, se quest’ultima si rivela ai reclusi come qualcosa di piacevole e per niente punitiva, possiamo essere certi che non dispiacerà agli stessi ritornare a commettere i medesimi delitti. Il motivo? Con una pena annacquata, i delinquenti finiscono per considerare la reclusione un diversivo all’annoiante quotidianità della loro esistenza all’esterno del carcere. La qual cosa va a scapito di chi vive nella legalità e si adopera per fare il proprio dovere fino in fondo.

A questo punto, si ripropone anche il problema della condanna a morte, cioè bisogna decidere se è giusto oppure ingiusto applicarla nei confronti di quelli che si macchiano di orrendi omicidi. C’è chi afferma che nessun uomo ha il diritto di uccidere un altro uomo, la quale osservazione è una sacrosanta verità. Ma possiamo stimare un uomo colui che, intenzionalmente e premeditatamente, accoppa il suo prossimo con inumana ferocia? A parere di Lucebio, dopo aver commesso un delitto del genere, egli si è autodegradato, collocandosi da sé stesso nell'inferiore categoria delle bestie. Dunque, condannandolo a morte, si viene a uccidere non un essere umano ma semplicemente un'autentica belva. Ad ogni modo, soltanto in due casi l’omicidio è da giustificarsi, per cui chi lo commette non merita alcun tipo di pena, ossia quando si tratta di legittima difesa e quando è evidente la colposità dell’atto. In quest’ultimo caso, però, non si può escludere un’adeguata punibilità dell’omicida, se non si dimostra l’assenza di una sua preesistente colpevolezza, la quale gli abbia poi fatto commettere il delitto. Consideriamo il caso di un ubriaco che, sotto l’effetto dell’alcool, incoscientemente si rende colpevole di un assassinio. Egli, se non deve essere punito per il grave delitto da lui commesso, prescindendo dalla condanna a morte, va comunque punito a causa del proprio abuso di bevande alcoliche. Il quale non può non essere considerato aggravato dalla circostanza delittuosa.

Anche la verità, stando al pensiero di Lucebio, non è meno importante sia del bene che della giustizia. Purtroppo, essa scotta più del fuoco e trafigge più della lama della spada! Per la qual cosa, molte persone, quando possono, preferiscono tenersi alla larga da essa. La strada che conduce alla verità è alquanto ampia ed agevole; ma a chi tenta di raggiungerla sembra di stare a percorrere uno stretto sentiero irto di difficoltà e minato da agguati insidiosi. Ciò, perché negli uomini manca la ferma volontà di farla propria ed usarla, come vessillo del proprio retto comportamento. Questo loro incomprensibile atteggiamento è dovuto al fatto che essi hanno un timore tremendo della verità, poiché essa risulta lo specchio fedele delle loro colpe e dei loro difetti. È risaputa prerogativa della specie umana sbagliare nel modo più inconcepibile; però essa disdegna di farsi rinfacciare la loro evidente condizione di torto oppure di fallo. Per questo si irrita, al solo pensiero che qualcuno possa permettersi di farlo. Tale assurdo atteggiamento degli esseri umani può derivargli unicamente dalla ignoranza. Infatti, essi sono all'oscuro che l'assidua ricerca della verità procura un grande benessere interiore e la pacata serenità della propria coscienza. Specialmente se essa è condotta criticamente sulla propria persona, anziché sui propri simili, come siamo abituati a fare! Invece tutti dovrebbero sapere che la verità è l'unica luce della mente, siccome illumina e guida ogni nostro pensiero, rendendoci coscienti dei nostri difetti. Essa ci aiuta anche a correggerli e a superare egregiamente tutti gli ostacoli che incontriamo sul nostro cammino intrapreso a tale scopo. Messa in questi termini, la verità rappresenta, come per il nostro spirito così per la nostra anima, l'inestinguibile fiaccola della salvezza. Per cui cercare di allontanarla da noi equivale ad immergerci nel buio più fitto. Secondo il giudizio di Lucebio, quanto più la verità è difesa da parte nostra, tanto più si accresce in noi il processo perfettivo. Perciò bisogna ricercarla con tutti i mezzi a nostra disposizione, affinché essa venga fatta brillare e trionfare dentro di noi. Se sarà necessario, occorre difenderla a spada tratta, anche a costo del nostro supremo sacrificio!

Mille altre osservazioni dell’illustre maestro avevano ancora riguardato la condotta umana, intesa questa come sana esplicazione della personalità dell'uomo completo. Per questo c'era stata tutta una raccolta di virtù molto preziose, le quali erano da accogliersi da parte di tutti con molto fervore; nonché da coltivarsi con grandissima cura. Ma essa, nello stesso tempo, era stata anche una lunga elencazione di difetti da respingersi risolutamente oppure da reprimersi dentro di noi in via definitiva, al fine di rendere la nostra esistenza molto nobile e totalmente degna dell'essere umano. Perciò cerchiamo di dedicarci alla loro conoscenza, se vogliamo ricavare dal loro studio molto appagamento.


La modestia e l'umiltà, quando indossano l’abito della sincerità, fino a diventare parti sue intrinseche, vanno considerate delle vere ali dell'uomo. Esse, infatti, gli permettono di elevarsi facilmente alle vette della gloria duratura e anche di tenersi saldamente sull'onda del successo. Nel mondo ci sono parecchie persone, il cui numero per nostra sfortuna tende ad aumentare sempre di più, le quali sono abituate a valutarsi da sé, fino a considerarsi immensamente grandi. Sebbene esse non abbiano alcun difetto di vista, a causa di tale loro erronea supervalutazione di sé, tutti gli altri risultano ai loro occhi molto ridimensionati. Per tale motivo, l'orgoglio e l'alterigia finiscono per impadronirsi di loro. Anzi, le fanno accecare a tal punto, da renderle alla fine completamente incapaci di distinguere il vero dal falso, la ragione dal torto, il bene dal male, la luce dalle tenebre. Da ciò, possiamo dedurre che ci conviene tenerci distanti tanto dall'immodestia quanto dalla superbia, stando attenti a non farle attecchire nel nostro vanaglorioso comportamento quotidiano. Il quale, al contrario, deve impegnarsi esclusivamente a costruire un prezioso e proficuo rapporto innanzitutto con sé stesso e, secondariamente, con tutti quanti gli altri.

