133°-IL RIENTRO IN SCENA DI LUCEBIO

Ecco che, a distanza di diciotto anni, incontriamo di nuovo Lucebio, il quale adesso ha appena superato i sessant'anni. La sua età avanzata e la sua lunga barba lo avevano talmente trasformato fisicamente, da farlo risultare irriconoscibile perfino a coloro che erano stati i suoi amici più stretti. Un sacco di cose sono cambiate, da quando lo abbiamo lasciato l'ultima volta! In quella data, insieme con il suo amico re Cloronte, egli si stava rammaricando per l'infausta sorte che era toccata al piccolo Iveonte. Se in quel momento lo pervadeva il rammarico, adesso lo ritroviamo in preda al rimorso. In verità, le disgrazie capitate alla sua amata Dorinda e al suo sfortunato re, in seguito si erano dimostrate senza dubbio più grandi della sventura che il destino aveva riservato al povero principino! Con il trascorrere del tempo, la perdita del suo diletto Iveonte era stata in parte cancellata nella memoria di Lucebio; ma non la stessa cosa era avvenuta con la catastrofe di Dorinda e con la sciagura del proprio re. L'una e l'altra avevano continuato a farsi avvertire in maniera irresistibile ed incancellabile. Perciò, pure a distanza di tanti anni, entrambe le disgrazie rivivevano in lui con nitida mostruosità, come se fossero state del giorno precedente. Egli rammentava con mente lucida tutti i particolari di quella tragica vicenda, siccome non smetteva di tenerseli impressi nella memoria, non essendo stato capace di eliminarveli in alcun modo. Per la qual cosa, da quegli indelebili ricordi, intrisi come erano stati di sangue e di orrore, non potevano che derivare allo sventurato un'amara tristezza ed un'angoscia difficile da sopprimersi soltanto con una semplice voglia di dimenticare.

Dopo che la città di Dorinda era stata occupata dagli eserciti alleati ed era stata anche assoggettata alla sovranità del re Cotuldo, per quasi un triennio intero, Lucebio era vissuto nascosto nella casa dell'amico Sosimo. Il nuovo sovrano, come suo primo atto formale, aveva spiccato un mandato di cattura contro il saggio consigliere del re Cloronte, essendo intenzionato a vendicarsi dell’affronto da lui subito nella reggia di Dorinda. Ebbene, nella nuova abitazione, Lucebio aveva trovato una calda e generosa ospitalità; ma soprattutto aveva goduto dei benefici che gli erano provenuti dal nuovo caloroso focolare domestico. Era stato lo stesso Sosimo ad insistere che egli andasse ad abitare nella sua dimora, considerando quel suo atto di generosità il minimo che potesse fare per una illustre personalità, qual era il suo intimo amico. Il quale era da reputarsi la persona più saggia dell'intera Edelcadia.

In verità, il facoltoso uomo dorindano doveva moltissimo al pupillo del re Kodrun, per cui accoglierlo nella sua casa come ospite gli era sembrata un'ottima occasione per sdebitarsi con lui. Per l’intercessione di Lucebio, infatti, in passato era stato nominato comandante della Guardia d'Onore dal re Cloronte. La sua nomina c'era stata dopo la morte dell'intraprendente Toacre, che era un uomo d’armi molto in gamba ed aveva svolto quelle mansioni, fin da quando era in vita il re Kodrun. Ad ogni modo, più che per disobbligarsi con lui per l'antico favore, egli aveva accolto nella propria casa l'amico prediletto del re Cloronte soprattutto perché, come si è già fatto presente, lo stimava oltre ogni umana immaginazione. Lo venerava come la persona più valida di Dorinda, sia in campo intellettuale che in quello educativo. Secondo l'ex comandante di corte, nell'Edelcadia non poteva esserci un altro personaggio che possedesse una cultura, una intelligenza e una saggezza uguali a quelle che si riscontravano nel prodigioso Lucebio. Perciò esse, a parere di quanti lo conoscevano, si rivelavano di grandissimo spessore. Le stesse persone erano certe che non potevano esserci uomini intellettualmente e spiritualmente della sua portata.

