129°-LA PUERIZIA DI IVEONTE TRASCORSA IN FAMIGLIA

La nascita del loro primogenito avvenne, quando i regnanti di Dorinda erano sposati da un anno. Essa fu accolta con immensa gioia dal re Cloronte e dalla regina Elinnia, i quali diedero al neonato il nome di Iveonte. In verità, fu il sovrano a pretendere che il loro primo bambino prendesse tale nome, poiché in quel modo intendeva onorare la memoria del cugino paterno. Egli era rimasto ucciso mentre veniva effettuata una partita di caccia, quasi contemporaneamente alla nascita del loro figliolo. Anche alla consorte piaceva quel nome; ella, però, avrebbe fatto volentieri a meno di darlo alla loro creaturina appena nata. Il motivo? Viene presto spiegato. Presso il suo popolo, cioè quello dei Berieski, dare ad un bambino il nome di un parente morto nello stesso giorno significava farlo andare incontro a mille sventure. Perciò la regina era stata contraria alla filantropica scelta del marito ed aveva voluto anche farglielo presente. Comunque, il suo parere contrario era dovuto più ad una questione di scaramanzia che non ad uno spirito di contraddizione!

Dopo i genitori e l'ostetrica Culda, la quale aveva aiutato la partoriente a metterlo alla luce, il primo a vedere l'infante fu l'indovino di corte, che era Virco. Il divinatore, quando fu davanti al neonato, si diede subito ad esclamare: "Fortunati te e tuo marito, sovrana di Dorinda, che siete diventati i genitori di questo pargolo eccezionale! La sua fama e la sua gloria non conosceranno confini spaziali e temporali. Quando egli sarà grande, vi assicuro che diverrà l'eroe senza rivali al mondo e sarà caro agli dèi giusti e generosi. Perciò siatene assai felici e gioite della buona sorte, la quale sarà dalla sua parte!"

La regina Elinnia apprese con orgoglio il presagio dell'illustre indovino di corte, il quale preannunciava per il suo primogenito uno splendido avvenire, come mai nessuno umano aveva avuto oppure avrebbe ereditato dal proprio destino. Ella lo riferì anche al consorte, quando fece ritorno a casa, un paio di ore più tardi. Dopo quella predizione di Virco, entrambi si affezionarono ancora di più al loro fortunato bimbo e si sentirono legati a lui in modo speciale. Per la quale ragione, durante la sua crescita, i coniugi reali seguitarono a mostrare la loro predilezione per il loro primogenito. Quel loro atteggiamento seguitò anche dopo che nacquero i suoi fratellini Londio e Nucreto, i quali vennero alla luce l'uno dopo un anno e l'altro dopo un biennio. Volendo essere obiettivo, quella parzialità dei sovrani non fece mai venir meno da parte loro un grandissimo affetto anche agli altri due figli minori, poiché essi erano ugualmente adorati da loro due. A questo riguardo, va fatto presente che quel loro atteggiamento preferenziale verso il primogenito, lungi dall'essere esternato dall'uno e dall'altra in maniera vistosa o morbosa, restava invece contenuto e coltivato esclusivamente nel loro intimo. Comportandosi come fatto presente, i regnanti dorindani intendevano evitare ad ogni costo di tradirsi agli occhi dei loro figli minori. Essi non volevano apparire agli stessi come dei genitori ingiusti che, peccando di parzialità, dispensavano le loro moine secondo un criterio irragionevole ed incomprensibile. Anche perché ad entrambi stavano a cuore la felicità e la serenità di tutti e tre i loro figlioli. Logicamente, quando essi si lasciavano influenzare da una simpatia particolare per il loro Iveonte, la quale non si manifestava mai eccessiva, i due genitori riuscivano a nasconderla benissimo. Infatti, sia il re che la regina giammai si sarebbero perdonata una mancanza, come quella che li avrebbe accusati di essere stati i responsabili della tristezza degli altri due figli. Il re Cloronte e la consorte, quindi, ben si guardavano dal cadere in un errore simile, poiché esso avrebbe potuto significare unicamente favoritismo ed ingiustizia per i due terzi della loro prole.