Al contrario, non bisogna farsi ingannare dai falsi modesti. Essi, nonostante manifestino all'esterno una modestia incredibile, dentro di loro invece si credono dei veri padreterni. Perciò, nella comunità in cui operano, si ritengono superiori a tutti gli altri, nonché indispensabili come nessun suo simile, pur non dandolo a vedere. Per fortuna tali persone sono facilmente individuabili, visto che il loro carattere è freddo e scostante, giammai incline alla socievolezza e alla disponibilità. Inoltre, se provate a dire ad uno di loro che non sa niente di niente e che farebbe meglio ad istruirsi, siatene certi che ne verrete assaliti con la ferocia della tigre, pur di indurvi al silenzio! La qual cosa ci aiuta a smascherarli senza alcuna difficoltà, ad allontanarli e a tenerli da parte. A tale riguardo, non va dimenticato che ci sono alcune eccezionali persone che riescono ad avere l'esatta valutazione di sé stesse. Per cui, quando esternano la loro bravura, non lo fanno mai per immodestia. Esse sono spinte a parlare delle loro straordinarie doti non per gloriarsene oppure per vantarsene; bensì lo fanno unicamente perché anche i loro simili ne vengano a conoscenza e ne fruiscano, in caso di necessità. Noi possiamo facilmente riconoscerle, per il semplice fatto che esse sono dotate di una semplicità fanciullesca e di un carattere sempre sereno e giulivo. Inoltre, il loro rapporto con gli altri è sempre basato sulla sincerità e sulla disponibilità assoluta, per cui quest'ultima dote li spinge a mettersi al servizio dei propri simili, senza pretendere in cambio da loro alcuna gratitudine.

Lucebio ci aveva tenuto ad esprimere il proprio pensiero morale anche sull’orgoglio. Nella natura umana, a suo parere, esso, da una parte, si presenta come un modesto pregio; dall'altra, invece, costituisce un grande difetto. La sua voce, però, era tuonata in particolar modo sull’uomo orgoglioso, ossia quello che eccede nell’abusare di tale sua caratteristica. La quale, se accettata in sé in quantità giusta, cioè lieve, può anche essere considerata nella condotta umana come un pizzico di sale che insaporisce la minestra. Comunque, non deve essere dimenticato che è lodevole essere orgogliosi di noi stessi e del nostro operato; ma a condizione che il nostro orgoglio non ci insuperbisca in maniera esagerata. In tal caso, esso erroneamente ci farebbe stimare delle persone indispensabili ed insostituibili, come se il destino dell’umanità fosse nelle nostre mani e dipendesse esclusivamente da noi. Per questo bisogna sempre avere il giusto concetto di noi stessi, ovverosia quello che ci fa reputare le persone che effettivamente siamo, senza mai idolatrare il nostro io individuale. Quindi, evitiamo di farci trasportare dal nostro orgoglio, quando ci spinge ad avere un ruolo che non ci compete, risultando esso superiore alle nostre capacità. Se glielo permettessimo, arriveremmo perfino ad interpretare indegnamente il personaggio che nella realtà non siamo e non potremo mai esserlo sul palcoscenico della vita. Infine avremmo a pentircene presto, considerato che, alla prima occasione, ci starebbe ad attendere dietro l’angolo una grave e indimenticabile figuraccia. Una cosa simile calzerebbe a pennello al nostro fare oltremodo presuntuoso, quello che sarebbe stato meglio evitare!

Anche la sincerità va considerata una magnifica dote, la quale dovrebbe corredare l'intera esistenza umana. Essa rappresenta per la nostra anima ciò che l'ossigeno si dimostra per i nostri polmoni. Tale essenza spirituale respira molto meglio, se la nutriamo con atti improntati a genuinità sentita. La qual cosa dovrebbe spingerci continuamente ad essere schietti non soltanto con gli altri, ma in particolar modo nei nostri confronti. Spesse volte il nostro egoismo tende a trascinarci in un baratro tenebroso, privo della verità nel modo più assoluto. In questo caso, la sincerità con noi stessi, più di qualunque altra cosa al mondo, diventa un efficace antidoto contro l'egoismo e contro il narcisismo. Perciò asteniamoci dall'ingannarci nel nostro intimo, mostrandoci soprattutto leali con la nostra persona. Soltanto comportandoci in questa maniera, eviteremo di compromettere in noi il trionfo della verità. Comportandoci così, giammai smarriremo la preziosa strada che ci consente di pervenire alla suprema giustizia.

Lucebio non aveva omesso di parlare neppure dell’ignoranza. Secondo lui, possiamo facilmente superare tale stupido difetto, a patto che non si pecchi di un orgoglio esagerato. Anche su tale argomento, egli faceva varie osservazioni, che vengono riportate qui di seguito. Capita alquanto spesso che chi ignora qualche nozione si rifiuta di ammetterlo con pacata umiltà, poiché è ignaro che, in tale suo atteggiamento, si cela l'ignoranza peggiore che ci possa essere sulla terra. Non è affatto immaginabile che una persona, la quale tende a nascondere l'ignoranza che torreggia dentro di sé, possa poi facilmente guarirne e procurarsi la saggezza. Come si sa, se prima non giungiamo alla chiara consapevolezza di una nostra lacuna, giammai da parte nostra ci si può adoperare per colmarla. Brancolando tastoni nel buio più cieco, mai nessuna persona viene a capo di niente, tanto meno si impossessa della pregiata verità. Quando invece in noi preesiste la consapevolezza della nostra ignoranza, accanto ad essa scorgiamo pure, solerte ed incrollabile, quello stimolo interiore che ci sprona senza soste a cercare di superarla in noi stessi a qualsiasi costo. A detta di un filosofo, sapere di non sapere costituisce, per ognuno di noi, il preambolo per assicurarci la vera conoscenza. La quale, senza alcun dubbio, è da giudicarsi la sola cosa capace di guidarci nella nostra grande lotta contro l'abietta ignoranza. In relazione a ciò, Lucebio concludeva, affermando che ogni persona non può non considerarsi ignorante, per il semplice fatto che lo scibile umano è troppo vasto, perché qualcuno di noi possa dominarlo nella sua interezza. Dunque, non offendiamoci minimamente, quando altri ci danno dell'ignorante, essendo la qual cosa la pura verità.

Anche l'invidia si presenta un difetto da non sottovalutare, per cui occorre evitare di considerarla con molta superficialità. Infatti, proprio quando meno ce l'aspettiamo, essa può fare scatenare nel nostro io una voglia silente difficilmente controllabile di commettere i reati più tremendi. Se ne siamo colpiti in modo blando, possiamo considerare un sentimento del genere un fatto naturale. In questo caso, ci è consentito di non dare all’invidia un peso eccessivo, visto che essa si limita soltanto a far nascere nel nostro intimo l'innocuo desiderio di possedere anche noi quanto è in possesso degli altri. Sovente, però, l'invidia diventa in noi una disposizione d'animo terribilmente malevola, oltre che odiosa. Allora dobbiamo preoccuparcene abbastanza seriamente, dal momento che essa potrebbe suscitare nel nostro fragile intimo l'irrefrenabile impulso ad ideare e a perpetrare i peggiori delitti, senza escludere neppure l'omicidio. Per tale ragione, quando vediamo che qualcuno ha dei pregi o beni materiali di cui noi risultiamo privi, non facciamoci affatto prendere dall'invidia, pur non mancandoci il desiderio di possederli. Sarà meglio convincerci che possono già bastarci le qualità e le cose che sono realmente in nostro possesso. Comportandoci in questo modo, sopprimiamo in noi qualunque brama che possa spingerci a volere ad ogni costo tutto quanto la sorte ha voluto che risultasse di proprietà degli altri. Tale saggia convinzione, se la consideriamo nella giusta direzione, quasi sempre ci permetterà di condurre una esistenza abbastanza serena e non ci farà trascorrere delle giornate tremendamente intossicate e altrettante notti maledettamente insonni!

