130°-DORINDA DIVENTA TEATRO DI MASSACRO E DI SACCHEGGIO

A due anni esatti da quello spiacevole episodio, dal quale era uscito vittima designata il piccolo Iveonte, i regnanti di Dorinda divennero genitori di una nuova creatura. Essendo essa una femminuccia, le fu dato il nome di Rindella. Allora, per festeggiare il fausto evento, il sovrano invitò nella sua reggia tutti gli altri re dell'Edelcadia, i quali vi parteciparono con magnifici doni per la neonata principessina. Dalla sola Actina non giunse alcuna delegazione, siccome, dopo l'uccisione del suo giovane re Godian, avvenuta nove anni prima, la città era rimasta priva del proprio sovrano. La regina Talinda, pur avendovi preso le redini del potere, affranta com'era in quel momento dall'immenso dolore, si disinteressava completamente del governo del suo popolo. Perciò lasciava campo libero al cognato Verricio, il quale si era dato ad agire nella Città Santa, come se fosse lui il suo legittimo monarca con tutti i poteri. A mio avviso, madre natura, in quella circostanza di gaudio, doveva tenere ambedue gli occhi bendati, se fece pervenire nella reggia di Cloronte un clima di morte e di conflittualità, anziché avvolgerla in un'atmosfera di festa e di giocondità. Per la quale ragione, seguirono dei momenti tragici e fatali a danno della città di Dorinda e del suo sovrano. Né poterono evitarli il re Cloronte e il suo popolo, che compiaciuto lo amava per la sua giustizia e per la sua immensa bontà.

Nella reggia si era ormai al terzo giorno di festeggiamenti, per cui in ogni sua parte era un susseguirsi di divertimenti, di danze, di giochi, di banchetti e di schiette risate. Le quali cose andavano allietando l'intero ambiente reale, poiché ora esso, come non mai, si presentava pervaso di giubili rasserenanti. A un tratto, però, un fatto imprevisto ed imprevedibile, nonché raccapricciante sotto tutti gli aspetti, si diede a minare alla base quel calore di gioia onnipresente, spazzandolo via in pochi attimi. Ve lo sostituì, invece, con una nuova situazione, la quale di certo non somigliava per niente alla precedente. Al contrario, fin dal suo primo manifestarsi, essa si presentò con gli attributi più foschi e più neri. Per tale motivo, in breve tempo, essi eclissarono nella reggia ogni preesistente forma di letizia, di pace e di gaio benessere, dal momento che si erano preparati a scatenarvi dei drammatici risvolti. L'ora era quella prandiale, per cui tutti i convitati erano riuniti intorno al desco. Questo, oltre ad essere di grandi proporzioni e a forma di ferro di cavallo, si presentava imbandito così sontuosamente, che meglio non avrebbero potuto fare. Le numerose e gustose pietanze, anziché essere portate in tavola singolarmente dalla servitù di corte, vi si trovavano già bell'e pronte per essere consumate dai banchettanti, secondo il gusto di ognuno di loro. Anche con i pregiati vini si era seguito lo stesso criterio, per cui i commensali avevano la possibilità di consumare i cibi e le bevande, secondo la loro predilezione e secondo la successione temporale di loro preferenza. Insomma, si trattava di una vera consumazione al buffet, come avremmo detto al tempo d'oggi.

Quella beata circostanza, purtroppo, per l'impreparato sovrano di Dorinda, ben presto si trasformò in un terribile momento inatteso e funesto. Anzi, divenendo un vero incubo per lui, senza preavviso lo avrebbe gettato in pasto ad una grande disperazione! Infatti, senza che nessuno si accorgesse di lui, a un certo punto, Nucreto, il terzogenito del re di Dorinda, impugnò un giavellotto, che era appeso ad una parete. Poi, sollevandolo con il braccio, lo scagliò con tutta la forza in direzione della grande tavola semicircolare. Nel fare ciò, egli non aveva dato alcun peso al fatto che intorno ad essa ci fossero tanti nobili banchettanti. Costoro se la stavano passando facetamente, dediti come erano a mangiare, a bere, a divertirsi e a sbellicarsi dalle risa. Quanto al principino, sebbene avesse l'età di sette anni e mezzo, egli si presentava già con la statura di un vero adolescente. Per cui essa gli aveva permesso di effettuare un lancio secco e vigoroso, ma in maniera del tutto irriflessiva, cioè senza che avesse preso alcuna mira a qualcosa o a qualcuno.

