132°-LUCEBIO VISITA L'AMICO RE CLORONTE NEL CARCERE DI DORINDA

Ad un mese dal tradimento dei vigliacchi sovrani nostri alleati, la vita in Dorinda riprese con una parziale normalità, per cui la gente poté dedicarsi alle sue attività precedenti. Nelle sue strade, però, si incontravano ancora drappelli di soldati casunnani, i quali adesso erano gli unici rimasti a presidiare la nostra città. Questi ultimi, però, siccome il principe Cotuldo era diventato l’unico padrone della Città Invitta con la nomina di sovrano, erano destinati a mettervi le radici. Da parte mia, non riuscivo a trovare pace, poiché fino a quel momento non si erano avute notizie sul nostro sovrano, sulla sua consorte e sulla loro ultimogenita. Perciò dovevo assolutamente venire a sapere qualcosa sul mio re e sulla sua famiglia, poiché soltanto così in seguito non avrei corso il rischio di perdere la ragione. Quando poi ritenni di aver trovato l’espediente adatto per raggiungere il mio scopo, decisi di tentare la sorte.

Così un bel giorno mi presentai alle carceri di Dorinda con alcune monete d’oro nella bisaccia. In quel luogo, parlando per primo, cominciai ad intavolare una conversazione con la guardia carceraria che era venuta ad aprirmi, dopo che avevo bussato al portone. Allora, sottomesso e premuroso, mi rivolsi al secondino, dicendogli:

«Buona ventura, brav’uomo! Di grazia, posso venire a sapere se anche tu sei padre di famiglia come me? A mio parere, lo sarai senz'altro!»

«Certo che lo sono, sconosciuto! Sappi che ho un maschio ed una femmina, entrambi dell’età puberale. Essi, però, si trovano a Casunna e spero di farli trasferire al più presto qui a Dorinda. Insieme con la loro madre, si intende! Tutti e tre, se posso aggiungerti altro, mi mancano da morire! Ma tu perché mi hai fatto una domanda del genere, riaprendomi una ferita, che a malapena ero riuscito a far rimarginare? Per questo ti invito a spiegarti meglio, circa la tua domanda, che trovo strana!»

«La mia risposta è molto semplice, mio paziente carceriere. Anch’io sono padre di un bravo giovane, il quale è l'unico figlio che ho. Egli ha superato da poco la ventina d’anni. Solo che, da quando c’è stata l’occupazione di Dorinda da parte vostra, l’ho perso di vista e non sono più riuscito a ritrovarlo da nessuna parte. Secondo me, egli sarà rimasto ucciso durante il massacro compiuto dagli eserciti alleati. In caso contrario, il mio unigenito potrebbe trovarsi in qualche cella del carcere, per essersi egli mostrato riottoso più del dovuto. Ecco perché sono venuto qui ad accertarmene di persona, ritenendo questa mia visita odierna l'ultima speranza di avere sue notizie. Ma ci sarà qui un'anima pia che mi dia ascolto e soddisfi la mia richiesta, la quale non è nemmeno tanto impegnativa per chi lavora in questo ambiente non proprio ideale?»

«Se ho capito bene, Dorindano, sei venuto a chiederci una cosa impossibile. E dici pure che non si tratta di una grossa richiesta, da parte tua! Dovresti sapere che non possiamo aiutarti in una cosa simile. Se Croscione, che è il braccio destro del re Cotuldo e anche il suo consigliere, venisse a sapere che ti abbiamo favorito in una roba del genere, non esiterebbe a fare rinchiudere anche noi in una delle celle di questa prigione! Ti parlavo al plurale perché siamo sempre in tre ad effettuare ogni turno di guardia qui in carcere. Come vedi, ci vorrebbe il consenso pure degli altri due colleghi che turnano con me per farti entrare nei reparti carcerari! Perciò, per come stanno le cose nel nostro ambiente, dovrai rinunciare alla tua idea di cercare tuo figlio anche all'interno di questo carcere! Magari non lo troveresti neppure in qualche cella, essendo stato ucciso durante la recente occupazione della tua città!»