Quindi, ogni volta che abbiamo la possibilità di farlo, non esitiamo a sostituire l'invidia con l'emulazione, la quale può tornarci molto utile. Difatti essa riesce quasi sempre a dare alla nostra vita un senso e un valore, che sono giustamente meritevoli di lode. Un conto è restarcene ad invidiare gli altri, solo perché hanno fortune e tanti pregi, nutrendo magari nei loro confronti sia astio profondo che intenzioni malvagie. Un altro conto, invece, è avvertire dentro di noi il desiderio di uguagliare o di superare le doti positive possedute dai nostri avversari. Magari ci sarà utile adoperarci in modo instancabile, pur di riuscire il più possibile nella nostra ambizione. Facendoci possedere dall’invidia, ci mostriamo senz'altro delle persone inattive e capaci solo di pensare come procurare del male agli altri. Dandoci invece all’emulazione, diventiamo dei soggetti attivi ed operosi. Inoltre, nobilitiamo la nostra condotta e ci garantiamo nella nostra società un posto, che alla fine potrà essere considerato di tutto rispetto. Naturalmente, perché un fatto del genere si avveri appieno, la nostra concorrenza e anche il nostro impegno devono sempre risultare leali e totali. Inoltre, giammai un eventuale insuccesso deve trascinarci nel baratro della definitiva rinuncia oppure della depressione, meno ancora nell'immotivato disprezzo di noi stessi. Perciò in ogni circostanza, rendendolo sempre possibile, ci è utile affrontare ogni nostra lotta e qualunque nostra gara con spirito agonistico e con l'animo dello sportivo. A patto, però, che non dimentichiamo che la bravura e l'impegno zelante dei nostri avversari vanno sempre sportivamente rispettati!

Ci capita a volte di essere assaliti da quel comune difetto abbastanza insidioso, che ognuno conosce con il nome di accidia. La quale perlopiù si instaura in noi, dopo che abbiamo subito una sconfitta oppure una disavventura. Ma più spesso ne veniamo assaliti dopo un torto ingiustamente ricevuto da parte di altri. Allora diventiamo parecchio indolenti, siccome ci sorprende una noia più o meno grande verso ogni cosa che si trova dentro e fuori di noi. Non manca neppure l'occasione di mostrarci depressi e malinconici. Ci ribelliamo perfino alla nostra esistenza, nella quale oramai abbiamo smesso di avere fiducia, poiché non la reputiamo più il campo di azione dei nostri progetti e delle nostre speranze. Alla fine l'abulia e l'apatia riescono facilmente a far breccia nel nostro spirito. Anzi, esse iniziano a fiaccarlo a tal punto, da fargli venire a mancare perfino la forza di reagire, unitamente a quella di reinserirsi in modo costruttivo nella realtà che lo circonda e lo fa esistere. Invece non dobbiamo cedere all'ignavia; bisogna reagire ad essa con quella energia, la quale può provenirci unicamente dall'attività e dall’operosità.

L'azione è la medicina adatta a guarire ogni forma di grave pessimismo, qualunque sia la causa che lo ha determinato. L'attività ci fa pure superare qualsiasi ostacolo di natura sia psichica che spirituale. Essa, dopo averceli fatti prima ignorare interamente, in seguito ci permette di affrontare in modo risoluto una ingente quantità di impatti psicologici, a cominciare da quelli che riescono ad influire negativamente sulla nostra personalità, la quale risulta ormai alla deriva. In questo caso, Lucebio raccomandava che, quando siamo bombardati da momenti molto difficili, bisogna evitare di arrenderci alle prime avversità. Reagendo ad esse con tutta la nostra volontà, dobbiamo cercare di dimostrarci quanto più possibile dinamici e dediti ad ogni intraprendenza possibile. Esclusivamente se combattiamo la nostra battaglia con esuberante volitività e senza mai rinunciare ad essa, possiamo essere certi che giammai affonderemo nell'umiliante disistima di noi medesimi. Inoltre, non correremo il rischio di trovarci a mortificare ancora più gravemente la fine sensibilità del nostro nobile spirito. Esso riesce ad agire meglio, quando abbiamo una grande fiducia in noi stessi.

Accennando alla forma e alla sostanza, in qualità di presupposti di ogni attività umana, Lucebio affermava che quasi la maggioranza degli esseri umani, quando si attivano in un loro progetto, si soffermano più sull'atto formale che non sulla reale consistenza delle cose. Ossia, tengono più all'etichetta, anziché al loro comportamento in sé. Tali persone, per un loro principio, non danno alcun peso alla sostanza delle cose. Al contrario, esse si mostrano schiave di un vuoto formalismo, che sarebbe da definirsi addirittura maniacale. Per tipi di tal genere, l'aspetto esteriore, come pure le forme dette convenzionali, finiscono per diventare i presupposti essenziali della loro condotta. Soprattutto essi diventano problemi di capitale importanza della loro esistenza misera e travagliata. Gli amanti della forma fanno basare l'intera loro vita sull'inviolabile motto "Cercare di apparire, prima di essere!". In considerazione del quale, essi giammai rinunciano al loro modo di condurre la propria esistenza. Forse nemmeno in cambio di tutto l'oro del mondo! Sebbene i formalisti siano a conoscenza che è solo l'essenza di un atto o di una cosa quella che principalmente ha valore nella vita e non il loro insignificante modo di presentarsi agli altri, lo stesso preferiscono non tenerne conto. Agendo così, diventa più facile mascherare la futilità del loro operato e del loro comportamento. Inoltre, si evita che la pura inconsistenza dei loro prodotti venga notata ed acremente criticata dai loro simili. Invece quegli uomini, che dimostrano di avere un reale senso pratico in ogni cosa che fanno, non si danno mai ad un vacuo formalismo. Per cui riescono sempre a perseguire agevolmente fini ben più consistenti e altamente nobili. Ma per raggiungere tale traguardo, essi mirano alla concretezza, badando essenzialmente al realismo dei fatti. Inoltre, sono convinti che, comportandosi in quella maniera, un giorno la loro scelta concreta e pratica non potrà mai smentirli su nessuna cosa. Al contrario, essa sarà capace di procurargli solamente la massima soddisfazione possibile.