La sfortuna volle che l'arma, fendendo l'aria, andasse a raggiungere la collottola di uno dei convitati. Il quale, in tale circostanza, risultò essere il vecchio re Amereto, ossia il sovrano della città di Casunna. Il giavellotto, avendogli trapassato da parte a parte il collo, adesso faceva intravedere la sua punta insanguinata sul lato anteriore della parte anatomica colpita. Il colpo non diede all'ottantenne sovrano neppure il tempo di accorgersi che l'esistenza gli stava venendo meno. Così, non appena ebbe emesso il suo ultimo respiro, lo si vide accasciarsi come uno stelo appassito. In verità, dopo essere morto, egli continuò a restare sul seggio con il corpo immobile, facendo perciò scorgere la sua testa priva di vita riversa sul desco. A quel tragico ed orribile evento, un profondo senso di amarezza e di indignazione pervase gli animi degli altri sei re edelcadici, che erano ospiti del re Cloronte. In un primo momento, essi erano rimasti solamente esterrefatti per l'accaduto e si mostravano incapaci di esprimere un qualunque altro tipo di sentimento. In seguito, però, nel loro animo all'indignazione subentrò un livore smisurato e sprezzante nei confronti del sovrano dorindano. Per questo, in cuor loro, iniziarono ad odiarlo e a maledirlo, come nessun'altra persona al mondo! Anche il re Cloronte appariva allibito, oltre che essere confuso ed imbarazzato come non mai. Sebbene fosse preda di quel suo stato confusionale, egli ugualmente tentò di dipanare a qualunque costo quella difficile ed ingarbugliata situazione, ma senza successo. Essa, lungi dall'avere uno sbocco rapido e risolutore, per il povero re rappresentò una parentesi inconcepibile e fuori luogo. Perciò, in quegl'istanti terribili e frastornanti, essa lo attanagliava nel cordoglio peggiore che potesse esserci.

Da parte sua, una volta compreso che il suo gesto irragionevole aveva provocato un danno irreparabile, Nucreto non perse tempo ad abbandonare il luogo, da cui aveva lanciato l'arma micidiale. Comportandosi in quel modo, il ragazzo non immaginava neppure lontanamente di aver lasciato il padre, nei confronti dei suoi ospiti, in un grandissimo disagio. Magari lo avesse scorto qualcuno, mentre egli attuava il suo gesto inconsulto! In quel caso, l'infelice re dorindano, oltre a giustificare quanto era successo con l'incoscienza del figlio, avrebbe provato anche la sua estraneità all'orrendo misfatto. Invece così non fu, siccome la sorte aveva deciso altrimenti, per precludergli ogni possibilità di dimostrare agli altri sovrani la sua innocenza e discolparsi con loro! Stando così le cose, l'afflitto e disorientato re Cloronte vide calare su di sé una onta vituperosa, sebbene lo sventurato ignorasse quella colpa che lo condannava a tale castigo interiore, infondendogli perfino una forte ripugnanza di sé stesso! L’interdetto sovrano, essendo venuto a trovarsi in balia di un deprimente sconforto, all'improvviso avvertì dei forti capogiri. Per questo si sentì rintronare la testa da sordi rumori, i quali gliela frastornavano con forti ronzii e gliela facevano precipitare in un pozzo senza fondo e totalmente privo di luce.