Nel frattempo, i minuti, le ore, i giorni, i mesi e gli anni trascorrevano veloci per il piccolo Iveonte, il quale cresceva intelligente e forte. Ma anche i suoi fratellini lo seguivano nella crescita, poiché pure la loro si rivelava per i due regnanti altrettanto sana e senza problemi di alcun genere. Fisicamente ed intellettivamente, però, il primogenito presentava delle note caratteristiche abbastanza differenti, le quali erano da considerarsi delle doti positive non comuni. Esse lo facevano brillare per l'intelligenza, per il coraggio, per lo spirito di comunicativa, per l'intraprendenza e per la bontà d'animo. Inoltre, egli sentiva uno straordinario affetto verso i suoi familiari, che dimostrava ai suoi fratellini e ai suoi genitori in maniera esemplare. Per cui ne veniva ricambiato in eguale misura da tutti loro. Agli occhi dei fratelli Londio e Nucreto, quelle spiccate note distintive possedute dal fratello maggiore risultavano speciali a tal punto, da spingerli a considerarlo come un mito e ad idolatrarlo già alla loro tenera età. Per questo, anziché invidiarlo, volontariamente gli si sottomettevano ed accondiscendevano ad ogni sua proposta. Ma il piccolo Iveonte, non ritenendosi superiore, non si anteponeva in nessun modo a loro due, quasi fosse un vero capo che vuole dettare leggi od imporsi a chicchessia. Invece cercava sempre di agire nei loro confronti a fin di bene, come se volesse proteggerli e difenderli di continuo.

Oltre che ai suoi parenti stretti, Iveonte si era affezionato alla mia persona; anzi, egli stravedeva per me. Già all'età di tre anni, il padre aveva voluto affidarlo alle mie cure, convinto che gli avrei affinato la mente. Egli era anche persuaso che io, più di tutti gli altri, avrei saputo trarne fuori una personalità di spicco. Ciò aveva consentito che tra di noi si instaurasse pure un rapporto di simpatia reciproca e di grande fiducia. Le quali cose ben presto fecero nascere tra di noi un'amicizia sincera e duratura. Essa, probabilmente, era stata favorita soprattutto dal fatto che io rappresentavo il suo simpatico ed amato docente; mentre lui era il mio bravo e ricettivo discente. Tale rapporto educativo, se in un primo momento aveva favorito la nascita della nostra magnifica amicizia, in seguito esso l'aveva cementata in modo stabile e durevole. Per questo, quando il principino aveva appena cinque anni, non voleva più rinunciare alla mia compagnia. A volte era perfino capace di fare a meno dei genitori e dei fratellini, pur di stare insieme con me. Infatti, il mio modo di fare e i miei pensieri continuavano a calamitare il suo interesse. Si poteva affermare che lo avvincevano più dei giochi che faceva con i suoi fratelli e delle moine che riceveva dai suoi genitori.

Mi cercava, come se io fossi il sole della sua mente e lui si attendesse da me che gliela rischiarassi; come se io fossi il sollievo del suo animo e lui si aspettasse da me che glielo consolassi; come se io fossi la forza della sua interiorità e lui mi invitasse a rigenerargliela da cima a fondo; come se io fossi una miniera di ossigeno e lui avesse bisogno di me per respirare e reintegrare le energie del proprio organismo, essendosi esse depauperate a causa dei tanti sforzi fisici ed intellettuali. Spesse volte mi accadeva di condurlo con me fuori città, tenendolo sulla groppa del mio cavallo sulla parte anteriore. Così ce ne andavamo galoppando per la campagna, dove lo interessavano soprattutto i voli e i gorgheggi degli uccelli, oltre che i morbidi svolazzamenti delle variopinte farfalle. Di regola, rientravamo prima di pranzo; ma talvolta partivamo già con l'intenzione di trattenerci nei campi fino all'arrivo del tramonto. In quel caso, però, a metà giornata, consumavamo la nostra colazione al sacco. In tale circostanza, per pranzare in pace, noi ci sistemavamo in un posto appartato e tranquillo, ossia quello che ci permetteva meglio di mangiare e di bere, senza essere disturbati da niente e da nessuno.


Iveonte aveva compiuto da poco i suoi sei anni, quando, approfittando di un'altra splendida giornata, decidemmo di uscire dalla reggia e di darci alla nostra ennesima passeggiata campestre. Fu durante la seconda sosta da noi effettuata che ci demmo a consumare il nostro frugale pasto di mezzogiorno, poiché a un tratto avevamo avvertito parecchia fame. Mentre mangiavamo, il ragazzo mi chiese candidamente:

«Vuoi dirmi, Lucebio, che cosa bisogna fare per volare, allo stesso modo degli uccelli? Spesso sogno che mi sposto nell'aria, come se volassi proprio come i volatili! Inoltre, nelle mie lunghe e belle volate, mi accompagnano sempre due bianchi pennuti, che trovo abbastanza simpatici! Allora vuoi rispondere alla domanda, che ti ho appena fatta?»