Restando la sua discettazione su un tema analogo al precedente, Lucebio ci aveva tenuto a chiarire che, in tutto ciò che facciamo, non bisogna mai dimenticare che la pratica, sempre ed ovunque, è da preferirsi alla teoria. Anche se la parte teorica ha la sua importanza, per cui non è mai da rigettare in toto, noi, nella realizzazione delle cose che facciamo, dobbiamo affidarci in primo luogo all'atto pratico. Nell’attuare un progetto o nel condurre a termine un elaborato processo di qualsiasi natura, il nostro atteggiamento deve cercare di ancorarsi alla pratica, privilegiandola sempre e in ogni senso. Nel suo valore intrinseco, ciò vuol dire che, nella messa in opera di un’attività da noi programmata, non bisogna mai assegnare l’esclusiva preminenza a nessuna forma di arido schematismo, siccome questo potrebbe risultare soltanto sterile ed astratto. A tale proposito, spassionatamente va detto che essere pragmatici assoluti e rigorosi può farci evitare di riscuotere insuccessi e delusioni tanto dal nostro impegno quanto dal nostro lavoro.


I suoi allievi avevano sollecitato Lucebio ad esprimersi anche sui problemi legati al sesso e alla sessualità. Per questo l'insigne maestro aveva approfittato per arricchirli del suo prezioso contributo anche sotto quel delicato aspetto. Secondo il suo autorevole pensiero a tale riguardo, innanzitutto bisogna iniziare a sfatare taluni pregiudizi sugli organi copulatori della specie umana, nei confronti dei quali non pochi religiosi e moralisti hanno spinto la gente a nutrire. In merito, va subito fatto osservare che non ci si mostra altrettanto con rigore verso il sesso degli animali. Inoltre, fra i vari organi del corpo umano, non si riesce a capire perché solo contro i genitali è stata condotta nel tempo una vera guerra santa, additandoli come fonte di impudicizia e di peccato. Perciò tenerli scoperti in un qualsiasi luogo diventa una offesa contro il pudore e contro la morale, più specificatamente contro la religione. Quasi essi costituissero la parte del corpo umano più obbrobriosa e marchiata di una vergogna incredibile ed insanabile! Invece gli organi della riproduzione, essendo generatori della essenza vitale e responsabili della perpetuazione della specie umana, non dovrebbero essere infamati e ritenuti peccaminosi, come sempre avviene in varie circostanze. In un essere vivente, essi costituiscono la parte preminente e più degna di considerazione, poiché esplicano la nobile funzione di generare altre entità della stessa specie dei due soggetti che ne fanno uso ad hoc, al fine sia di riprodursi che di divertirsi. Se non ci fosse l'eccitazione e il divertimento, neppure ci sarebbe l'erezione del pene, grazie alla quale viene resa possibile l'introduzione degli spermatozoi nella vagina per permettere la fecondazione nella donna e la nascita di un nuovo essere umano.

Quanto alla sessualità, la quale è anche permessa da tali organi, bisogna smettere di demonizzarla e di considerarla un'attività scandalosa da alcuni e peccaminosa da altri, quando essa è praticata al di fuori del matrimonio o in età adolescenziale. Così pure l'autoerotismo, in qualunque modo lo si voglia intendere, è un sacrosanto diritto della persona umana. Perciò, se lo si considera un qualcosa di impuro oppure addirittura un peccato, dobbiamo ammettere che si tratta di un mero sadismo da parte di coloro che cadono in un simile grave errore. Essi dimostrano di avercela con l'intero genere umano, volendo vederlo soltanto schiavo della sofferenza. Al contrario, il piacere sessuale, rispetto agli altri, è l'unico dispensato gratuitamente da madre natura, per cui se lo può permettere anche chi non ha un soldo da spendere. Si tratta di uno dei pochi casi concreti, nei quali non vengono ad esserci preferenze tra l'indigente e il facoltoso, tra il debole e il forte, tra il bello e il brutto, siccome così ha voluto la creazione divina. Nel fare sesso, Lucebio consigliava ai due partner di raggiungere l'orgasmo con il minimo dispendio di energie. La qual cosa significa che bisogna applicarsi nell'atto amoroso più psichicamente che fisicamente. In questo modo, infatti, a differenza degli animali, riusciamo a conseguire due obiettivi importanti: minore fatica e maggiore godimento. Non parliamo poi di quelle persone folli, le quali prima fanno il voto di castità, autocastrandosi psicologicamente e contro natura, e dopo vorrebbero vedere l'atto sessuale finalizzato esclusivamente alla procreazione. Per cui fanno apparire turpe e sacrilego il godimento fisico e psichico del nostro corpo, quando proviene dal sesso. Invece si commette peccato, soltanto nel caso in cui si reca del male al prossimo e in nessun’altra circostanza. Quindi, poiché fare all'amore procura piacere e godimento a sé stesso e al suo partner, l'attività sessuale, se non provoca sofferenza in altre persone, non deve essere scelleratamente ritenuta peccaminosa.

Neanche la trattazione del problema religioso e del suo rapporto con l’atto educativo era stata trascurata nell'insegnamento di Lucebio, visto che egli, pure in quel campo, era stato sollecitato dai suoi allievi ad esprimere il proprio parere in merito. Secondo lui, qualunque educazione, se vuole essere valida, deve contemplare anche il problema religioso. Ogni educatore deve potere esprimere, in un simile argomento di per sé assai sentito, il proprio libero pensiero, il quale però in nessun caso dovrà essere imposto ai propri teneri discenti come pura e sacrosanta verità. Un problema del genere, dunque, non può che partire dalla preminente premessa che l'imponente universo, perfetto come si presenta, non può essere considerato un mero qualcosa che si è autocreato. Allora ne consegue, per logica e non per fede, la chiara constatazione che solamente una entità superiore ha potuto crearlo. La quale, in pari tempo, si è presa la briga di creare con esso pure le piante, gli animali e l'uomo. Comunque, unicamente all'essere umano ha voluto conferire l'intelligenza e la ragione, poiché egli rappresenta l'entità più significativa esistente nell'universo. Per questo la medesima divinità pretende dal solo uomo l'assolvimento assoluto di tutti i suoi doveri; ma prima essa si è incaricata di proporgli alla nascita l'inevitabile alternativa del bene e del male. Scegliendo il primo, egli si assicura un premio adeguato nella sua vita ultraterrena; al contrario, preferendo il secondo, si deve aspettare nell'aldilà una congrua punizione dal suo creatore.