In quella scabrosa evenienza, siccome permanevano in lui tali gravissime condizioni psichiche, il monarca di Dorinda non riusciva a prendere in mano la situazione. Per cui ogni suo intervento per discolparsi in un modo qualsiasi, come i suoi ospiti si attendevano, rimase disatteso a lungo. Con esso, egli avrebbe dovuto fornire una spiegazione plausibile di quell'atto delittuoso, il quale si era consumato inaspettatamente sotto gli occhi di tutti, e dimostrare in quel modo la propria estraneità all'assassinio dell'ottuagenario re Amereto. Al contrario, la sua mancata tempestività nel risolversi e nell'indicare la vera causa di quell'episodio inspiegabile e sconvolgente spinse gli altri sovrani a mettere in stato di accusa il re Cloronte. Costui, da parte sua, non sapeva come giustificarsi di fronte a quel crimine commesso da mano ignota. Allora gli stessi re, non supponendo che egli non avrebbe mai potuto dimostrare la sua innocenza in quel delitto, lo considerarono personalmente responsabile di ciò che era accaduto ai danni del loro collega della città di Casunna. I suoi accusatori, inoltre, gli rinfacciarono che il suo atteggiamento passivo e per niente autodifensivo avallava la sua colpevolezza. Perciò gli scellerati non provarono a mettersi nei suoi panni, al fine di rendersi conto del dissesto psichico che il poveretto stava vivendo, dopo essere stato scaraventato nell'allucinante circostanza. Essa, in quei momenti ossessivi, gli pesava sul capo alla guisa di un opprimente macigno e gli martoriava l’animo in maniera esacerbante. Non bastando ciò, lo faceva soffrire intimamente, come nessuno poteva immaginare!

In quella circostanza orrenda, dunque, il re Cloronte stranamente non badava a scagionarsi per niente; anche perché, se avesse tentato di farlo, ciò non gli sarebbe stato possibile. Per la quale ragione, egli era intento soltanto ad imprecare con la mente contro il fallace Ghirdo e a maledirlo, siccome era stato lui a metterlo in passato nei guai presenti. Ora si avvedeva che a corte il malvagio mago, garantendo a tutti il contrario di quanto sarebbe successo in avvenire, intenzionalmente aveva voluto seminarvi una caterva di sciagure. Le quali si sarebbero date un gran da fare per colpire la sua Dorinda, sé stesso e il suo popolo.


La notizia dell'uccisione del re Amereto, quasi volando sul dorso di un'aquila, arrivò ben presto a Casunna e pervenne all'orecchio del principe Cotuldo, il primogenito del sovrano assassinato. Egli, in assenza del padre, governava la città in veste di reggente. Ma non appena ebbe appreso il tragico evento di cui era rimasto vittima il genitore, immediatamente partì per Dorinda e la raggiunse con la propria scorta personale. Volendolo presentare succintamente, il giovane principe ereditario non aveva preso neppure un grammo di saggezza dal padre, il quale si era sempre dimostrato di saper governare con equità il suo popolo, presentandosi ai suoi sudditi un sovrano nobile e generoso. Ma il figlio Cotuldo, avendo una indole opposta a quella paterna, era un cultore dei vizi peggiori che una persona potesse avere. Per la qual cosa, gli riuscivano congeniali l'arroganza, la spregiudicatezza, la malvagità e la crudeltà. Tali gravi difetti erano i segni evidenti della paurosa penuria di principi morali che si riscontrava nel suo animo.

Una volta davanti alla salma del padre, il protervo principe, pur fingendosi enormemente compunto, versò appena poche lacrime, le quali, per chi lo conosceva bene, potevano essere soltanto di coccodrillo. Esse erano da riferirsi più alla gioia che al dolore, poiché era risaputo che egli ambiva ardentemente a succedere al padre nel governo di Casunna. Per tale motivo, si augurava che il suo trono venisse a restare al più presto vuoto. Forse, se ne avesse avuto la possibilità o se non gli fosse mancata l'opportunità, sarebbe stato lui stesso ad eliminare il vecchio genitore e a liberarsene così definitivamente! Quando poi ebbe terminato la sua finta parte di persona costernata, Cotuldo incominciò ad inveire contro il re Cloronte. Lo additò alla riprovazione degli altri sovrani, in quanto responsabile della morte del suo genitore, per non aver saputo salvaguardare con efficienza l'incolumità dei suoi illustri ospiti. Infine pretese che il re di Dorinda non perdesse più tempo a consegnargli l'esecutore materiale del brutale assassinio. Ma come poteva il sovrano dorindano accondiscendere alla sua pretesa ed accontentarlo, se neppure a lui non era noto né chi fosse stato l'assassino del suo collega né dove rintracciarlo? Ciò nonostante, furono vani i suoi tentativi di convincere il giovane principe che un fatto del genere gli era umanamente impossibile, considerato che egli ne sapeva quanto lui sull'efferato regicidio. Invece l'erede al trono di Casunna, il quale poteva già essere considerato virtualmente il re di quella città, continuò a manifestare una sfrontatezza riluttante verso il mite e paziente re Cloronte. Lo assaliva selvaggiamente senza dargli tregua, quasi fosse un delinquente comune.