Non erano state poche le volte che Sosimo si era complimentato con lui per tali sue doti intellettuali e spirituali, confessandogli con la massima schiettezza come la pensava nei suoi riguardi. Ma Lucebio aveva sempre cercato di smorzare la sua enfasi lusinghiera, forzandolo con una scusa qualsiasi a scivolare sull’argomento di adulazione che era stato da lui aperto e ad uscirne subito dopo. Nello stesso tempo, aveva fatto presente al maggiorente dorindano da cui veniva ospitato che non bisognava trascurare la solida cultura e la indubbia grandezza d'animo del suo amico Tio. Alla cui fonte, la sua preparazione culturale e la sua saggezza avevano attinto abbondantemente, diventando con il tempo quelle che al momento attuale egli possedeva, siccome le riteneva il proprio vanto e il proprio orgoglio.

In casa dell'amico Sosimo, Lucebio si era ben guardato dal condurre una esistenza da parassita, per questo non se ne era restato per l'intera giornata con le mani nella cintola, cioè intento solo ad oziare. Egli aveva impiegato dieci ore di ogni suo giorno trascorso nella casa del ricco Dorindano, in modo costante e sistematico, nell'elargire il suo scrupoloso insegnamento ai suoi figli e ai suoi nipoti. La maggior parte dei quali avevano già superato la prima giovinezza. Per questo il sapiente uomo, con il suo fecondo magistero, si era dato ad impartire ai suoi allievi lezioni di musica, di canto, di danza, di decoro, di etica, di teologia, di filosofia, di lettere, di dialettica, di matematica, di astronomia e di disegno. Ma non erano mancate anche alcune lezioni di scienze naturali, nelle quali si mostrava altrettanto ferrato. Insomma, il suo insegnamento aveva abbracciato le tante discipline che rappresentavano l'intero scibile umano di quel tempo. Le quali erano alla base di una efficace formazione umanistica e scientifica dell'uomo integrale. Come anch'egli era solito sostenere, in passato Lucebio aveva potuto approfondire tali materie di studio, soltanto perché era stato a contatto con l'indimenticabile amico Tio. La cui notevole preparazione in ogni campo non era riscontrabile in nessun'altra persona del mondo edelcadico. In seguito, l'ex pupillo del re Kodrun, dopo aver abbandonato la casa dell'amico Sosimo, aveva voluto aprire una scuola di vita, i cui primi allievi erano stati appunto due dei sette figli del suo benefattore. Per l'esattezza, essi erano stati il suo secondogenito Vulco e il suo quintogenito Streo. A questi due, che vi si applicavano con amore ed ardore, in successivi momenti differenti, si erano aggiunti altri allievi. Ma in totale essi non avevano mai superato il numero di venti per volere del loro maestro.

Durante il tempo che aveva trascorso presso la casa dell’amico, specialmente nell'ultimo periodo della sua permanenza in essa, Lucebio aveva cominciato a convincersi che occorreva reagire sul serio al dispotismo del tiranno. Tale sua convinzione gli era provenuta dal fatto che le vessazioni e i soprusi del re Cotuldo si erano andati acuendo sempre con più molestia ed intollerabilità. Al più presto, perciò, bisognava costituire une associazione segreta, in seno alla quale si sarebbe dovuto discutere, organizzarsi, prendere decisioni e provvedimenti. Infine essa avrebbe dovuto condurre ad una insurrezione armata contro le oppressioni del malvisto tiranno. Egli era convinto che, nel modo più assoluto, la giustizia non doveva continuare ad ammuffire nella loro città. Inoltre, se i regnanti di Dorinda fossero tenuti ancora viventi nelle carceri, si sarebbe dovuto liberarli al più presto possibile da tutti i tormenti che essi stavano patendo nella loro angusta cella. Così, allo scopo di dar vita a tale società segreta, Lucebio aveva stabilito di lasciare la casa dell'amico ed era andato a stabilirsi in un luogo appartato, il quale era situato a cinque miglia da Dorinda.