«Invece, gendarme, nel farvi richiesta del favore che conosci, faccio appello alla tua comprensione paterna e all’amore che hai per i tuoi due figli. Forse hai dimenticato che in Dorinda, per tirar su una famiglia come la tua, occorre molto denaro e non sarà il vostro stipendio da fame a permettervi di condurre una vita decente e dignitosa! Invece, se voi esaudiste la mia preghiera, che ritengo piccola per voi, saprei come…»

Intanto che pronunciavo la mia ultima frase, che neppure terminai, avevo tirato fuori dalla mia bisaccia tre monete d’oro e mi ero messo a fargliele scorgere sul palmo della mia mano. Alla loro vista, la guardia carceraria sgranò tanto di occhi ed iniziò a mostrarsi bramoso di possederle. Per cui, mentre seguitava a fissarle con evidente ingordigia, facendosi accrescere la voglia di venirne in possesso, senza perdere tempo si affrettò a farmi continuare la frase da me interrotta, chiarendomi:

«Allora cosa faresti, Dorindano, in cambio del favore che sei venuto a chiederci? Hai forse voluto darmi ad intendere che ci avresti ricompensato con una lauta mancia? Ebbene, qualora tu avessi pensato a qualcosa del genere, in quel caso ti faccio presente che dovremmo essere sempre in tre a consentirtelo e a beneficiare della tua ricompensa. Soltanto in tal modo, in questo carcere ogni cosa riesce a procedere liscia come l’olio! Non sembra pure a te che io abbia ragione?»

«A questo c’ero arrivato anch’io, carceriere, non essendo un babbeo! Ma mi dici come ti chiami, dal momento che tra poco noi due instaureremo un rapporto d’affari? Intanto inizio a dirti il mio nome, il quale è Celubio. Mentre il tuo, Casunnano, quale sarebbe? Una volta che me lo avrai rivelato, dopo saprò come chiamarti all’occasione.»

«Piacere di conoscerti, Celubio! Il mio nome, comunque, è Tarner. Adesso, però, cerchiamo di intenderci meglio con gli affari, che presto avvieremo e concluderemo tra di noi. Essi sono più importanti dei nostri nomi! Allora mi dichiari quanto sei disposto a sborsare, se ti lasceremo visitare le centocinquanta celle del carcere, allo scopo di controllarvi se in una di esse vi è recluso anche tuo figlio? Ma ti premetto che dopo il controllo, anche se tu non dovessi riuscire a trovarcelo, dovrai versarci ugualmente la somma da noi pattuita prima! Non è vero che è così?»

«Se mi consentite di cercare mio figlio in tutte le celle di questo carcere, Tarner, sono disposto a pagare anche tre monete d’oro per ciascuno di voi, anziché di una. Se poi ve lo trovassi e voi foste propensi a scarcerarlo, allora sarei disposto anche a decuplicare l’attuale somma spettante ad ognuno di voi. In tal caso, però, la scarcerazione dovrebbe avvenire non prima dei prossimi tre giorni, dovendo io avere il tempo necessario per procurarmi il numero di monete che sai. Ora che ti ho chiarito bene ogni cosa, sta a te e ai tuoi colleghi decidere se accettare la mia proposta d'affari oppure rifiutarla. Ma ho da aggiungervi una condizione importante, se volete che tra di noi si giunga ad un accordo. Durante la mia ispezione alle celle, dovrò essere solo. Il motivo? Nel caso che trovi mio figlio in una delle celle, voglio che nessuno di voi tre conosca la sua identità, fino a quando egli non acconsentirà a lasciarsi scarcerare. Il mio unigenito ha sempre avuto un carattere bislacco, per cui potrebbe anche ricusarsi di essere messo in libertà da voi!»

«Secondo me, Celubio, il compenso da te messo a nostra disposizione per la sola tua visita ai reparti del carcere può anche bastare. Perciò molto probabilmente troverò d’accordo anche i miei due camerati di turno, compresa l’accettazione della tua condizione. Ma trovo difficile che poi venga a prospettarsi anche l’eventualità della scarcerazione di tuo figlio, poiché essa si presenta molto rischiosa per noi tre, anche se verremo tentati di accettare dall’alto compenso che metti a nostra disposizione per rimunerarci! Adesso, se hai la pazienza di attendere un attimo, mi precipito ad informare i miei compagni di lavoro dei vari particolari della faccenda, che sei venuto a proporci. In questo modo, al mio ritorno, saprò riferirti come essi la pensano a tale riguardo. Nel contempo, spera che i miei colleghi siano d'accordo come me, per il bene di tutti e quattro! Quindi, attendi qui il mio ritorno, che ci sarà tra poco.»

Trascorse una buona mezzora, prima che il secondino Tarner si rifacesse vivo fuori delle carceri per venire a farmi il resoconto di quanto egli e i suoi colleghi avevano stabilito sulla mia proposta. Quando lo vidi ritornare da me, dall’espressione del suo volto arguii che almeno in parte essa era stata accolta pure dai compagni. Invece di sicuro non avevano accondisceso al secondo punto, il quale riguardava la liberazione del mio figliolo immaginario, avendola ritenuta estremamente pericolosa per loro tre. Né io gli davo torto! Comunque, essa non mi interessava in alcun modo, non avendo nessuno da fare uscire dal carcere. Intendevo soltanto restare solo in compagnia dei regnanti di Dorinda, se fossi stato fortunato nella mia ricerca e li avessi trovati in una cella.