Le varie religioni devono essere considerate sostanzialmente uguali, poiché ognuna finalizza la sua encomiabile opera al Creatore Supremo. Se ci mettiamo ad approfondirle tutte, ci si rende conto che sono le loro espressioni esteriori a farle apparire diverse tra di loro. Ciò è dovuto al fatto che esse si sono sviluppate in aree geografiche con culture profondamente differenti. Quindi, è importante che ci sia in ogni uomo l'accettazione di una religione, a patto che essa non lo induca al folle fanatismo. IL sentimento religioso è in grado di guidarlo perfettamente perfino nella moralizzazione dell'intera sua vita pubblica e privata. Il madornale errore di ogni religione è quello di considerarsi l'unica investita dall'Ente Supremo della propria missione religiosa presso i fedeli che la professano. Per cui dichiara che solo essa gode del suo favore. Invece tutte le altre religioni non seguono la retta via da lui indicata, ossia quella che permette di conseguire la salvezza e la gioia eterne. A parere di Lucebio, se ci fosse un tribunale divino, tutti i capi religiosi verrebbero condannati per millantato credito, siccome l'Ente Supremo non ha mai assegnato a nessuna religione il diritto esclusivo di predicare in suo nome. Tanto meno ha garantito ai soli suoi seguaci un premio spirituale adeguato alla condotta assunta durante l’intera sua vita terrena. Per lui, basta la sola scintilla del bene e della giustizia, che egli fa trovare in ogni essere umano fin dalla sua nascita. In questo modo, ciascun uomo può salvarsi senza aver bisogno dell'aiuto di qualcuno. Anzi, quest'ultimo non potrebbe mai servirgli a niente, essendo la salvezza di ognuno di noi soltanto nelle nostre mani e nel nostro operato. Infatti, essa si ottiene con le nostre azioni da vivi, quando sono conformi ai voleri del Sommo Creatore. Infatti, dopo che siamo morti, non ci sarà più possibile pentirci. Perciò non potranno essere gli altri, con varie assurde funzioni, a recarci un qualsiasi tipo di refrigerio dell'anima.


I due piatti forti della dottrina di Lucebio erano stati il discorso sulla libertà e quello sulla schiavitù, il quale era ad esso collegato. A tale proposito, egli predicava che la libertà, oltre ad essere un bene prezioso per l'uomo, è anche un suo diritto sacrosanto, inalienabile ed irrinunciabile. Le divinità hanno creato l’uomo completamente libero, appunto per farlo esprimere in piena autonomia in tutto ciò che fa, persino nel procurare del male al suo prossimo. Anche se poi egli è tenuto a rendere conto del proprio operato in questo mondo ai suoi simili e nell'altra vita all'Ente Supremo, che lo ha creato. L'uomo, dunque, è un animale preminentemente libero, prima di essere considerato socievole e ragionevole; né lo si può concepire in maniera diversa. Egli trae dalla libertà la sua forza primaria, che è la creatività, di cui egli si serve per valicare i confini del tempo e dello spazio. L'atto creativo, perciò, gli occorre per potersi proiettare nel remoto futuro, come originale autore di progresso e di civiltà. Soprattutto esso gli permette di nobilitare al massimo la propria essenza spirituale, essendo essa entrata a far parte di lui fin dalla nascita, insieme con il suo primo vagito. Quando l’essere umano conduce una vita da schiavo, essa finisce sempre per ottundergli l'ingegno. Nello stesso tempo, le altre facoltà mentali vanno incontro ad un inaridimento totale. Alla fine, costretto all'impotenza espressiva, egli strapiomba nel baratro della barbarie, dove la sua esistenza non può che risolversi in un abbrutimento della personalità, considerata nella sua interezza. Ad ogni modo, Lucebio ci teneva a precisare che l’uomo può reputarsi davvero libero, specialmente quando non si asservisce ad alcun credo ideologico, sia esso politico o religioso. Professare l’uno o l’altro significa giurare di seguirlo ad ogni costo. Così facendo, egli rinuncia alla propria personale libertà, siccome è obbligato a pensare e ad agire, per coerenza o per fede, subordinatamente al credo professato. È ammesso solo l’obbligo morale, il quale, intaccando la sola libertà deviante della persona umana, favorisce la costituzione di una società civile, democratica e sana sotto qualunque aspetto.

Dalla libertà e dalla schiavitù di un singolo individuo a quelle di un intero popolo, il passo era risultato breve, oltre che obbligatorio. Secondo il punto di vista di Lucebio, in nessun caso un popolo deve essere privato della libertà di gestire la propria tradizione linguistica, culturale e religiosa. Per questo non ci deve essere alcuna indebita ingerenza da parte di un altro Stato, allo scopo di limitarne la sovranità da esercitare sul proprio territorio. Così pure esso non deve soffocare la libera espressione di qualche aspetto legato alle sue usanze e alla sua tradizione. Allo stesso popolo, insieme con la libertà, deve essere garantita dagli altri stati soprattutto l'autodeterminazione, a meno che essa non pregiudichi la sicurezza delle altre sovranità territoriali confinanti. Il potere di autodeterminarsi gli verrebbe senz'altro a mancare, se altri popoli invasori lo conquistassero in modo iniquo e gli imponessero ignominiosamente il loro schiavizzante dominio. Ecco perché, là dove i sacri diritti di un popolo vengono gravemente lesi e calpestati con la prepotenza, è dovere imprescindibile della sua intera collettività armarsi fino ai denti ed intraprendere la via del riscatto. Essa dovrà opporsi all'abominevole sopraffazione straniera, impegnandosi in una lotta senza quartiere, fino a quando non avrà ottenuto il suo totale debellamento. Ecco perché deve diventare un obbligo morale, per ciascuno degli individui di un popolo oppresso, rivoltarsi e prendere parte attiva all'insurrezione armata.

Quindi, è dovere di ogni popolo sopraffatto abbattere il suo dispotico oppressore e riconquistare con onore la perduta libertà. Magari, se dovesse essere necessario, anche votandosi al supremo sacrificio! Infatti, in mancanza di una sollevazione, l'insostenibile schiavitù priva un popolo della sua preziosa facoltà tanto di autodeterminarsi quanto di autogovernarsi. Inoltre, finisce per annientare nel singolo cittadino sia la libera iniziativa sia la libertà di espressione. Per lui entrambe le cose costituiscono la pregiata linfa vitale, dal momento che lo preservano in ogni tempo da qualunque forma di imbarbarimento e di inciviltà. Specialmente ne salvaguardano la integrità e la identità personale. Qualsiasi popolo deve responsabilmente assumere l'identico atteggiamento, anche quando la sopraffazione e il conseguente sopruso, anziché da uno stato straniero, gli provengono dal proprio sovrano. In quel caso, di propria iniziativa, egli ha deciso di assumere la funzione di un vero dittatore dedito a sopprimere la libertà.

Quanto alla politica, Lucebio era poco interessato ad essa, non avendo mai sentito l’esigenza di essere un vero uomo politico. Ma metteva in guardia coloro che la facevano, affermando: “Nel vostro darvi da fare, ci sarà sempre lotta di potere e non di politica, fino a quando non saprete riconoscere nei vostri avversari anche il loro lato buono. È mai possibile che unicamente i vostri giudizi sono esatti a trecentosessanta gradi, mentre quelli dei vostri avversari sono errati pure a trecentosessanta gradi?” Comunque, egli propendeva per un governo che fosse ispirato ad una democrazia piena, che fosse in grado di riscattare il cittadino da ogni forma di dispotismo. Perciò il suo spirito democratico poteva essere riassunto nel seguente aforisma, che egli era solito citare ai suoi discepoli, i quali lo accoglievano volentieri: "La democrazia è bella perché rende ciascuno di noi libero di manifestare le proprie idee. Ma essa smette di esistere là dove ci arroghiamo il diritto di imporle agli altri, senza che essi le accettino spontaneamente. In tal caso, la nostra libertà diventa una sopraffazione nei loro confronti. Comunque, il rispetto per le idee altrui non deve vietarci di esprimere le nostre." Infine, sempre in riferimento alla democrazia, egli ammoniva che, quando un governo democratico si dimostra impotente a proteggere la nostra libertà dalla delinquenza comune oppure dalla malavita organizzata, allora è preferibile essere calpestati dalla dittatura. Almeno in quel caso non veniamo massacrati da una democrazia che è incapace di farci sentire uomini liberi di fronte ai nostri simili.