«Nessun uomo può volare, Iveonte, non avendo un paio di ali per darsi al volo attraverso l'aria. Per questo egli non potrà mai imitare gli uccelli! Ti consiglio di rinunciare a questo tuo ingenuo desiderio, il quale potrà essere solo irrealizzabile. Quindi, accontèntati dei voli che fai durante i tuoi sogni, se non vuoi illuderti invano! Mi sono spiegato?»

«Ne sei proprio sicuro, Lucebio, che non mi sarà mai permesso di volare? Secondo me, ti stai sbagliando, visto che c'è qualcuno che afferma il contrario! Secondo lui, quando sarò grande, io sarò in grado di muovermi nello spazio meglio degli uccelli, pur non avendo un bel paio di ali. Dunque, perché non dovrei credergli, se egli me lo ha assicurato? Sono convinto che gli farei un gran torto, se non avessi fiducia in lui!»

«Ah, ah! Davvero, Iveonte, c'è qualcuno che ti fa credere questo? Se non erro, è la prima volta che te lo sento asserire! Chi sarebbe poi la persona che ti riferisce una cosa così assurda, la quale può essere soltanto decisamente falsa? Per il tuo bene, mio principino, spero che tu non le abbia creduto neppure un poco, essendo la realtà ben diversa! Perciò non ti conviene credere a simili sue sciocchezze!»

«Mica ti ho detto che è stata una persona a garantirmi che un giorno mi sarà consentito di volare, mio caro Lucebio! Come pure neanche ti ho fatto presente che ho appreso tale novità su di me nella mia vita reale! Sappi invece che i fatti stanno tutto diversamente, come non potresti mai immaginare!»

«Allora, Iveonte, vuoi farmi il favore di mettermi al corrente della verità su questa fantastica storia, siccome non riesco più a seguirti per niente? Se non è stata una persona ad affermarti tale assurdità, non potendo trattarsi d’altro, e se il fatto è avvenuto nell'irrealtà, cos'hai da dirmi in merito? Ti prego di raccontarmi presto ogni cosa, prima che io perda la testa e cominci a dare i numeri anch'io!»

«Non ti avevo accennato, Lucebio, che nei miei sogni, quando mi do alle mie trasvolate, mi accompagnano sempre due pennuti? Ebbene, è stato uno di loro che, parlandomi con il nostro linguaggio, mi ha assicurato che, quando diventerò grande, senza meno sarò in grado di volare meglio di loro due. Quindi, per quale ragione non dovrei credergli? Sappi che esso non dice mai bugie!»

«Iveonte, adesso si spiega quanto mi hai attestato. Allora è stato durante il sogno che hai appreso queste cose, per cui esse non possono essere che irreali! Infatti, mai nessuna delle medesime potrà avverarsi nella realtà. Magari ha anche un nome questo tuo fantomatico amico volatile! Non è forse vero, piccolo amico mio? Oppure questa volta mi sono sbagliato sul tuo notturno amichetto volatile?»

«Certo che ce l'ha un nome, Lucebio! Anzi, ce lo hanno entrambi i miei amici pennuti! Ciascuno di loro mi ha svelato il proprio nome, dopo che glielo chiesto espressamente. Invece essi, senza averlo appreso da me e già quando ci siamo incontrati nel mio primo sogno, sapevano tutto di me, perfino il nome, facendomi stupire molto!»

«Sai che mi stai incuriosendo sul serio, Iveonte? Perciò sono ansioso di apprendere come si chiamano l'uno e l'altro tuo amico, che ti frequentano nella tua attività onirica. Perciò sbrìgati a farmi i loro nomi, poiché non vedo l'ora di sentirli pronunciare dalle tue labbra e di apprenderli! Così dopo sarà come se li conoscessi anch'io!»

«Ebbene, amico mio, l'uccello, il quale vola alla mia destra e mi ha parlato delle tante cose che ti ho riferito, si chiama Gonmo; mentre l'altro, che vola alla mia sinistra e non mi ha mai detto nulla che mi riguardava, si chiama Chiorro. Allora, Lucebio, ti piacciono i nomi dei miei amichetti pennuti? Se lo vuoi sapere, essi mi sono piaciuti, fin dal primo istante che li ho appresi da loro!»

«Anche a me essi piacciono davvero, Iveonte! Entrambi sono due bellissimi nomi, i quali non si dimenticano facilmente. Te lo garantisco! Adesso, però, non pensiamo più ai tuoi amici uccelli e ritorniamo al nostro reale presente! Sei d'accordo, mio principino?»