Quando il carceriere mi raggiunse all'esterno, si affrettò a dirmi:

«Celubio, per quanto riguarda l’eventuale scarcerazione di tuo figlio, nel caso che tu riuscissi a trovarlo, non c’è niente da fare. I miei colleghi non vogliono compromettersi per nessuna somma, temendo la reazione del nostro sovrano Cotuldo. Per tutto il resto, invece, essi si sono trovati d’accordo con me. Dunque, se hai con te le nove monete d’oro e non hai difficoltà a consegnarcele, puoi già dare inizio alle tue ricerche nelle celle. Ovviamente, esse dovranno avvenire attraverso le grate, anche perché non sarai affiancato da nessuno di noi, mentre le conduci da solo con tutta calma, essendo stato questo il tuo desiderio!»

«Eccoti le monete da noi pattuite, Tarner. Come puoi constatare, esse sono tutte e nove nuove di zecca e gradevolmente sonanti! Adesso, però, desidererei darmi alla mia ispezione, se tu e i tuoi colleghi volete essere così gentili da lasciarmi ispezionare. Così prima inizio il mio controllo e prima lo termino, evitandovi di correre il rischio che potreste correre, se io venissi sorpreso in carcere da un vostro superiore!»

«Adesso ti apro il portoncino di ingresso, mio simpatico e generoso Celubio. Ma una volta che sarai all’interno delle carceri, sei poi sicuro che saprai muoverti in esse a tuo agio, pur non essendoci nessuno di noi ad accompagnarti? Non vorrei che tu poi ti smarrissi in uno di essi, mentre ti sposti da un corridoio all’altro di queste carceri! Al posto tuo, comunque, io mi farei accompagnare da uno di noi!»

«Non preoccuparti, Tarner, perché conosco questo luogo molto meglio di te e dei tuoi colleghi! Già, avevo dimenticato di farti presente che, quando Cloronte era il re di Dorinda, esercitavo il tuo stesso mestiere. Perciò conosco questo ambiente carcerario come le mie tasche e non può esserci il pericolo che mi ci perda dentro, come hai temuto!»

«Allora, generoso Celubio, se le cose stanno come hai detto, non avrai certamente problemi di sorta a cercarlo. Da parte mia, ti auspico di trovare presto il tuo benedetto figliolo, anche se non è interamente legale quanto ti stiamo permettendo. Tanti auguri!»


Lasciato libero di eseguire da solo le mie ricerche negli ambienti carcerari ovunque avessi voluto, mi diedi a perlustrare la totalità delle celle, smanioso di trovare quella in cui avevano rinchiuso il mio re Cloronte e la sua consorte. Speravo tanto che essi fossero nel carcere. Così mi sarei convinto, una buona volta per sempre, che essi erano ancora vivi e non erano stati giustiziati con un processo sommario, come avevo immaginato fino a quel momento! Avanzando poi tra i lunghi anditi del semibuio carcere, non smettevo di appuntare gli occhi in ogni cella che incontravo sul mio percorso. Io desideravo scorgervi a qualunque costo il mio amico re, insieme con la sua consorte, la regina Elinnia. Gli ambienti cellari, per fortuna, non erano molto affollati, come avevo previsto, perché ciascuna cella ospitava non più di cinque reclusi. La qual cosa stava ad indicare che gli eserciti che avevano occupato Dorinda, durante l’impotente reazione dei cittadini, anche per risparmiarsi un gran lavoro, avevano preferito massacrare i Dorindani, anziché farli prigionieri e tradurli nelle carceri. Logicamente, siccome nelle celle vi si trovavano frammischiati gli oppositori al nuovo regime e i delinquenti comuni, non potevo sapere quali fossero gli uni e quali gli altri, non tenendolo essi scritto sulla fronte. Ad ogni modo, non mi interessava venirne a conoscenza, mentre mi aggiravo per le numerose celle. Anche perché mi trovavo nelle carceri per un motivo ben più importante, il quale non aveva nulla a che vedere con la distinzione dei due tipi di carcerati. Devo però ammettere che provavo parecchia commiserazione verso le persone che vi si trovavano rinchiuse ingiustamente, solo per aver tentato di difendere dai nemici di Dorinda sé stessi, le loro famiglie, i loro averi e la loro città. Alle altre andava l'intero mio dispregio e godevo al pensiero che esse marcissero in quel luogo. Altrimenti sarebbero state a delinquere per le strade cittadine, imbrogliando o ammazzando oppure vessando con la loro prepotenza il proprio prossimo.