Nelle varie discettazioni di Lucebio, anche la professione dello scrittore era venuta ad assumere un ruolo primario. Spettava a lui, infatti, erudire un popolo e trasmettergli il proprio pensiero morale, politico, religioso e di ogni altra natura. Perciò aveva indicato anche le caratteristiche che egli avrebbe dovuto possedere, affinché la sua opera risultasse degna di essere seguita e assimilata dai suoi lettori. A suo parere, l’arte dello scrivere non è alla portata di tutti. Un vero scrittore, per considerarsi tale, deve dimostrare di avere i tre seguenti requisiti: chiarezza, immediatezza e saggezza. Attraverso il primo, egli si fa comprendere dal lettore; attraverso il secondo, lo avvince e lo conquista; attraverso il terzo, lo arricchisce con il proprio messaggio etico o ideologico. Quindi, non può reputarsi un vero scrittore chi, nello scrivere, non tende a perseguire tutti e tre i citati obiettivi, che qui si ribadiscono: 1) farsi intendere dal lettore, senza difficoltà alcuna; 2) suscitare in lui un grande interesse per la lettura; 3) potenziarne le facoltà dello spirito. Quando ciò non si verifica nei suoi testi letterari, i suoi scritti, anche se in un dato momento vengono graditi da una parte dei lettori, dovranno essere ritenuti esclusivamente un insieme di parole vuote. Infatti, esse risultano scritte soltanto per essere gettate al vento oppure per essere dimenticate, dopo che è trascorso appena un giorno dalla loro lettura. Per concludere, una grande opera letteraria, prima che dalla perfezione linguistica, è data da un profondo sentimento e da una creatività inesauribile. Perciò lo stile linguistico deve essere considerato in subordine all'uno e all'altra.


Nel campo della conoscenza, Lucebio si autodefiniva un empirista; però aveva elaborato tutta una sua teoria, la quale attribuiva alla psiche umana un valore fondamentale ed inestimabile. Perciò il suo pensiero a tale riguardo si adeguava totalmente ad essa. Lo constateremo tra poco, quando passeremo ad esplicitarlo in modo appropriato e sintetico.

Secondo il suo pensiero, le sensazioni, che sono i contenuti rimossi del nostro inconscio, non ci provengono da esso in forma diretta e lampante; bensì vanno prima incontro ad una elaborazione intrinseca nell’ambito del subconscio. In quest’ultimo, innanzitutto esse vengono agganciate da cariche pulsionali, sull’onda delle quali riescono poi sia a farsi leggere in chiave fenomenica sia a farsi captare dalla nostra attività sensoriale. Ad ogni modo, le sensazioni non diventano ancora materiale sensitivo, se prima non vengono assoggettate alla revisione della nostra psiche. Quest'ultima, da parte sua, si dà così ad implementarle, supportandole di taluni processi empirici, i quali si manifestano alla fine idonei ad estrinsecarle nella maniera giusta, concreta ed appropriata. Come possiamo prendere atto, solo dopo che sono stati rielaborati nell’essenza psichica, i contenuti dell’inconscio diventano autentiche sensazioni, ossia atti permeati di concretezza e non più eludibili da parte della realtà. Grazie ad esse, gli esseri viventi diventano reali a sé stessi e al proprio mondo, assaporano l’evolversi effettivo della propria esistenza ed esternano la propria qualità neurovegetativa in forma appercettiva. Così riprogrammano la propria capacità di determinarsi, in base alla situazione del momento e ai nuovi fenomeni che vengono ad investirli positivamente. Solamente dopo tali processi, l’uomo, il quale è da considerarsi il primo nella gerarchia degli esseri viventi, comincia a vivere le personali sensazioni a vari livelli. Perciò a volte le gestisce in modo da appagare le proprie esigenze interiori; altre volte, invece, le finalizza al conseguimento delle più alte vette della propria evoluzione, tanto di quella concreta quanto di quella astratta.

Anche al tempo cronologico Lucebio attribuiva un significato sui generis, ma singolare nella sua concettualità. Per questo esso non poteva far dare di sé una diversa interpretazione, come qualcuno potrebbe essere tentato di credere. Ce ne renderemo conto senza dubbio, seguendone attentamente il processo, attraverso una sua esposizione sintetica. La quale viene qui riportata, perché noi possiamo prenderne atto.

Il tempo, secondo il suo pensiero, è l'essenza invisibile dell'universo, che vi si proietta all'infinito, inseguendo un futuro irraggiungibile. Nel momento stesso che crede di averlo raggiunto, esso si ritrova a vivere una realtà appartenente ad un presente, che sta già diventando passato. Dunque, non esiste una realtà che possa essere collocata nel futuro, a meno che non sia il nostro pensiero oppure un nostro desiderio a mettercela secondo le proprie esigenze. Comunque, lo scopo della sua reale esistenza è quello di dare origine all'eternità, con tutta la sua valenza di inesauribile fonte dell'essere nel suo fluire cosmico ed inattaccabile dalla materia. Nessuno dei nostri cinque sensi è capace di captarlo, mentre esso sovrasta ogni cosa ed ogni essere con la sua avanzata inarrestabile, registrandone le incessanti ed inavvertibili trasformazioni. I fatti e i fenomeni del concreto reale diventano così fotogrammi di una unica sequenza temporale. La quale li va inglobando e proiettando verso nuovi cambiamenti, che non smettono mai di essere fino ad un tempo indeterminato. Essi attestano, contemporaneamente, il loro divenire e il loro scadimento, i quali si vanno sfaldando in forme sempre più deteriorate e desuete. Poter galoppare il tempo e ripercorrerlo a ritroso sarebbe come rivivere il nostro trascorso presente e rivisitarlo in tutti i suoi squarci esistenziali già con una loro conclusione. Infatti, ciascuno risulterebbe intenso di episodi pullulati in seno alla psiche umana o zeppo di interventi operati dall'azione dei fenomeni naturali. Insomma, significherebbe ritornare ad essere i noi stessi di una volta, ridiventando attori del nostro passato e programmatori del nostro futuro. In questa maniera, però, l'uno e l'altro tempo ci riconsegnerebbero al nostro esistere che fu, quello che si dimostrò straordinariamente ricco di eventi e di opere, di cui risultammo gli artefici sia nella buona che nella cattiva sorte. Ad ogni modo, bisogna convincersi che non lo si potrebbe mai fare ritornare nel reale presente.