Alla fine, poiché egli seguitava a torturarlo spiritualmente con la sua assillante richiesta, la quale risultava al mio amico re irrispettosa e lo faceva anche patire tantissimo, non mi fu difficile perdere le staffe. Perciò, senza nessuna esitazione, intervenni a redarguirlo, come gli si conveniva in quel momento, dandomi a dirgliene quattro:

«È tempo che tu la smetta di trattare il mio nobile sovrano, quasi egli fosse un tuo suddito, e di abusare della sua pazienza! Il re Cloronte ti ha già chiarito la sua posizione nell'orribile misfatto, di cui è rimasto vittima il saggio re tuo padre. Inoltre, egli di giustificazioni te ne ha fornite già fin troppe, perché tu non possa comprenderlo! Invece ti ostini caparbiamente a non dartene per inteso e, simile ad un cane rabbioso, sbraiti senza senso e senza moderazione. Avrei proprio voluto che qui ci fosse stato il padre del mio sovrano, il glorioso re Kodrun! Con lui sì che avresti rigato dritto e non ti saresti azzardato neanche per idea ad usare un simile tono, avendo il timore che egli non avrebbe tardato a prenderti a legnate sulla schiena! Quindi, se davvero ci tieni che il re Cloronte scovi l'insano assassino del tuo regale genitore e te lo consegni appena possibile, dàgli prima il tempo di ordinare una inchiesta. Solo così l’intero personale di corte potrà essere inquisito a tale proposito!»

Alle mie parole di rimprovero, il principe Cotuldo, almeno per finta, si decise ad abbassare la cresta, dandolo a credere al mio re e agli altri sovrani, che erano presenti. Egli, che aveva già architettato un suo piano ai danni del re Cloronte e della sua città, simulò con astuzia l'accoglimento della mia proposta. Perciò, fingendosi pentito di quanto detto, si espresse in favore di essa con le seguenti parole:

«Forse ho avuto torto a non dare tempo al tempo e chiedo venia per essere stato assai precipitoso a pretendere cose che richiedono del tempo, prima di essere scoperte. Per la quale ragione, non dovevo esigere dal re Cloronte la consegna immediata dell'assassino del mio povero genitore, quando non gli è stato dato ancora un volto. Allora sono disposto ad attendere fino ad un mese, prima che mi venga consegnato il perfido uccisore del mio povero genitore. Considero il tempo da me indicato più che ragionevole, per lo svolgimento e la chiusura dell'inchiesta, la quale nel frattempo sarà disposta. Nell'attesa che le indagini portassero a qualche risultato concreto, è stata una giusta decisione quella di mummificare la salma del mio genitore. Così, durante le sue esequie, verrà evitato al popolo casunnano di vederlo con le membra già decomposte e il volto terribilmente sfigurato dalla putrefazione in stato avanzato! Perciò ringrazio chi ha fatto eseguire la sua mummificazione.»

Ciò detto, il principe Cotuldo chiese al re Cloronte di potersi appartare con gli altri re edelcadici, con i quali intendeva consultarsi sul giorno dei solenni funerali in onore del padre estinto. Insieme con loro, voleva altresì stabilire quando fare arrivare da Casunna il picchetto d'onore, quello che avrebbe dovuto accompagnare la salma mummificata dell'amato genitore nella sua città natale. A suo giudizio, in essa soltanto lui avrebbe potuto ricevere le dovute onoranze funebri con pompa magna e sarebbe stato consentito ai suoi sudditi di dargli l'ultimo vale. Il re Cloronte ingenuamente acconsentì, non sospettando nulla al pari dei suoi cortigiani e trovando lecite la richiesta dell'ignobile principe. Invece nella sua mente andava balenando ben altro di turpe e di malvagio. Inoltre, il poveretto, essendo impaziente di intentare al più presto il processo che avrebbe riguardato l'assassinio dell'amico re Amereto, egli non fece caso alla grave mancanza del futuro re di Casunna, il quale lo aveva appositamente estromesso dalla consultazione.