Continuando nella mia ricerca, alla fine riuscii nel mio intento. Trovai la cella destinata ai regnanti di Dorinda in fondo al corridoio che si diramava verso nord, rispetto all’ingresso del penitenziario. Allora, quando fui davanti alla sua grata, suscitai la meraviglia del re Cloronte e di sua moglie. Entrambi, appena mi scorsero, esultarono di gioia e ne furono immensamente felici. Ma fu il sovrano a domandarmi per primo:

«Come mai, mio caro Lucebio, ti trovi nelle carceri e sei capitato proprio da queste parti? Chi ti ha dato l'autorizzazione di girare liberamente per i reparti carcerari? Comunque, non sai quanto mi risollevi il vederti davanti alla nostra cella in carne ed ossa! Allora vuoi spiegarmi quanto ti ho appena chiesto, siccome lo trovo davvero anormale?»

Alle domande del mio sovrano, mi affrettai a chiarirgli ogni cosa sulla mia presenza in quel luogo. Perciò lo misi al corrente del sotterfugio, a cui ero dovuto ricorrere per corrompere i carcerieri ed avere il loro permesso di visitare le celle una per una. Esso aveva avuto esito positivo, solo perché c’era stato da parte mia l’esborso di nove monete d’oro. Dopo avergli fornito le spiegazioni, come da lui chieste, gli aggiunsi:

«Come ti ho comunicato, amico mio Cloronte, volevo acclarare se tu e la regina Elinnia eravate ancora viventi, oppure vi avevano soppressi all’insaputa di tutti con un processo sommario. Per fortuna, vi ho trovati solo a sopportare una esistenza penosa ed ingiusta; invece, in salute vi trovo sostanzialmente bene! Da una parte, ciò mi rattrista, per l’avverso destino che vi ha colpiti; dall’altra, mi consola, poiché mi dà la speranza che un giorno entrambi potrete essere di nuovo liberi. Per cui un giorno potrai essere rimesso sul trono che legittimamente ti appartiene!»

«Al contrario, non ci spero affatto, Lucebio. La lotta contro Cotuldo, che tra poco siederà sul trono paterno, e contro gli altri re suoi alleati sarà una impresa impossibile da parte del mio popolo. Il quale prima è stato reso impotente dalle mie stolide leggi e tra poco lo sarà ancora di più, ad opera della tirannia e dell’oppressione dell'attuale sovrano. Per questo motivo, esso giammai troverà la forza di risorgere e di opporsi a coloro che lo hanno ridotto nello spossato stato in cui si trova oggi. Ma lasciamo perdere quello che sarà il mio incerto destino futuro e veniamo ai miei due maschietti che ti consegnai durante la fatidica notte di Dorinda. Mi dai assicurazione, amico mio, che almeno Londio e Nucreto sono stati condotti da te in un posto sicuro e che non corrono pericoli da parte di nessuno? Per me e per Elinnia, l'apprendere che sono ancora vivi e al sicuro costituirà l'unica consolazione nell'attuale esistenza!»

«Avanti, Lucebio,» mi esortò anche la regina «dacci subito la conferma che essi stanno bene e non corrono pericoli di sorta, senza farci stare oltre sulle spine! Dopo che ci è venuto a mancare il nostro prediletto Iveonte, non sai quanto il nostro secondogenito e il nostro terzogenito si siano radicati nel nostro animo! Per cui ora tengono calamitata la nostra mente: essa pensa, sogna e spera solo in funzione di loro!»