Subito dopo aver risposto al primogenito del re Cloronte, non potei fare a meno di mettermi a meditare su quella coppia di nomi, i quali mi erano tanto familiari. Stranamente, essi corrispondevano esattamente ai nomi dei miei due genitori maschi: il primo era quello di mio padre naturale e il secondo era quello di mio padre adottivo. Era mai possibile una coincidenza del genere? Stando così le cose, ero tentato perfino di dubitare sulla irrealtà dei sogni del piccolo Iveonte. Essi, per certi versi, tendevano a ricongiungersi sia con la realtà remota, della quale il ragazzo non poteva assolutamente essere a conoscenza, sia con la realtà appartenente al futuro. Allora chi c’era dietro i sogni del piccolo Iveonte? Chi ne reggeva le fila e li lasciava apparire irreali e reali allo stesso tempo? A strabiliarmi di più, era la presenza dei miei due genitori maschi nelle visioni oniriche del mio piccolo amico, anche se essi assumevano l'aspetto di un'autentica coppia di volatili. Ma che senso aveva poi far credere al ragazzo che un giorno egli avrebbe avuto la facoltà di volare? Si trattava forse di un linguaggio metaforico? Oppure il maggiore dei figli del re Cloronte da grande avrebbe ricevuto dagli dèi il dono del volo? La verità, come mi andavo rendendo conto, mi sogghignava e non si lasciava acciuffare da me, come avrei desiderato fare. Alla fine, dovetti desistere dal volerla avere del tutto in mio possesso e a mio servizio per poterla sperimentare in me come un assunto conforme alla realtà e dimostrabile con la pura logica. Ma mi rendevo conto che volevo pretendere cose assurde da colui che neppure conoscevo!

Essendosi accorto del mio sguardo straniato, intento com’ero a riflettere a tutto campo sui suoi sogni, Iveonte badò a distrarmi dai miei pensieri meditabondi, siccome voleva avermi tutto per sé in senso reale, senza che nessun pensiero mi distraesse. Per questo, rivolgendosi a me seriamente, egli mi si espresse con queste parole:

«Ehi, Lucebio, a cosa stai pensando? A un tratto, hai smesso di parlarmi e mi hai lasciato solo con gli uccelli di questa boscaglia! Non mi dire che sono stati i miei sogni a renderti così pensieroso! Se vuoi che non dia più retta a quanto mi dicono i miei amici pennuti, per me non ci sono problemi. Già da questo istante, credo solo a te e sono convinto che da grande non sarò in grado di volare! Adesso sei contento?»

«Stai tranquillo, Iveonte,» mi affrettai a mentirgli «stavo pensando a tutt’altro e i tuoi amici di sogno non c’entrano affatto! Ti chiedo scusa, se mi sono lasciato distogliere dalla conversazione che avevamo intavolato. A questo punto, però, essendo giunto il tempo di muoverci, andremo avanti con la nostra passeggiata. Sono convinto che essa continuerà a piacerti un mondo, come è stato fino a questo momento!»

Per la restante parte della giornata, non ci furono altri fatti di rilievo che riguardavano il principino. Ma quando ritornammo a casa verso il tramonto, eravamo entrambi stanchi morti. Il nostro corpo, il quale quasi non era più in grado di reggersi in piedi, voleva riposarsi a tutti i costi. In verità, solamente le mie ossa e i miei muscoli seguitarono a dolermi, almeno fino a quando non andai a letto, come se fossero fratturate le prime e rattrappiti i secondi. In Iveonte, invece, le une e gli altri, dopo appena qualche ora di riposo, desideravano già darsi di nuovo a scorribande di ogni tipo. Per cui il ragazzo non si sottrasse al loro invito e li assecondò immediatamente, quando i suoi due fratelli più piccoli lo invitarono a giocare con loro. Allora essi si diedero a mettere sottosopra l’intera reggia, non potendo trasferirsi nel patio situato intorno al palazzo, poiché si era fatto buio già da una mezzora. Invece, negli ampi ambienti di corte, i tre frugoletti lo stesso riuscirono a sfrenarsi e a divertirsi a non finire. Ovviamente, nel farlo, essi arrecavano un notevole disturbo alle persone adulte che convivevano con loro, mettendole a volte in grande disagio. Comunque, per tutti e tre, quel loro fare era del tutto naturale e da accettarsi perfino dagli adulti.