Quando poi il principe Cotuldo si trovò faccia a faccia con i sovrani delle altre sei città che erano ospiti del re Cloronte, non nascose a tutti loro quanto di infame covava nel proprio animo. Infatti, mostrandosi disinvolto e spregiudicato al massimo, con perfidia serpentesca si affrettò a fare ai suoi futuri colleghi il seguente discorso:

"Amici affezionati del mio defunto genitore, se voi sapeste quali dolori lancinanti tormentano il mio animo, a causa del proditorio assassinio che ha subito il mio caro genitore, mi incitereste a vendicarlo senza pensarci due volte. Ma sappiate che Cloronte mente spudoratamente in questa sporca vicenda. Egli è stato il committente di un così atroce atto delittuoso, poiché ha armato la mano di chi lo ha perpetrato. È mai possibile che vi fidiate di colui che finge e ha ogni responsabilità nell'uccisione di chi è stato il vostro caro amico di un tempo? Molti indizi mi portano a credere che una uguale sorte attende pure voi tutti. Ne sono così convinto, che ci scommetterei la testa! Perciò vi consiglio di non fare affidamento sulla falsa bontà del re di Dorinda, il quale è soltanto un ipocrita. Al contrario, evitate di lasciarvi sorprendere da lui e adoperatevi per prevenirlo nelle sue subdole mosse. Come? Ve lo spiego io.

Bisogna prendere il sopravvento su di lui, prima che egli abbia il tempo di avvedersene. Abbattiamo Cloronte, prima che egli faccia soccombere tutti noi! Così faremo cessare, una volta per tutte, il primato che Dorinda ha sulle nostre città e lo strapotere che essa esercita su di loro! Dunque, facciamo venire tutti e sette i nostri eserciti a prendere il corpo esanime di mio padre, anziché la prevista scorta di Casunna. In questo modo occuperemo quella che è considerata l'Invitta Città e daremo al suo re il benservito, che può essere unicamente la prigione. Dopo la nostra vittoria, ossia ad occupazione ultimata di Dorinda, penseremo all'equo criterio con cui spartirci l'opulento bottino dorindano."

Da parte loro, quei re farabutti non osarono opporsi all'infame disegno architettato dallo spudorato principe ereditario di Casunna; né gli chiesero su quali indizi egli avesse fatto basare i suoi sospetti. Al contrario, non esitarono a mostrarsi immemori degli infiniti benefici ricevuti prima dal padre re Kodrun e poi dallo stesso figlio re Cloronte. Perciò, avidi com'erano di estendere i loro domini e di impadronirsi di nuove ricchezze, essi preferirono affidare ogni loro decisione alla ingordigia e alla disonestà, appunto come consigliava il giovane figlio del re Amereto. La qual cosa spinse i sei meschini sovrani a ritenere la proposta avanzata dal principe Cotuldo, di fatto già re di Casunna, un ottimo suggerimento da mettersi al più presto in pratica e una opportunità insperata da non lasciarsi sfuggire, presentandosi essa vantaggiosa per tutti loro.

Ma come non fare insospettire il re Cloronte del loro tradimento? Di sicuro egli, una volta messo al corrente dello sconfinamento dei loro sette eserciti nei territori dorindani, subito lo avrebbe considerato un proditorio atto di aggressione e di guerra non dichiarata. La loro presenza nelle vicinanze lo avrebbe spinto a trincerarsi nella sua inespugnabile Dorinda. Inoltre, il sovrano dorindano di sicuro non si sarebbe astenuto dal rendere propri ostaggi preziosi i re suoi ospiti per usarli in seguito come assi nella manica. Si deliberò allora di attuare il loro turpe piano in due notti consecutive. Precisamente, a decorrere da quel giorno, sarebbero state la ventisettesima e la ventottesima notte, l'ultima delle quali coincideva con il novilunio. Difatti essa non avrebbe fatto guardare oltre il metro di distanza ai soldati che sarebbero stati di guardia alle porte della città e li avrebbe indotti a non sospettare nulla.