La richiesta dei due coniugi reali sui loro due figli che mi avevano dato in consegna, perché io li salvassi, mi giunse come una mazzata alla nuca. Soprattutto le parole della regina Elinnia tramarono contro la serenità della mia esistenza, mandandola in dissesto e facendola traballare fortemente. L’ombra perversa di una via senza uscita, minando la mia tranquillità, mi avvolse come un manto di gelo. Perciò mi dava l’impressione di avere il corpo totalmente nudo ed immerso nella neve. Anzi, varie gelide sensazioni di sconforto incominciarono a bersagliare la mia sfera psichica, opprimendola ed infondendovi l’atrocità di un orrore intollerabile e spaventoso. Perfino i miei offuscati pensieri, lungi dall’essere confortanti, mi turbinavano nella mente. Infatti, intanto che essi si esprimevano in ogni loro livida e scioccante manifestazione, sembrava quasi che si stessero impegnando in una macabra danza dai risvolti coreografici allucinanti e detestabili. Per la quale ragione, gli stessi venivano a sovraccaricare il mio animo di un'ambascia tremebonda, schiaffandolo in un pozzo di acre tormento. Inoltre, in quel momento sconvolgente, nella mia interiorità avvertivo il crollo di tutto me stesso e prendevo atto di uno spirito abbattuto e piegato alla nuova realtà esistenziale. Nella quale andavano a braccetto l’orrido e il disastroso, la cui attività lesiva era rivolta a disseminare nel mio io profondo un clima traumatizzante. Di conseguenza, siccome l’espressione del mio volto non doveva essere alquanto promettente e tranquillizzante, non sfuggì per niente alla regina Elinnia. Allora ella, in preda alla sua grandissima disperazione, si affrettò a chiedermi nuovamente:

«Perché ti attardi a darci una risposta precisa, Lucebio? Il tuo viso profondamente alterato, se devo esserti sincera, mi preoccupa tantissimo e mi fa pensare al peggio! Spero proprio che ai nostri due figli, che ti affidammo quel giorno infausto per farteli condurre in salvo, non sia successo nulla di grave! Dicci che essi sono vivi e vegeti, per favore!»

«O amabili miei sovrani, amici miei carissimi,» allora cominciai a parlare all’uno e all’altra con le lacrime agli occhi «mi avete chiesto cose, alle quali non avrei mai voluto rispondere, a causa della drammaticità del loro contenuto. Purtroppo, vi devo dare la luttuosa notizia che entrambi trovarono la morte nella dimora dei defunti, essendo stati colpiti dalla stessa mano omicida. In quella occasione funesta, potei soltanto vendicarli, trafiggendo a mia volta il loro uccisore con una freccia. Il mio intervento, però, essendosi dimostrato tardivo, non riuscì a salvarli. Adesso Londio e Nucreto giacciono nella medesima tomba dei loro nonni paterni, i quali di sicuro stanno vegliando su entrambi e mai si stancheranno di deliziarli con la loro compagnia. Vi ricordate come morì la mite regina Lurella? La poveretta fu colpita da un fulmine, mentre imperversava un furioso temporale, il quale si era abbattuto su Dorinda nel medesimo giorno che nacque Nucreto. Per questo motivo, la nascita del tuo terzogenito fu accolta dall’indovino Virco come presagio di grande calamità per Dorinda e per il suo popolo. In verità, egli non seppe specificare come si sarebbe manifestata la terribile sventura da lui predetta! Perciò, come potete rendervi conto, la loro morte non deve essere imputata alla mia negligenza, ma ad un destino crudele. Il quale già da moltissimo tempo aveva preso la decisione in tal senso per loro due poveretti.»

Sia la domanda che avevo rivolto a loro due sulla morte della regina Lurella, sia tutto il resto che avevo menzionato intorno ad essa, secondo me restarono completamente inascoltati dai detronizzati regnanti di Dorinda. Essi, invece, subito dopo avere appreso che i due principini erano rimasti uccisi nella necropoli, non avevano dato retta a nient’altro. I due coniugi erano stramazzati nell’abisso della desolazione e non erano stati più in grado di riemergerne. La trasfigurazione dei loro volti stava ad indicare la penosa angoscia che li stava martoriando e struggendo, dopo averli inglobati nella ridda dei patemi più sferzanti, allo scopo di fare sprofondare la loro esistenza nel parossismo della sofferenza. In quella occasione li scorgevo lacrimare, profondere lamenti di indignazione e di rabbia, consumarsi in uno strazio immane senza fine. Allora anch’io, unendomi a loro due, mi diedi ad un pianto dirotto, intanto che la macerazione dello spirito e una pena sovrumana ci frustravano l'esistenza. Mancava poco che la follia più conclamata e l’annientamento della coscienza non ci coinvolgessero tutti e tre, che eravamo stretti in un unico abbraccio di prostrazione e di infimo avvilimento!