Oltre al sogno che vi ho appena riferito, un altro episodio, che ebbe ad accadere un mese dopo, mi fece trasalire ancora di più. Esso mi convinse che il primogenito del re Cloronte era destinato sul serio a grandi imprese, come vari indovini avevano vaticinato in tempi diversi. Amici miei, la vicenda, che sto per narrarvi, si svolse in piena estate e in aperta campagna. In quelle ore calde, io e il ragazzo ci stavamo godendo una nuova scampagnata, avendola intrapresa nel primo pomeriggio di una magnifica giornata di sole. In verità, Iveonte c'era arrivato mezzo assonnato nel fresco luogo in cui stavamo effettuando la nostra prima sosta. Me ne ero accorto, intanto che lo sorreggevo con le braccia e lo trasbordavo dalla groppa del mio cavallo a sopra il tappeto erboso della radura. Quest’ultimo si estendeva verde smagliante sotto i nostri piedi. Il suo sguardo, imbambolato ed assente, me ne aveva dato conferma con assoluta certezza. Perciò, dopo averlo adagiato per terra con molta cura, avevo stabilito di non svegliarlo, essendo persuaso che il sonnellino pomeridiano gli sarebbe giovato parecchio e gli avrebbe favorito una buona digestione. Invece io, intanto che egli se la dormiva, gli restai accanto seduto.

Così, mentre Iveonte si godeva il suo bel sonno, anch'io mi misi a riposare, tenendo la schiena appoggiata contro il tronco di un albero. Volendo poi evitare di addormentarmi, mi diedi a fare sbizzarrire la mia mente in alcune meditazioni. Di tanto in tanto, però, non mi astenevo dal lanciare qualche occhiata al volto tranquillo del principino, dal quale mi provenivano dei respiri regolari e distesi: essi erano dovuti al suo sonno, che mi appariva profondo e sereno. Fu proprio durante la sua dormita che il ragazzo incominciò a darsi ad un sonniloquio, da cui si evinceva che egli non parlava da solo, ma discorreva con una seconda persona, che aveva incontrata nel sogno. Adesso vi riporto l’integrale contenuto del dialogo che il piccolo Iveonte ebbe con l'altro parlante, privato però delle frasi di quest'ultimo, poiché non potevo ascoltarle.

«Mi dici chi sei, sconosciuto? Sono sicuro che non ti ho mai visto in passato in nessun posto, neppure nella reggia di mio padre. Ma poi come hai fatto ad apparirmi davanti tutto all'improvviso, senza farti scorgere per niente da me? Sei forse un mago, per cui operi magie?»

Alla sua domanda, dovette seguire la risposta del suo interlocutore, senza che il mio orecchio potesse captarla. Dopo la quale, il ragazzo riprese subito a parlare.

«Hai detto che ti chiami Sirmus e vieni da Androsen? Lo sai che non ho mai sentito un nome di persona come il tuo? La stessa cosa posso affermare del luogo, dal quale sei provenuto! Vuoi dirmi, per favore, dove è situato di preciso tale strano posto? Comunque, penso che esso sia molto lontano dalla mia città: non è forse vero?»

Seguì ancora una pausa, la quale indicava che si stava avendo il nuovo intervento dell’uomo appena conosciuto da lui. Ma poco dopo fu Iveonte a riprendere il discorso, dicendo:

«Androsen, quindi, si trova nella Valle dei Sogni Reali. Anche questa località è molto strana, Sirmus! Ma poi esiste per davvero questa valle? Sono convinto che nemmeno il mio amico Lucebio ne ha mai sentito parlare! Egli, se non lo sai ancora, conosce moltissime cose, più di qualunque altra persona al mondo! Ti invito a credermi!»

Seguì la terza pausa di silenzio, che si ebbe per lo stesso motivo. Dopo la quale, Iveonte badò a rispondere ancora al suo interlocutore, mostrandosi assai felice mentre si dava a parlare.

«Sirmus, certo che mi piacerebbe visitare la Valle dei Sogni Reali, se è incantevole, come mi hai affermato! Ma in che modo possiamo raggiungerla, se sei sprovvisto di cavallo? Se tu ne avessi avuto uno, con esso ci saremmo condotti insieme nella remota Androsen! Invece, appiedati come siamo, dobbiamo rinunciarci. Peccato che non ci possiamo andare, perché mi sarebbe piaciuto raggiungerla e divertirmi in quel luogo meraviglioso! Vorrà dire che vi perverremo al nostro prossimo incontro onirico, quando avremo a disposizione un cavallo!»