Così, quando giunse la ventisettesima notte, i loro eserciti sconfinarono e dilagarono invisibili per i territori dorindani. Inoltre, dopo averla chiusa in un cordone umano lungo più di ottanta chilometri, essi si appostarono a poche miglia dalla superba città di Cloronte per non farsi avvistare. Nella giornata che seguì ad essa, gli eserciti invasori passarono ad isolarla dal resto dell'Edelcadia, mediante una linea di demarcazione. Essi si diedero poi a vigilare, perché nessuno superasse tale linea di appostamento, con l'intento di raggiungere la città dorindana. Invece veniva consentito di superarla soltanto alle persone e alle carovane che provenivano da essa con l'intenzione di allontanarsene. Quel rigido provvedimento era stato preso, in attesa che giungesse la tetra notte che sarebbe dovuta risultare quella fatale agli ignari Dorindani.

A Dorinda, nel frattempo, il principe Cotuldo si era premurato di far presente al re Cloronte che in serata era previsto l'arrivo da Casunna del picchetto d'onore. A tale riguardo, gli aveva chiesto se voleva essere così gentile da non lasciare i suoi uomini fuori le mura all'addiaccio, qualora si fossero presentati nella nottata. Il sovrano non si era opposto alla sua richiesta, per cui aveva dato disposizione ai soldati che prestavano servizio notturno alle porte di farli entrare, a qualunque ora della notte essi si fossero presentati alle porte.

Già al primo calare delle tenebre, i numerosi contingenti di truppe dei sette eserciti alleati si misero immediatamente in marcia per avvicinarsi a Dorinda. Così, quando non era ancora mezzanotte, essi erano già sotto le mura della nostra città. I loro movimenti, siccome si erano svolti nel buio e alla cieca, non erano stati scorti da nessuno dei soldati che erano di ronda lungo la merlatura delle cortine e delle torri. Costoro non notarono neppure la presenza di tanti armati, poiché una notte maledettamente illune giocava a favore degli eserciti alleati. Essi vi restavano appostati senza potere essere visti da nessuno, simili a soldati sciacalli nascosti, in attesa di darsi a stupri e a depredamenti di ogni sorta nelle varie strade dorindane.


La mezzanotte era appena trascorsa, allorquando un drappello di Casunnani si presentò alle porte di Dorinda, alle quali si mise a bussare ripetutamente e con fermezza. Allora le sentinelle che erano di guardia, attraverso lo spioncino, gli chiesero chi fossero e che cosa volessero. Appreso poi che essi erano i soldati che facevano parte del picchetto d'onore proveniente da Casunna, aprirono all'istante le porte. Logicamente, non potendo sorgere in loro alcun sospetto, le guardie notturne non si preoccuparono di dare una sbirciata intorno, neppure un poco oltre la punta del proprio naso. Del resto, esse come potevano sospettare qualcosa di losco, se si stavano attenendo alle disposizioni impartite dal loro diretto superiore, cioè l'ufficiale di picchetto? Secondo le quali, essi avrebbero dovuto fare entrare in città i soldati casunnani a qualunque ora della nottata si fossero presentati alle porte, appunto come avevano fatto al loro arrivo notturno. In quel momento, le sentinelle non si erano rese conto che stavano spalancando le porte alla morte, fraternizzando di fatto con essa. Infatti, le tenebre notturne riservavano ai Dorindani delle orribili sorprese, anziché il consueto sonno sereno, quello che spesso si mostra dispensatore di magici sogni a quanti vi si abbandonano fiduciosi!

Una volta entrati in Dorinda i primi armati, senza perdere tempo, essi si avventarono contro quelli che gli avevano aperto le porte, massacrandoli senza pietà. Poi attesero di ricevere man forte dai numerosi contingenti nascosti, i quali vennero fuori anch'essi dall'oscurità. Insieme, allora si misero a liquidare le ronde in servizio sulle cortine e sulle torri delle mura, nonché quelle che pattugliavano i vari quartieri cittadini. Dopo che furono portate a termine quelle prime avvisaglie fulminee da parte di un consistente numero di soldati, sette interi eserciti penetrarono nella città di Cloronte, dandosi a dilagare come ombre nelle sue strade, dove la gente era in preda al sonno. Così, operando con il massimo silenzio, occuparono la nostra città da un capo all'altro.