Dopo il suo trasferimento, egli aveva dato inizio all'attuazione della sua idea insurrezionale, dedicandosi anima e corpo ad una intensa e febbrile attività cospiratrice contro il despota Cotuldo. In pari tempo, non aveva abbandonato l'insegnamento. Difatti, dopo aver assunto il nome di Celubio, che era l'anagramma di Lucebio, l'illustre maestro aveva anche aperto in città una propria scuola. Nella quale svolgeva il suo magistero a giorni alterni e per tre ore giornaliere, le quali coincidevano con quelle che precedevano immediatamente il mezzogiorno. Quanto al suo nuovo nome, esso valeva solo per coloro che non erano suoi seguaci e per la gente che non lo conosceva per niente. In questo modo, si rendeva più difficile la sua individuazione da parte dei gendarmi e si evitava di esporre il capo dei ribelli all'ira tremenda del re Cotuldo. Ma le prime adesioni alla società segreta da lui fondata erano provenute da gran parte degli ex soldati di Cloronte; ma principalmente vi avevano aderito i loro giovanissimi figli. Questi desideravano ardentemente il ritorno sul trono di Dorinda del loro re spodestato. In seguito, comunque, la schiera degli affiliati era lievitata, poiché avevano abbracciato la loro causa anche un numero consistente di contadini, di artigiani e di mercanti. In costoro, però, più che per motivi patriottici, la reazione si era avuta esclusivamente per difendere i propri averi e i propri interessi. Le tre categorie di persone si mostravano maltolleranti dei gravosi balzelli che il re Cotuldo imponeva sulla loro attività e sui loro ricchi commerci.

Volendo essere obiettivi, i ribelli non avevano mai saputo esprimersi con una insurrezione generale, a causa della scarsa preparazione organizzativa dei loro comandanti in fatti di rivolta. Lo stesso Lucebio si era riconosciuto inadatto a coordinare le azioni di guerriglia dei suoi uomini ed aveva sperato invano che qualcuno fra i rivoltosi si dimostrasse all'altezza di tale prezioso compito, almeno sotto tale aspetto. Perciò le proteste dei ribelli avevano avuto ogni volta un carattere occasionale, siccome erano avvenute esclusivamente, quando le circostanze le avevano fatte ritenere indispensabili. In definitiva, si era trattato di brevi scaramucce, le quali si erano concluse quasi sempre a loro sfavore. Inoltre, le medesime, più che ad azzannare il re Cotuldo con morsi concreti, erano servite unicamente a palesargli che c'era una parte dei Dorindani che mal tollerava il suo dispotico malgoverno. Per questo essa faceva dei complotti contro la sua persona. Comunque, anche se non si era dimostrato un valido condottiero, per fortuna Lucebio era stato considerato dai Dorindani il loro capo carismatico. Nei cuori dei suoi seguaci, egli aveva saputo accendere ed alimentare la fiamma del patriottismo, tenendovelo vivo tuttora. Accanto ad essa, inoltre, aveva fatto brillare anche gli ideali di giustizia e di libertà, conservandoveli in vita per molti anni. Infatti, era incontrovertibile che, bene o male, egli era riuscito a tenere i suoi uomini raccolti intorno alla speranza che un giorno la libertà e la giustizia sarebbero ritornate a trionfare nella loro benamata Dorinda. Anche se poi era vero che l'acculturato uomo era stato capace di arrecare al crudele re Cotuldo soltanto dei danni chiaramente irrilevanti.

Non erano mancate tra i ribelli alcune riunioni segrete, che si erano tenute nel loro campo, il quale risultava essere anche la fissa dimora del loro capo Lucebio. Fra tutte, una sola di esse aveva avuto una certa importanza, per gli argomenti che vi erano stati trattati. Perciò è opportuno ricondurci a tale importante raduno e seguirlo nel suo svolgimento, come se pure noi fossimo presenti ad esso. Tra i numerosi ribelli che vi avevano preso parte, il primo a prendere la parola non poteva essere stato che Lucebio. Egli aveva voluto esibirsi con un discorso introduttivo assai significativo, il quale non sarebbe stato più dimenticato. Esso era stato rivolto alla totalità dei ribelli convenuti, che in quella circostanza avevano superato il migliaio, e aveva avuto il seguente contenuto:

"Fedeli sudditi del re Cloronte e miei devoti concittadini, bisogna considerare sacro l’impegno che ci siamo assunti di fronte al nostro sovrano incarcerato e al nostro popolo. Come ben sapete, con esso abbiamo deliberato di liberare il primo dal carcere e di riscattare il secondo dal servaggio, a cui lo sottopone lo straniero invasore. La nostra accanita lotta contro il tiranno Cotuldo, ammettiamolo, non sarà facile. Inoltre, potrà esigere da tutti quanti noi degli enormi sacrifici, come la rinuncia ai nostri affetti più cari e perfino l’immolazione di noi stessi. Tenete a mente che avremo a noi contrapposte delle soldatesche nemiche agguerrite ed esperte sia in battaglie campali che in normali scaramucce. Esse non esiteranno a mettere in mostra la loro temibile aggressività, capace di provocare tra le nostre schiere un impatto dirompente e devastante. Da parte nostra, però, oltre a non lasciarci intimorire dal loro strafare rovinoso, eviteremo di affrontarle in campo aperto. Ricorrendo alla guerriglia, cercheremo di colpirle, quando esse meno se lo aspettano. Per questo le azzanneremo, dopo che le avremo sorprese in luoghi stretti, dove non saranno consentite a tali soldatesche grandi manovre. Difatti l’angustia del luogo le costringerà a subire il nostro assalto, il quale potrà essere esclusivamente aggressivo e sdegnoso allo stesso tempo.