Dopo la quarta pausa, la quale era seguita al desiderio manifestato dal ragazzo, costui riprese il suo dialogo con l'altro, manifestando molta soddisfazione ed allegria.

«Veramente dici, Sirmus, che non ci occorre alcun cavallo per raggiungere la Valle dei Sogni Reali e che basta soltanto che io chiuda gli occhi perché ciò si avveri? Se è come tu mi assicuri, allora li chiudo subito. Così, dopo che avrò serrato tutte e quattro le palpebre, ci andremo senza perdere tempo. Allora io sono pronto a venire con te!»

A quel punto, il piccolo sonniloquo smise di parlare. Di lì a poco, però, anziché esserci il suo risveglio, accadde un fatto stupefacente. All'improvviso, il suo corpo, continuando a stare disteso, iniziò a sollevarsi lentamente dal suolo. La levitazione di Iveonte durò, fino a quando esso non si alzò da terra poco più di tre metri. Fu allora che avvenne l’incredibile davanti ai miei occhi. All'istante vidi il principino volatilizzarsi e sparire nell’aria, come se il niente lo avesse inghiottito.

Naturalmente, l’arcano fenomeno mi gettò in preda ad un abbattimento psichico non di poco conto, poiché esso mi faceva ritrovare senza più la compagnia del piccolo Iveonte. Come avrei giustificato al padre la sua sparizione, la quale era avvenuta in una circostanza assurda e difficile da credersi? Se me ne fossi ritornato alla reggia recando una notizia simile, avrei messo senz’altro i genitori del ragazzo in un turbamento indescrivibile. Ecco perché decisi di restare ancora in quel luogo, fino a quando il mio amichetto non fosse ritornato dal sogno e non mi avesse tolto dal mio imbarazzo. Il quale per me iniziava a rappresentare un vero grattacapo! Secondo una mia ipotesi, il principino sarebbe dovuto riapparire in quel luogo alla fine del suo sogno, siccome era stato il suo interlocutore onirico a farlo sparire, allo scopo di condurlo nella famosa Valle dei Sogni Reali. Per fortuna, non mi sbagliai a formulare una simile ipotesi, poiché verso il tramonto si verificò quanto avevo immaginato. Fu a quell’ora del giorno, infatti, che vidi riapparire in quel luogo il corpo del primogenito del re Cloronte alla stessa maniera di come vi era sparito. Egli, ricomparso alla medesima altezza e sospeso nell’aria, si mostrava ancora in trance e levitante. Questa volta, però, esso si diresse verso il basso e si adagiò sul tappeto di verde, al solito posto di prima.

Dopo che si ritrovò disteso sull’erba, il ragazzo si svegliò, gridando:

«Lucebio, ho fatto un sogno stupendo! Se lo desideri, te lo posso raccontare per intero con molto piacere! Ma prima devi sapere che, mentre sognavo, mi sembrava di stare desto, come se la mia nuova esperienza facesse parte della mia esistenza reale! Sono convinto che non ci crederai, ma è stato precisamente come ti ho detto!»

«Certo che sono desideroso di conoscerlo, Iveonte! Ma me lo racconterai tra poco, cioè mentre faremo ritorno nella reggia di tuo padre. Lo vedi anche tu che non possiamo più trattenerci ulteriormente in questo luogo, siccome si è fatto parecchio tardi! Non vorrei fare impensierire i tuoi genitori, intanto che il buio comincia a dilagarsi ovunque!»

Il ragazzo fu d’accordo con la mia idea e attese che ci mettessimo in viaggio, prima di cominciare a narrarmi il suo straordinario sogno. Così, dopo avermi riferito quanto già avevo ascoltato in precedenza dalle sue labbra, passò poi a farmi il resoconto della sua avventura onirica nella Valle del Sogni Reali. Nella quale egli era stato condotto dal suo nuovo accompagnatore incontrato nel sogno, il cui nome era Sirmus.