Stava oramai morendo il luccichio delle ultime stelle, quando ebbe inizio il grande massacro, quello che già due anni prima era stato preannunciato dal sogno fatto dal sovrano di Dorinda. Invece c'era stato chi aveva preferito apposta che gli si desse una versione distorta e non venisse interpretato nel senso giusto. A mio parere, il mago Ghirdo, per un suo recondito piano, aveva voluto metterci lo zampino con il solo scopo di fare andare le cose alla rovescia!

Mentre si dormiva ancora profondamente in ogni suo angolo, dappertutto all'improvviso si udirono suonare moltissimi corni. Allora i Dorindani, essendo stati svegliati da quei suoni cupi e sinistri, d'istinto aprirono gli usci delle proprie abitazioni e si riversarono nelle vie adiacenti svestiti e disarmati, cercando di comprendere ciò che stava succedendo a quell'ora della notte. Invece fuori li attendeva una sorpresa tutt'altro che piacevole, poiché essi si videro aggredire repentinamente da numerose schiere di soldati armati fino ai denti. Senza dare spiegazioni a nessuno, i gendarmi iniziarono ad assalirli, a travolgerli e a massacrarli con i loro colpi, i quali si mostravano tremendi e falcidianti. I Dorindani, da parte loro, appena si resero conto della concreta minaccia che li sovrastava e li andava sterminando, ricorsero pure loro ad armi di ogni specie. Cioè, si diedero ad impugnare quelle che per prime capitavano loro fra le mani, pur di contrastare gli assalti massacranti dei nemici. I quali erano sbucati in numero soverchiante da ogni parte. Per come si stavano mettendo le cose, si poteva affermare che la loro disperata e fiera resistenza alle orde dilaganti degli invasori era capace solo di raggranellare degli scarsi successi, da stimarsi di nessun conto!

Ad un tratto, Dorinda era diventata teatro di vaste manovre militari, le quali la raggiungevano fin nei vicoli più sperduti e nascosti. Perciò essa iniziava a trasformarsi in ogni via in una confusa farragine di forti grida di disperazione, di urla, di maledizione, di implorazione, di lamenti penosi, di schianti, di abbattimenti di usci e finestre, di un affannoso fuggifuggi generale. A quel punto, in ogni angolo della città era impossibile non assistere ad un subbuglio di scontri feroci, di attacchi e contrattacchi spietati, di forzate ritirate senza scampo e di inseguimenti senza sosta. Nei quali gli inseguiti erano i Dorindani e gli inseguitori erano i numerosi soldati degli eserciti alleati. Inoltre, non mancavano, da parte delle soldatesche nemiche, atti di libidine e di violenza carnale, ai danni delle giovani dorindane. Perciò esse venivano stuprate e spesso anche seviziate, se tentavano di opporsi ai loro stupratori. Il più delle volte, le poverette subivano la violenza carnale, dopo essere state testimoni della uccisione dei loro mariti o dei loro genitori o dei loro fratelli. I quali poco prima erano periti per mano dei loro feroci violentatori, nel vano tentativo di difenderle da loro!

La reggia di Dorinda, invece, anche se era stata interamente accerchiata, per il momento non veniva ancora assaltata dalle milizie nemiche, siccome esse attendevano l'ordine di poterlo fare dai loro sovrani, i quali si trovavano all'interno della reggia stessa. Invece i soldati, che svolgevano il loro servizio presso la caserma reale, si erano contrapposti a tali milizie prepotenti. Se fosse stato necessario, essi sarebbero stati disposti a sacrificarsi per il loro amato sovrano Cloronte, pur di impedire ai prepotenti invasori di penetrare nella sua reggia e di nuocere sia a lui che alla sua famiglia.

Anche a corte non si stavano vivendo delle ore serene. I suoni dei corni erano giunti anche in tutti i locali della reggia, svegliando il re Cloronte e i vari cortigiani. Ogni corridoio del palazzo reale, perciò, era diventato un andirivieni di persone spaventate ed esagitate. Sebbene fossero ancora insonnolite, esse si mostravano in preda ad un panico, il quale le privava della pace. Insomma, dovunque regnava il caos generale, intanto che una inquietudine tremenda si era impadronita di ognuno, specialmente tra la servitù. I domestici, infatti, correvano di qua e di là senza meta, quasi fossero impazziti. Mentre scappavano confusi e si tormentavano, essi andavano facendo a quelli che incontravano domande su quanto stava accadendo, ma senza ricevere qualche risposta.