Ogni volta che ci capiterà, prepareremo ad esse delle trappole mortali ed insidieremo il loro percorso con trabocchetti senza via di scampo. Il male e il disonore, che i nemici ci hanno arrecato, sono troppo grandi, per non desiderare di vendicarci dei loro torti e dei loro abusi. Dunque, sarà nostro dovere non solo di rivalerci con i responsabili dei danni da noi subiti, bensì anche di castigarli secondo giustizia. La loro vigliaccata non dovrà restare impunita per sempre negli anni; al contrario, occorrerà fargliela pagare al più presto! A questo punto, non avendo altro da esprimervi, passo subito a voi la parola, miei fedeli ribelli. Dunque, se in mezzo a voi c'è qualcuno che desidera rivolgermi delle domande sull'argomento che ritiene giuste, lo faccia pure liberamente. Sappia egli che sarò lieto di rispondergli, senza sottrarmi a nessuna di esse!"

«Secondo te, esimio Lucebio,» aveva chiesto l’attempato ribelle Edispo «il nostro sovrano Cloronte è ancora vivo oppure dobbiamo considerarlo morto da molto tempo? Quanto a te, ti è capitato di vederlo ancora, dopo che la nostra Dorinda fu occupata e saccheggiata dai nostri nemici? Se la tua risposta dovesse risultare positiva, ci farebbe anche piacere apprendere da te in quale occasione lo hai incontrato.»

«Ho le mie buone ragioni per credere che il nostro sovrano sia ancora vivo, Edispo. Riguardo poi alla tua seconda domanda, la mia risposta è decisamente affermativa. Infatti, ebbi modo di rivederlo insieme con la sua consorte, la regina Elinnia. Per la precisione, il mio incontro con loro avvenne nelle carceri di Dorinda, quando era appena trascorso un mese dalla caduta della nostra città nelle mani dei sovrani traditori. Ero riuscito ad entrarci con tutt’altra scusa e corrompendo gli aguzzini di turno con monete d'oro sonanti. Trovai il nostro sovrano molto disperato e sfiduciato per l’affronto subito dagli altri sovrani vigliacchi. Invece adesso, come potete comprendere, non potrei darvi ancora la garanzia che essi sono vivi e vegeti come li trovai a quel tempo.»

«Se fossimo certi della morte del nostro legittimo sovrano, saggio Lucebio,» aveva chiesto il giovane Periun «dovremmo ugualmente impegnarci nella riscossa e continuare la nostra lotta contro l’oppressore? Oppure dovremmo rinunciarci definitivamente, non avendo più un sovrano che potrebbe surrogarlo e governarci?»

«La nostra lotta, Periun, va condotta contro il nostro tiranno, indipendentemente da se il nostro re Cloronte sia vivo o morto! Dimentichi che il primogenito del re Cloronte è tuttora vivente, anche se non si sa dove egli si trova adesso? Un giorno il principe ereditario di Dorinda potrebbe ritornare e reclamare il trono che fu estorto al genitore. Inoltre, se portiamo avanti la nostra lotta, lo facciamo anche a vantaggio del nostro popolo, siccome esso viene tartassato dal tiranno Cotuldo con esosi balzelli. Non mancano neppure ingiustificati arresti a danno di tanti nostri concittadini, i quali hanno la sola colpa di essere possidenti. Con un pretesto qualsiasi, il despota, dopo aver condannato i poveretti alla reclusione a vita, in seguito entra immediatamente in possesso delle loro proprietà e dei loro averi, confiscandoglieli senza alcun motivo.»

«Invece io vorrei sapere da te, illustre Lucebio,» era intervenuto a dire pure il maturo Veruot «se tra noi ribelli ci sono delle persone che conoscano bene l’uso delle armi e sappiano anche insegnarcelo. A mio parere, esso ci occorrerà senza meno, se vogliamo affrontare la nostra lotta con maggiore sicurezza e determinazione, evitando ingenti e gravissime perdite! Altrimenti lotteremo soltanto per fare da facili vittime ai soldati del re Cotuldo, che sono ben preparati nel combattere!»