[Mi è sembrato quasi di stare a volare, mio caro Lucebio, mentre ci dirigevamo verso Androsen. È stato come se attraversassimo un banco di nuvolaglia, la quale si diradava e si dissolveva davanti al nostro celere volo. Alla fine vi siamo arrivati, dopo un viaggio non molto lungo. Esso ha costituito per me una esperienza così piacevole, da farmi rimanere di stucco. Inoltre, la località, dove siamo atterrati, subito mi è apparsa abbastanza suggestiva. Il suo ambiente naturale si presentava quello di un tramonto, il quale da poco aveva acceso dappertutto la sua vasta gamma di effetti policromatici dalle tonalità superbe. Queste ultime, che erano provenute dai rispettivi colori primari, se ne servivano per dare origine alle più fantasmagoriche coloriture. Mentre poi restavo estasiato davanti a quel paesaggio mozzafiato, la persona, che mi accompagnava e mi aveva condotto in quel posto che era un incanto, prima mi ha preso per mano con una certa premura e dopo si è messa a dichiararmi:

«Adesso, Iveonte, ti conduco a conoscere il mio amico Extrun, il quale si trova nelle vicinanze. Vedrai che lo troverai assai simpatico, soprattutto dopo che ti avrà rivelato alcune cose interessanti, le quali riguardano la tua persona. Quando gli sarai al cospetto, non aver timore di lui; anzi, compòrtati come se tu avessi davanti tuo padre, poiché egli si mostra sempre amorevole con i bambini della tua età!»

Io l’ho seguito, stando attento a non fargli domande, anche se dentro di me mi andavo chiedendo chi fosse mai quel personaggio che, come pareva, riusciva a suscitare nel mio accompagnatore un senso di venerazione. Inoltre, chi mi stava guidando da lui me lo aveva presentato come una figura paterna, che si presentava carica di affettuosità. Procedendo così mano nella mano, infine Sirmus si è arrestato presso l’imbocco di una grotta enorme, nella quale egli, senza mai lasciarmi, si è lanciato con determinazione. Quando però vi siamo entrati, sono stato colto da una grande sorpresa. Nell’interno di quella spelonca smisurata regnava e si viveva un’atmosfera così surreale che solo una grande magia poteva avercela creata con un prodigioso artificio. Non vi si scorgevano né delle pareti scarne né una volta scalcinata né un suolo sterrato. Inoltre, non vi stava neppure un buio così fitto, da nascondere ogni cosa. Al contrario, al suo interno, potevo assistere a ben altro. Ad un tratto, mi è sembrato di trovarmi in un palazzo incantato, dove i fenomeni più meravigliosi vi avevano effetto, unicamente per rendere l’ambiente pervaso di una tale suggestività fatata, da riuscire a riempire il visitatore di una gioia ineffabile. Era ciò che mi stava succedendo, mentre avanzavo con Sirmus in quella caverna misteriosa con l'intento di raggiungere il suo fondo. Quest'ultimo ci si è presentato, dopo aver fatto una cinquantina di passi. È stato a quel punto che ho scorto una persona canuta e molto avanzata negli anni, la quale era seduta sopra una scranna. Il suo aspetto, anche se il suo volto appariva leggermente butterato, lo stesso lo trovavo nobile e fiero. L’uomo della caverna, in quel momento, mi faceva pensare ad un vegliardo venerabile, il quale era da considerarsi il depositario della cultura e della saggezza, nonché dell'affabilità e della cordialità. Appena mi ha scorto, il misterioso personaggio, sorridendomi, si è affrettato a parlarmi, proprio come ti riporto qui appresso.

«Tu non puoi essere che Iveonte: è vero, mio caro fanciullo? Sirmus non avrebbe mai condotto da me qualcuno, che non fosse lui in persona! Dunque, sei il benvenuto nella Valle dei Sogni Reali e nella mia casa! Ragazzo, sai perché questa valle ha assunto un nome del genere? Sono sicuro che brami di saperlo! Ma prima intendo farti conoscere il mio nome, se Sirmus non te lo ha ancora detto. Ebbene, esso è Extrun.»

«Invece, Extrun, avevo già appreso il tuo nome da Sirmus, anche se egli non me lo ha riferito direttamente. Comunque, c'ero arrivato da solo. Adesso dimmi il motivo per cui è stato dato a questa terra il nome di Valle dei Sogni Reali, poiché uno ce ne sarà stato senza meno all’origine. Per questo tu ora gentilmente me lo rivelerai!»

«Prima, Iveonte, ti voglio mettere al corrente di tre cose importanti, le quali sono attinenti a questa valle. Esse sono le seguenti: 1) in questo luogo si può giungere solamente durante il sonno, ossia mentre si sogna, poiché non è possibile venirvi da svegli; 2) mai nessuno può accedervi, senza essere invitato e guidato dal mio fido Sirmus, il quale agisce per conto mio; 3) in questa valle ogni fatto avviene realmente e non può essere considerato un prodotto onirico. Dopo questi chiarimenti, passo a svelarti le ragioni per cui ti ho mandato a chiamare, che non sono affatto futili. Per quanto è inerente alla tua esistenza, esse hanno in serbo qualcosa di meraviglioso, come tra poco potrai sincerartene di persona. Mi riferisco al tuo destino, il quale già si prevede circonfuso di un’aureola di successi splendidi e di trionfi grandissimi. Essi nell'intero universo ti saranno invidiati perfino dalla gran parte delle divinità cosiddette positive, che vengono dette anche benefiche.»