Avendo la circostanza fatto prendere una brutta piega al nostro incontro, siccome ci aveva catapultati in un’angoscia mortificante che non smetteva più di tormentarci, cercai di provvedere in qualche modo a tirare fuori i coniugi reali dal loro clima fosco ed annichilente. Esso, se non andavo errato, pareva volesse manifestare la loro rinuncia alla vita o il loro proposito di tuffarsi nell’incoscienza più assoluta, pur di non vedersi costretti a tollerare le atrocità del destino. Se fossi riuscito nel mio intento di salvarli dal suicidio fisico e spirituale, nel quale essi avevano stabilito di immergersi senza ritorno in quella circostanza terribile, ne avrei tratto anch’io giovamento. Ero convinto che pure il mio animo si sarebbe risollevato dall’abiezione in cui era sprofondato, nel trovarmi davanti al mio re e alla mia regina, mentre vivevano il loro crudo supplizio massacratore. Allora, allo scopo di perseguire tale obiettivo filantropico, prima mi feci coraggio ed in seguito cercai di recare sollievo ai due sventurati. In quale maniera? Secondo me, dovevo aprire un argomento che, dopo aver fatto breccia nel loro animo, avrebbe dovuto arrecare ad entrambi un indubbio piacere.

«Ehi, voi, amici miei cari,» cominciai a dire ai due afflitti regnanti «adesso basta con quelle facce lunghe e da funerale, siccome avete anche altri due figli a cui pensare! Avete smesso di voler bene alla piccola Rindella? Avete già dimenticato Iveonte, il vostro figliolo destinato a diventare il più grande eroe di tutti i tempi? La sua venuta, secondo molte profezie, servirà a vendicare i suoi genitori, a riscattare il suo popolo dalla dominazione straniera e a riportare la sua città di Dorinda allo splendore di un tempo. Dovrebbe già bastarvi questo pensiero a rinfrancarvi e a spingervi a sopportare con pazienza le ingenti avversità che vi stanno piombando addosso, ad opera di un bastardo destino. Il quale continua a mostrarsi cieco e crudele nel colpirvi tanto cinicamente!»

Le mie parole all'istante fecero una ottima impressione negli ex regnanti. Perciò li vidi ricomporsi alla meglio ed asciugarsi anche le tante calde lacrime, le quali in quel momento rigavano le loro gote inumidite. In entrambi, si riaccese la mente e si rinvigorì la volontà di credere e sperare. Quest'ultima tese a superare ogni sintomo di abbattimento presente in loro, al fine di ridarsi al dialogo che l’appresa morte dei due principini aveva spento in ciascuno, ma che adesso tendeva a rifarsi vivo. Fu la regina Elinnia ad esteriorizzare per prima quanto si teneva dentro, a proposito degli altri due suoi figli.

«Grazie, Lucebio, per averci ricordato che noi due abbiamo altri due rampolli, ai quali non dobbiamo mai smettere di pensare, fino a quando non ci sarà giunta la notizia della loro morte. Devi sapere che affidammo la nostra Rindella alla prima delle mie damigelle d’onore, la quale, come sai, era anche la mia confidente. Voglio sperare che almeno lei sia stata più fortunata di te e sia riuscita a portare in salvo la mia principessina! Quanto ad Iveonte, saggio Lucebio, ti ringrazio di ciò che facesti per lui. Il mio Cloronte mi ha messo a conoscenza di ogni cosa. Sono sicura che la distorsione del destino voluta dal mago Ghirdo fu da te riparata in parte. Per questo, se essa sta arrecando enormi danni a noi e al popolo dorindano, il nostro primogenito sarà risparmiato da ogni suo detrimento. Quello che non capisco è l’assassinio del re Amereto, il quale si consumò nella nostra reggia. Chi poteva avercela con lui a tal punto da ammazzarlo, mentre era a pranzo con tutti noi? Agendo in quella maniera, l'omicida mise mio marito in un grosso guaio, non sapendo egli con chi prendersela e non potendo quindi giustificarsi di fronte agli altri sovrani nostri ospiti. Magari il criminale era proprio intenzionato a mettere il mio consorte nei guai, per un motivo a noi ignoto! Nessuno può asserire il contrario di quanto da me attestato e permettersi di scartare questa ipotesi, che mi è sorta dentro questo carcere!»

«Invece devo contraddirti, mia nobile regina.» intervenni subito a smontare la sua tesi «In tale circostanza, non ci fu nessuna mano assassina ad uccidere il vecchio re di Casunna. Ma operò il braccio di un innocente, il quale provocò l’irreparabile in quel tragico giorno, esattamente come il sogno del re Cloronte ci aveva voluto preavvisare. Fu Nucreto a lanciare il giavellotto davanti a sé per gioco, senza alcuna intenzione di colpire niente e nessuno; ma l’arma si scelse da sola e a caso il suo destinatario. Egli, non appena si rese conto a quali conseguenze aveva portato il suo lancio avventato, ebbe paura e decise di tener nascosto a tutti il suo omicidio colposo. È stato il vostro stesso terzogenito a confessarmelo sul punto di morte, volendo liberarsi di un peso che da tempo gli gravava come un macigno sulla coscienza. Peccato che la sua confessione sia arrivata troppo tardi, cioè dopo aver provocato a suo padre gli incalcolabili danni che conosciamo bene!»