Il re Cloronte, considerata la grande confusione che si era ingenerata nella sua reggia, che poteva diventare pericolosa da un istante all'altro, aveva richiesto l'intervento di un cospicuo numero di soldati. Egli intendeva così riportare alla calma tutte le persone che vivevano a corte e tenere in quel modo sotto controllo la situazione. Tale importante compito era stato assegnato a Surto, il quale era il comandante in capo di tutta la milizia dorindana ed era subentrato in tale carica al padre Tedo, il noto luogotenente del re Kodrun. Egli, da esperto uomo d'armi qual era, subito aveva compreso la gravità della situazione generale, cioè anche di quella che risultava all'esterno della reggia. Perciò non gli era stato difficile desumerne che si trattasse di un puro tradimento operato dalle altre città edelcadiche, naturalmente dietro espresso ordine dei loro regnanti, che adesso potevano solo ritenersi dei porci traditori. Allora, come suo primo atto bellico, Surto chiese ed ottenne dal re Cloronte l'autorizzazione a far piantonare da un centinaio di guardie gli alloggi che erano stati messi a disposizione degli altri sovrani. Così facendo, egli aveva mirato ad evitare che qualcuno di loro potesse tagliare la corda di soppiatto e raggiungere il proprio esercito, al fine di spingerlo ad occupare la reggia con un’azione di forza. La sua era stata una mossa estrema; ma che oramai non aveva più nessun valore.

Nel frattempo il re Cloronte, il quale in quei momenti difficili aveva deciso di restare con la propria amata consorte e con i propri cari figli, fremeva di sdegno e nutriva molto odio verso i re traditori e autori delle sue disgrazie. Non riusciva a capacitarsi della vile canagliata che era stata messa in atto da parte di quelli che aveva sempre considerati dei nobili galantuomini. Eppure egli adesso riceveva quel grave torto, nonostante si fosse sempre adoperato per fare in modo che Dorinda rinunciasse al suo primato nella potenza militare! Tirando le somme, l'ingenuo re soltanto in quella circostanza finalmente si rendeva conto che la sua politica di tolleranza e di riconciliazione, portata avanti nei rapporti con gli altri re, era risultata completamente un fallimento. Essa, come constatava in quelle ore critiche, stava provocando la rovina della sua città, del suo popolo e della sua famiglia. Soltanto adesso il sovrano dorindano si andava convincendo che era stato un grave errore l'aver dato incoscientemente ascolto al cugino Iveonte. Infatti, era stato lui a consigliargli di ridurre al minimo gli effettivi del suo esercito e di chiudere tutte le scuole d'armi della città. Invece una Dorinda, militarmente potente e con un popolo agguerrito, avrebbe senz'altro dissuaso gli altri re edelcadici dall'avventurarsi in un tradimento simile. Egli l'aveva voluta addirittura quasi inerme, contro il mio parere e quello autorevole di Tedo, avendolo noi due invitato in passato a ripensarci e a riconsiderare un atteggiamento di quel tipo. Anzi, non aveva voluto dare retta neppure al suocero, l'illustre Nurdok, il quale aveva mosso delle dure critiche alla sua politica, ritenendola troppo transigente in ogni aspetto. Il grande stratega lo aveva avvertito molti anni prima che un giorno, insieme con lui, ne avrebbero fatto le spese il suo popolo e la sua famiglia.

Durante l’occupazione di Dorinda da parte degli eserciti alleati, io stavo insieme con il mio abbattuto sovrano e con i suoi trepidanti familiari. Oltre a fare compagnia ad ognuno di loro, con ogni mezzo cercavo di tranquillizzare lui e la regina Elinnia. La fiera e nobile figlia del grande superum della Berieskania si teneva stretta tra le braccia la figlioletta, la quale ora aveva appena tre mesi. Invece i suoi due maschietti, l’uno di otto anni e l’altro di sette, le restavano saldamente aggrappati alla stola. Entrambi mostravano due occhietti lucidi ed atterriti, dentro i quali si riusciva a leggersi senza difficoltà il terribile dramma che stavano vivendo interiormente, fino a provarne un tremendo terrore!