«Perché, Extrun, le divinità dovrebbero invidiarmi, se esse possono avere a disposizione tutto ciò che desiderano? Pensandoci bene, questo fatto mi fa meravigliare tantissimo!»

«Il motivo è molto semplice, Iveonte. A te soltanto, nonostante la tua natura sia umana, ossia in carne ed ossa, sarà permesso di debellare le divinità malefiche. Ciò avverrà, quando esse tenteranno di mutare le sorti della popolazione edelcadica e di sconfiggere le divinità benefiche esistenti in tutto l'universo. Anche grazie alle tue innumerevoli imprese leggendarie, sarai ritenuto dagli altri esseri umani come l'eroe più grande di ogni epoca. Inoltre, il tuo nome, il quale sarà scolpito sulla stele commemorativa del tempo, non morirà mai più e sarà celebrato per sempre. Il suo ricordo è destinato a cavalcare i millenni e ad esistere perciò per l’eternità. Io stesso sento il dovere di inchinarmi davanti a te, sebbene tu mi sia davanti nelle vesti di un bambino, poiché sono memore che un giorno compirai dei prodigi, i quali neppure alla maggioranza degli esseri immortali saranno consentiti. A questo punto, caro Iveonte, devo lasciarti andare, poiché per te si è fatto troppo tardi. Non voglio che il tuo Lucebio se ne ritorni a corte, senza attendere la tua riapparizione nel luogo dove lo hai lasciato in modo inusuale, mettendolo in un'apprensione che non ti dico! Quindi, puoi andare.»]

Dopo avermi narrato il suo sogno, Iveonte volle aggiungermi:

«Appena Extrun ha finito di parlarmi, caro Lucebio, ho smesso di sognare e mi sono svegliato all'istante. Tu che ne pensi di questo mio strano sogno? Bisogna crederci davvero oppure fa parte di una realtà, la quale non potrà mai avverarsi?»

Lì per lì, mi trovai in difficoltà a rispondere al ragazzo, poiché il contenuto della sua esperienza onirica mi aveva scombussolato la mente. Come potevo non trovare veritiere le parole di Extrun, se avevo visto sparire sotto i miei occhi il principino che era andato a tuffarsi realmente nel proprio sogno? Dopo lo avevo anche scorto riemergere da esso, come vi si era immerso! Perciò cercai di essere cauto nel dargli la mia risposta, ad evitare di apparirgli in quel momento molto ottimista. C’era stato poi il fatto che egli mi aveva spiegato il sogno con termini che non mi sarei mai aspettato da un bambino della sua età!

«Il tuo sogno, Iveonte,» alla fine gli risposi «è favoloso; ma non possiamo dargli la totale nostra fiducia, come se si fosse trattato di un avvenimento reale. Mai nessun sogno è stato attendibile oppure ci ha dimostrato qualche volta che esso corrispondeva al vero. Dunque, oltre a rallegrarci di quanto ti è capitato, non cadiamo nell'errore di fare dei progetti reali in base ad esso, se non vogliamo in avvenire andare incontro a delle delusioni pungenti. Adesso, però, è tempo di fare accelerare l'andatura al nostro cavallo per rientrare al più presto a corte, dove i tuoi fratellini ti staranno già attendendo con impazienza. Lo sai pure tu che essi non vedono l’ora di rivederti e di dare subito inizio, insieme con te, ai tanti giochi che ogni giorno vi fanno divertire un mondo!»

Date queste intralasciabili notizie concernenti il primogenito del re Cloronte, che possiamo reputare senza dubbio un excursus necessario ed importante per diversi aspetti, adesso, giovanotti, occorre chiudere questa breve parentesi. Così facendo, ci sarà consentito di riprendere la nostra storia ed interessarci delle vicende travagliose che sarebbero accadute parecchi anni dopo, le quali avrebbero coinvolto più direttamente il popolo di Dorinda e il suo retto sovrano. Ad esse, comunque, sarebbero andati incontro tragicamente anche gli innocenti Dorindani, i quali sarebbero stati costretti ad affrontarle con sommi sacrifici e con una sofferenza che avrebbe superato ogni limite di sopportazione.