La regina Elinnia non osò replicare alle affermazioni che avevo fatto sul figlio Nucreto; ma la vidi chiudersi in un mutismo, il quale denotava l’accettazione passiva del destino. Il re Cloronte, invece, dopo avere appreso da me come era avvenuta la morte del re Amereto, pur non mostrando nessuna espressione di disappunto oppure di ombra sul suo volto, non si astenne dal fare queste considerazioni:

«Quel giorno, Lucebio, l’imbroglione mago Ghirdo ci tenne a pilotare a modo suo la questione del mio sogno, travisandolo ed ingannando i presenti con l’espediente della casacca appartenente al mio Iveonte. Ti ricordi che essa, mentre bruciava, faceva sprigionare del fumo rosso, quasi a significare che, a causa del mio primogenito, ci sarebbe stata in seguito una sanguinosa guerra, la quale avrebbe portato alla rovina la mia città e il mio popolo? Ma perché l’infido mago ce l’aveva proprio con lui? Anche se non lo sapremo mai, un motivo ci sarà stato senz’altro, per volere infierire così impietosamente contro il mio ragazzo! Sono sicuro che il mago Ghirdo adesso si sarà reso conto che allora, grazie a te, anche per lui non tutto andò per il verso giusto. Perciò molto presto la persona, che egli cercò di fare eliminare, riapparirà nella nostra città e gli cagionerà la giusta morte!»

«La penso anch’io come te, mio re Cloronte. Il mago avrà ciò che si merita, per aver voluto forzare il destino del tuo primogenito! Perciò Iveonte si presenterà tra di noi da trionfatore e gliela farà pagare, come pure si vendicherà dell’affronto subito da te da parte degli altri re edelcadici. Le leggi del fato non si possono sovvertire, per cui ogni cosa procederà secondo quanto vi è stato stabilito da tempo immemorabile. Colui che in modo scriteriato tenta di scardinarle, oltre a fare un buco nell’acqua, inevitabilmente alla fine ne resterà scottato! Ve lo posso assicurare, mio re e mia regina!»

«Certo che sarà così!» approvò la figlia di Nurdok «Lo stesso sogno, da me fatto l’altra notte, ce ne dà atto. Adesso ve lo riferisco succintamente. All’improvviso, mi sono ritrovata nella casa del mio genitore; però non potevo essere vista da lui, né io potevo parlargli. Mentre stavo lì, a un certo momento, è venuto a visitarlo un giovane dalle sembianze ardimentose. Allora mio padre, abbracciandolo con affetto, gli ha esclamato: "Benvenuto, Iveonte! Il mio esercito ti stava aspettando, poiché stavolta sarai tu a condurlo nell'Edelcadia, dove ci sarà bisogno del tuo intervento purificatore!"»

L’esperienza onirica della regina ci incoraggiò a sperare ancora di più nel ritorno del principe vendicatore. Il quale probabilmente si sarebbe rifatto vivo a capo dello sterminato esercito del glorioso nonno materno, con l'obiettivo di fare giustizia e di mettere le cose in regola nella regione edelcadica. Ma poco dopo, non badando più a quell’evento da noi tanto bramato in quel momento, ci tenni ad assicurare al mio re:

«Nobile mio sovrano, indipendentemente da se ci sarà o meno l’avvento del tuo eroico primogenito nella nostra Dorinda, ti prometto che darò filo da torcere all’oppressore dei Dorindani. In ogni istante della vita che mi rimane, inciterò i miei concittadini a ribellarsi al re Cotuldo il quale non può che rappresentare per tutti noi un inviso despota, che bisogna abbattere insieme con il suo esoso malgoverno. Io stesso capeggerò una rivolta armata contro l’usurpatore e lo combatterò con tutte le mie forze, fino a quando egli non sarà costretto a capitolare e non avrà lasciato la nostra città, oltre che i nostri territori. Alla fine ti permetterò di riprenderti il seggio regale, che ti è dovuto per legge e per destino! Questa è la solenne promessa che ti faccio, mio nobile re e amico mio, che cercherò di mantenere con ogni mezzo e ad ogni costo!»