Lucebio non si astenne dall'interessarsi anche della complicata evoluzione dell'essere vivente, sia esso umano, animale o vegetale. Riguardo alla quale, egli espresse il suo genuino pensiero, che è quello riportato qui appresso.

Ogni essere vivente e non vivente, considerato nella sua natura originaria, prima o poi, è destinato a perire, cioè a non esistere più nella propria realtà. Magari avrà modo di perpetuare la propria esistenza, trasformandosi in una nuova entità, costitutivamente e qualitativamente del tutto differente dal prototipo da cui esso stesso è derivato. Anche l’uomo segue il suo iter evolutivo, il quale però è a doppio binario: l’uno è quello dell’evoluzione biopsichica e l’altro è quello dell’evoluzione intellettiva. Il processo evolutivo del primo non è sempre ascendente e positivo. Ad un certo punto dell’arco della sua vita, si arresta ed inizia per esso la fase discendente e degenerativa, a causa dell’invecchiamento delle sue cellule. Il processo evolutivo del secondo, invece, continua all’infinito e si tramanda ereditariamente alle generazioni future. In questo modo contribuisce all’incremento del progresso e alla definizione della civiltà presso una società. Prendendo in considerazione la natura psichica dell’essere umano, essa lo stesso avanza per gradi; però non presenta nitidamente la sua linea di demarcazione. La quale dovrebbe farci comprendere senza errori dove termina la sua fase positiva e dove comincia quella negativa. Ciò, probabilmente perché non per tutti gli esseri umani sono uguali il suo tempo di comparsa e i suoi diversi modi di esplicazione. A un dato momento, le ingiurie del tempo diventano più marcate ed evidenti. Per cui, insieme con il decadimento del corpo, inizia il declino di alcune nostre facoltà, come quelle sensoriali, percettive e mnemoniche. Allora subentra in noi la incapacità di svolgere alcune attività e funzioni, restringendoci il campo dell’esistenza fattiva, fino a pregiudicarci la nostra stessa volontà di essere e di estrinsecarci. Dentro di noi, perciò, avvertiamo che ogni cosa sta per finire, poiché lo scialbo bagliore dell’avanzante crepuscolo si delinea sul nostro orizzonte come imminente demolitore di ogni ricordo, di ogni desiderio e di ogni emozione vissuta nel nostro passato a qualunque titolo.


Entrando nell'argomento che possiamo definire più prettamente pedagogico-didattico, la dottrina di Lucebio aveva riguardato principalmente il difficile rapporto docente-discente e il metodo di insegnamento. Secondo il suo autorevole pensiero, l'opera educativa può ottenere dall'insegnamento i suoi frutti migliori, se si fonda su un rapporto affiatato e sincero tra l'abile educatore e l'allievo a lui affidato. Esso, però, viene ottenuto, soltanto quando il docente ha una conoscenza affettiva dei propri alunni, poiché in questo unico caso egli si presenta in grado di aiutarli nella loro crescita psichica e spirituale. Se l'insegnante vuole conseguire una tale conoscenza, non deve compiere alcuno sforzo, siccome gli basta ritornare ad essere nella sua interiorità il bambino che è stato un tempo. Già al primo contatto con i suoi allievi, aiutato dal ricordo della propria vita trascorsa nell'infanzia, l'educatore deve innanzitutto cercare di svuotarsi di quanto lo rende palesemente adulto, fino a sentirsi egli stesso un vero fanciullo. Solo dopo che si è reso conto dei problemi che presenta ogni piccola individualità da educarsi, la sua opera riesce a basarsi interamente sull'amore sentito, sulla mutua comprensione e sulla schietta amicizia. Soprattutto essa deve fondarsi sul rispetto della persona, ripromettendosi così di aiutarla a risolvere i suoi problemi con cura e con tatto. Tassativamente a queste condizioni, l'alunno ravvisa nell’amato docente una persona familiare, la quale più di altre è degna della propria fiducia e della propria stima. A quel punto, egli accetterà qualunque sua parola come sacrosanto vangelo e considererà qualsiasi sua richiesta come legge necessaria ed utile per il proprio benessere. Giunto a tale traguardo, il docente non avrà più alcuna sorta di difficoltà a condurre i suoi discepoli verso qualunque obiettivo. Egli riuscirà a guidarli egregiamente verso una conoscenza ed una formazione che risulteranno del tutto sane e giammai devianti.

In riferimento alle varie discipline, l'educatore non deve badare a dotare ciascuno di loro di un bagaglio di nozioni aride ed astratte. Il quale può essere conseguito soltanto attraverso uno studio totalmente privo di sistematica organicità. In quel caso, l’apprendimento di ciascuno di loro risulterebbe quanto mai improduttivo, oltre che vuoto di premesse per ulteriori approfondimenti. Al nozionismo carente così inteso, egli deve preferire la formazione integrale di ogni suo alunno, tenendo presente che lo scopo principale della sua missione educativa è quello di ricavare da lui il futuro uomo e cittadino. Ecco il motivo per cui la sua opera formativa deve tendere massimamente a formarne una coscienza libera, autonoma e dotata del senso del bene e di quello della giustizia. A scanso di equivoci, un miracolo del genere può essere ottenuto, a condizione che si badi, essenzialmente e in ogni caso, alla sua crescita spirituale. In pari tempo, occorre tenere acceso nel suo piccolo discente il desiderio di apprendere in modo sistematico ed organico.

Anche se il metodo di insegnamento di Lucebio si fondava sul realismo, egli però ci teneva a precisare che esso, per essere stimato valido, non deve mai risultare rigorosamente sperimentale, ossia basato in modo esclusivo sulla pura esperienza. La mente umana si ravviva e diviene flessibile, come pure si corrobora e si approfondisce, soltanto se vive intimamente il proprio apprendimento e il proprio sapere. Ciò vuol dire che bisogna stare a diretto contatto di quelle cose che sono necessariamente da apprendersi. Soprattutto bisogna venire a conoscenza tanto di quelle leggi, da cui esse sono regolate, quanto di quei principi, sui quali le stesse si fondano. In definitiva, significa che occorre innanzitutto tuffarsi nella loro essenza con tutte le proprie facoltà mentali e poi riemergere da essa, dopo che le medesime sono andate incontro ad un sostanzioso bagno di feconda esperienza. Per cui la lezione in nessun caso va fatta inaridire nel dogma. Al contrario, deve in ogni momento poggiare attivamente sulla constatazione dei fatti e sull'esame dei fenomeni, allo scopo di trarre agevolmente dagli uni e dagli altri vitalità e profitto. Nella stessa maniera, il giudizio ogni volta deve seguire rigidamente l'esperimento concreto; mentre la cognizione deve nascere senza interruzioni dal realismo delle cose e dei fatti che avvengono nell'ambiente naturale e sociale. In ultimo, l'esimio maestro faceva presente che l'educatore, per insegnare in modo efficace, non ha bisogno della conoscenza scientifica del delicato suo allievo. Invece la sua opera educativa deve procedere, badando sempre ad attingere dalla sua debole psiche, visto che il fanciullo non è una fredda macchina che necessita di essere guidata con rigore scientifico. All'opposto, bisogna convincersi che egli è una tiepida anima, la quale tende con il tempo a diventare un fuoco ardente. Per tale ragione, se si tenta di manipolarlo con la pura scientificità, la quale può esclusivamente presentarsi gelida ed assurda, si finisce per privarlo di comunicativa e di fantasia, di ingenuità e di semplicità. Alla fine lo si trasformerà in un fantoccio, incapace di dare dei preziosi frutti personali. Questi, invece, possono derivargli solo dalle sue doti migliori, che sono la creatività, l'originalità e la spontaneità.