«Hai proprio ragione, Veruot. Se siamo in grado di procurarci tutte le armi che vogliamo, non possiamo combattere il nostro nemico totalmente digiuni del loro uso e dei vari tipi di combattimento. Per questo abbiamo con noi i gemelli Sinot e Zules, i quali sono i figli di Surto e i nipoti di Tedo. Per chi non lo sapesse, il loro genitore, al tempo dell’occupazione di Dorinda, era comandante in capo della milizia dorindana; mentre il loro defunto nonno era luogotenente del leggendario re Kodrun. I due fratelli dimostrano di possedere una discreta preparazione nelle armi e di saper cavarsela abbastanza anche nel combattimento corpo a corpo. Ebbene, essi spontaneamente si sono proposti di addestrare tutti i loro compagni di lotta nell’uso delle armi, nonché nelle tecniche di combattimento corpo a corpo. Perciò noi li ringraziamo!»

«Dal colto Lucebio» Delliut aveva voluto fare le sue osservazioni per ultimo «vorrei aver chiarito due particolari che considero assai importanti, poiché riguardano la nostra lotta. Si sa che le spese per condurla contro i nostri nemici non dovrebbero essere indifferenti. Infatti, molti di noi spesso sono costretti ad assentarsi dal loro lavoro per dedicarsi all’addestramento, per presenziare le riunioni e per partecipare agli scontri con i soldati casunnani. Per questo, nei periodi di sospensione dell’attività lavorativa, dovrà pure esserci qualcuno ad assicurare alle nostre famiglie il sostentamento necessario per sopravvivere. Inoltre, se alcuni ribelli ci rimettono le penne in un loro scontro con i gendarmi del despota, dopo la loro morte, penso che qualcuno dovrà pur badare a sfamare le vedove e gli orfani dei caduti in battaglia. Si sa che anche in questo caso, la somma di denaro richiesta non sarà da poco. Quindi, Lucebio, vuoi spiegarmi dove si reperiranno i fondi per far fronte a tali emergenze? Non credo che i pochi mercanti che hanno aderito alla nostra lotta potranno farsi carico di una spesa così rilevante! Tutti siamo a conoscenza che gli empori, di cui sono esercenti, a causa delle tasse imposte loro, fruttano ben poco. Anzi, essi fanno racimolare agli stessi tanto, quanto basta a sfamare appena le loro famiglie! Stando così le cose, illustre Lucebio, chi penserà a sfamare tale gente?»

«Delliut, ti ringrazio, per aver richiamato l’attenzione su due aspetti abbastanza seri del nostro problema. In merito, ti faccio presente che non hai da preoccuparti per nessuna di essi. Prometto a tutti voi presenti che mai nessuna famiglia di coloro che aderiscono alla nostra giusta causa soffrirà mai la fame. Il motivo è molto semplice. Ogni ribelle riceverà da me un compenso che lo ripagherà di quanto non ha guadagnato, a causa della sua sospesa attività. Inoltre, nel caso che egli dovesse restare ucciso nella nostra lotta contro il tiranno, la moglie vedova e i suoi figli orfani riceveranno un’assistenza continua nel loro fabbisogno giornaliero. In riferimento al denaro che occorre per affrontare tali necessità per niente trascurabili, statene certi che esso uscirà da qualche parte! Ve lo garantisco, ma non posso darvi altre spiegazioni in merito.»

Con le promesse rassicuranti di Lucebio, aveva avuto termine la riunione dei ribelli, i quali però non avevano fatto un immediato ritorno in città per raggiungere le loro famiglie. Essi, invece, si erano trattenuti a lungo nel loro campo, esattamente due ore di fila, per frequentarsi di più e per conoscersi meglio fra loro. Alla fine, perciò, si erano rinsaldati i loro rapporti ed erano nate anche parecchie amicizie, promettendosi di alimentarle. Le persone divenute amiche si erano perfino ripromesse che senza meno si sarebbero scambiate al più presto delle visite, allo scopo di permettere anche ai loro familiari di conoscersi, di frequentarsi e di stimarsi, come già essi avevano iniziato a fare in quel luogo di raduno. La qual cosa aveva rallegrato a non dirsi il loro stimato capo carismatico e gli aveva infuso nell’animo parecchio buonumore.