«Ti ringrazio, Lucebio, per i tuoi buoni propositi a mio favore! Ma stai attento a quello che fai, poiché non vorrei che tu ci rimettessi la pelle! Il re Cotuldo ha al suo servizio un esercito bene organizzato, il quale non avrà difficoltà a disperdere coloro che si troveranno a combattere insieme con te per una giusta causa. Infatti, prevedo che i tuoi uomini saranno male armati e di scarso valore militare. Naturalmente, avrai bisogno di disporre di molte ricchezze per portare avanti questa tua sfida dalle pretese tanto nobili quanto ardue. Perciò metto l’intero mio tesoro a tua disposizione, di cui i nostri nemici sicuramente non sono riusciti ad impadronirsi, ignorando dove cercarlo. Una volta che sarai in grado di accedere ad esso, vi potrai prelevare tutte le ricchezze che ti serviranno per conseguire il tuo scopo, stando attento che nessuno mai venga a conoscenza di esso oppure ti segua, mentre raggiungi il luogo dove è depositato. Un giorno, quando egli si rifarà vivo, svelerai il nostro segreto solamente al mio primogenito Iveonte, affinché egli ne venga in possesso e ne faccia uso con saggezza. Perciò lascio a te tale delicato compito, quando ti sarà richiesto dalla circostanza!»

Una volta che il sovrano di Dorinda mi ebbe confidato come entrare nel grande forziere di corte, mi accomiatai dai due regnanti, i quali adesso apparivano alquanto risollevati. Ma nel momento che li lasciavo soli nella loro cella, essi mi fecero davvero una gran pena. Per cui, dopo essere uscito dal carcere, mi ritrovai con un animo abbattuto che non voleva accettare la nuova realtà, quella che stava mettendo a dura prova gli ex regnanti di Dorinda. A causa loro, mi sentivo vivere una esistenza che ripudiava perfino me stesso, per non essere in grado di rendere liberi quei due poveretti. Essi, come era evidente, si stavano consumando nei reparti carcerari come due torce, la cui fiamma, poco alla volta, si andava affievolendo sempre di più. Lo dimostravano le sue lingue ignee che divenivano sempre più esili e meno volubili, siccome andavano perdendo in continuazione il loro iniziale vigore e la loro luce, la quale si lasciava scorgere ormai fioca.

Uscito dalle carceri dorindane, volai a casa del mio amico Sosimo e lo misi al corrente di quanto ero venuto a sapere sul nostro re Cloronte e sulla regina Elinnia. Allora anch'egli e la sua famiglia furono lieti di apprendere che i nostri amati regnanti erano ancora vivi. Gli parlai pure del mio progetto di volere fondare una società segreta, i cui proseliti avrebbero dovuto opporsi all'illegittimo monarca, fino a rendergli così l’esistenza massimamente spiacevole. Sosimo accolse con gioia quanto intendevo fare in Dorinda a favore del nostro ex re Cloronte, che i Dorindani seguitavano a considerare il loro sovrano. Inoltre, egli mi consigliò di non fare risultare in città la scelta del luogo di ritrovo dei ribelli, dove più facilmente i soldati dell'usurpatore avrebbero potuto scoprirlo. Invece era meglio che gli oppositori al re Cotuldo si riunissero fuori città, in un posto appartato, dove avrebbero potuto anche esercitarsi nelle armi. Avendogli dato retta, da parte dei miei primi rivoltosi, si procedette ad un'attenta ispezione dei dintorni di Dorinda. Al termine della quale, a unanimità si optò per questo luogo in cui ci troviamo adesso, poiché esso si presentava il più sicuro in tutti i sensi; inoltre, non era molto distante dalla nostra città.

Dopo aver ultimato il mio racconto, il quale ha riguardato la tragica sorte che toccò al re Cloronte, alla città di Dorinda e al suo popolo, mi ritrovo con un cuore angustiato al massimo. Ma sono sicuro che, dopo la mia narrazione che ha riguardato la triste storia di Dorinda e del suo re Cloronte, essa ha suscitato anche in voi molta compassione. Inoltre, vi ha spinti a nutrire parecchio sdegno nei confronti dei malfattori sovrani che si macchiarono di tanto esecrabile abominio. Nel narrarvela, mi auguro di essere stato un fedele cronista e un chiaro espositore dei fatti! A questo punto, però, siccome si è fatta già notte inoltrata e i grilli continuano a disseminare i campi dei loro monotoni canti, non ci resta che andarcene tutti a dormire, allo scopo di far riposare per bene il nostro corpo. Perciò, baldi giovanotti, augurandovi una notte serena, me ne vado velocemente a letto. Vi raccomando di fare la stessa cosa anche voi, non appena mi sarò ritirato nel mio alloggio per darmi ad un confortevole sonno! A domani mattina, quindi, amici miei!