In sintesi, questi erano stati e continuavano ad essere l'insegnamento e il relativo metodo del loro egregio educatore, di cui i suoi allievi, con il trascorrere del tempo, avrebbero fatto gran tesoro. Essi, accogliendoli con sommo rispetto e con devota venerazione, li avrebbero diffusi in ogni città dell'Edelcadia, ovviamente dopo avervi aperto scuole di grande rinomanza. Ecco perché l'illustre Lucebio, con le sue preziose lezioni di carattere culturale, filosofico, scientifico, artistico, morale e religioso, in avvenire avrebbe formato la mente e il costume dell’intero popolo edelcadico.

Un giorno, mentre si svolgeva la lezione di etica, la quale era fatta basare sulla condotta dell'uomo giusto, un suo allievo, ad un certo momento, gli aveva domandato:

«Maestro, come facciamo noi a distinguere il giusto dal malvagio e viceversa? Non è mica una cosa semplice riuscire a fare una simile distinzione in talune circostanze! Puoi fornirci tu qualche indizio in merito, grazie al quale poterli riconoscere facilmente? Oppure è negata anche a te una conoscenza simile? Allora ce lo vuoi spiegare, per favore?»

Al quesito del suo discepolo, il quale non presentava una facile risposta, Lucebio prima divenne serio nel volto. Poi, assunto un aspetto grave, gli aveva risposto:

«Ogni volta che vi capiterà di assistere ad un contraddittorio tra una persona sola ed una massa di gente, vi dico che l'interlocutore solitario sta quasi sempre nel giusto. Quanto alle persone inique della discussione, esse sono coloro che fanno parte del gruppo e gli si oppongono soltanto per il gusto di farlo. Ecco: adesso lo sapete!»


A distanza di tanti lunghi anni, le cose fra gli uomini di Lucebio procedevano ancora allo stesso modo che abbiamo appreso, quando Iveonte, Francide ed Astoride erano venuti ad unirsi ai ribelli. I tre giovani amici, da parte loro, non vollero perdere tempo nel rendersi utili alla causa dei ribelli. Per questo, già dal mattino seguente, i tre amici iniziarono ad allenare le giovani reclute che vi erano pervenute nel maneggio delle armi e nei vari tipi di lotta, come quello corpo a corpo. Allora il campo di Lucebio divenne movimentato come non mai, venendo ad aversi in esso un'animazione di colpi d'armi e di esercizi fisici. Nei quali i tre validi maestri avevano impegnato i diversi allievi, allo scopo di fargli conseguire un ottimo uso della spada, del giavellotto, dell'arco e del pugnale; ma anche per permettergli di acquisire esperienza nelle arti marziali. Non mancavano neppure quelle esercitazioni, nelle quali dovevano improvvisarsi finte scaramucce e posticce azioni di guerriglia. Tutto ciò, allo scopo di perseguire un ottimo addestramento in quelle azioni militari, le quali erano proprie di una vera battaglia campale.

Un paio di giorni dopo che c'era stato il loro arrivo, durante la pausa di mezzogiorno, precisamente mentre si consumava il pasto, Iveonte, a un certo momento, interruppe il silenzio che continuava ad esserci fra di loro. Così, rivolgendosi al venerando anziano che gli sedeva accanto, si diede a fargli la seguente domanda:

«Lucebio, ti dispiace metterci a conoscenza se sei dotto anche in teologia? Oppure non ti consideri abbastanza ferrato in una materia del genere, non avendo mai avuto modo di approfondirla? Desidererei tanto apprendere qualcosa in merito!»

«Perché mi hai posto una simile domanda, Iveonte? Ti ha spinto forse uno scopo preciso a farmela? Oppure si è trattato unicamente di una semplice curiosità, la quale ti è venuta soltanto in questo momento? Se lo vuoi sapere, tale tua domanda mi incuriosisce molto!»

«Lucebio, probabilmente la mia è stata una domanda generica! Comunque, vorrei sapere da te come e quando è cominciato il culto delle divinità da parte degli uomini. È da poco che me lo vado domandando spesso; ma non sono mai riuscito a spiegarmelo come avrei voluto. Peccato che io abbia iniziato a pormi tali domande, solo dopo la morte del nostro Babbomeo! Invece, se esse fossero venute ad incuriosirmi durante il tempo che siamo vissuti insieme con il nostro insuperabile maestro, sarei ricorso senz’altro a lui per farmi dare delle risposte esaurienti nel campo teologico!»

«Dunque, il vostro bravissimo Tio non ve ne aveva ancora parlato, prima di essere ucciso! Ma sono convinto che egli un giorno, se non fosse stato stroncato dalla morte, l'avrebbe fatto. Dovete sapere che ho appreso proprio da lui la leggenda riguardante l'origine del culto delle divinità, nella quale esso si presenta contemporaneo alla stessa creazione del genere umano. Perciò adesso ve la racconto, proprio come egli la riferì a me tanti anni fa, quando frequentava la corte del re Kodrun. La mia narrazione tratterà ampiamente i motivi che spinsero le divinità benefiche a desiderare la creazione del nostro universo. Vi parlerò anche del loro insediamento in esso, quando già c'era stato quello delle divinità malefiche. Né ometterò di raccontarvi la grande battaglia scoppiata tra le une e le altre e delle cause del divino conflitto avvenuto dopo l'origine dell'universo.»

Fu così che Lucebio si mise a narrare ai tre giovani quanto loro promesso. Nel raccontarlo con fervore, egli calamitò intensamente la loro attenzione. Anzi, mentre esponeva i fatti che avevano riguardato la creazione dell’universo e il trasferimento in esso prima delle divinità malefiche e poi quello delle divinità benefiche, li suggestionò in maniera esaltante e coinvolgente. Era sembrato quasi che gli elettrizzanti avvenimenti si andassero svolgendo davanti ai loro occhi nel loro reale susseguirsi. Comunque, erano tutte cose che noi già abbiamo appreso nel Libro Primo della nostra saga, per cui non vale la pena riascoltarli.