125°-L’AGGUATO

Ancora una volta Iveonte e Francide scorgevano nelle parole del loro defunto Babbomeo un contenuto, che si manifestava l'opposto di quello che constatavano nella nuova realtà. Era mai possibile che il sovrano, dal quale avevano ricevuto udienza poco prima, fosse proprio il re che il loro tutore aveva presentato ad entrambi buono e generoso, nonché clemente e pio? Eppure era Dorinda la città che egli aveva additato loro, il cui monarca invece risultava di tutt'altra pasta! Allora, vedendosi delusi in ogni loro aspettativa, oltre che frustrati nelle loro aspirazioni più nobili, essi si amareggiavano aspramente. In seguito, però, dopo una approfondita riflessione, i due giovani si resero conto di aver commesso un grave errore, quando avevano considerato le parole del loro savio vegliardo in una visione universale ed eterna. Invece esse non potevano risultare valide in ogni tempo per tutti gli uomini della terra per svariate ragiono. Come ora prendevano coscienza, con il passare degli anni le persone tendevano a cambiare la loro indole: alcuni in senso positivo, cioè divenendo giusti; altri in senso negativo, cioè diventando malvagi. La qual cosa li convinceva sempre di più che gli uomini e i fatti andavano valutati in modo diverso durante il trascorrere del tempo, poiché la loro evoluzione non poteva essere universalizzata aprioristicamente. Infatti, gli uni e gli altri erano soggetti a continui cambiamenti, i quali erano dovuti al tempo e alla storia degli uomini.

Alla fine, perciò, i due allievi di Babbomeo saggiamente presero coscienza che le informazioni del loro poliedrico maestro non erano state errate, come risultavano nel tempo attuale. Invece era quest'ultimo a non presentarle più, come erano state all'epoca del loro venerabile maestro. Nel passato, esse molto sicuramente si erano manifestate giuste, dal momento che egli le aveva garantite conformi al vero. Rispetto a loro due, che non erano vissuti nel passato, Babbomeo si era ritrovato a vivere il tempo trascorso a diretto contatto con esso e, quindi, meglio di chi lo voleva giudicare, inquadrandolo nella realtà del futuro. Bastava guardarsi intorno, per avere da ogni cosa e da ogni essere infiniti esempi convincenti, i quali non potevano essere assolutamente negati. Iveonte e Francide, attenendosi al caso in questione, constatavano che un edificio, che in quel momento si presentava nuovo, in seguito il tempo lo avrebbe fatto apparire non più integro come una volta, ma vecchio e fatiscente. Un analogo ragionamento si poteva fare sugli uomini, soggetti come erano alla vecchiaia, la quale è quanto rimane della loro passata giovinezza. L’unico fatto positivo, nel considerare il tempo, derivava dalla loro seguente considerazione: se in nessuna maniera si poteva far ritornare indietro la giovinezza di una persona, essendo il processo biologico dell'uomo irreversibile; invece il restauro di un edificio era possibile. Infatti, lo si poteva conseguire facilmente, se non mancavano gli strumenti e i mezzi per ottenerlo, anche se era necessaria pure la voglia di raggiungerlo.

Allo stesso modo, nel reame di Dorinda non era impossibile realizzare il fausto ritorno della libertà e della giustizia, siccome bastava adoperarsi in tal senso con tutta la volontà possibile. Secondo i due amici fraterni, occorreva solo promuovere il capovolgimento della situazione e dare il via ad un nuovo corso di eventi. I quali sarebbero dovuti essere pilotati, facendo in modo che si evolvessero a discapito del perfido sovrano e a vantaggio degli oppressi suoi sudditi. Nel caso specifico, se madre natura traccheggiava a dare vita e forma ad un tale fenomeno, il cui ritardo ad avverarsi finiva per significare esclusivamente dispotismo e terrore per l'angariato popolo dorindano, allora dovevano essere gli umiliati e tartassati Dorindani a dare corso ad esso. In che modo? Ribellandosi apertamente di propria iniziativa, senza attendere che madre natura lo facesse al posto loro. Così agendo, la ribellione avrebbe permesso agli abitanti di Dorinda di riprendersi ogni cosa a cui essi avevano diritto.

Procedendosi adesso per le strade dell'affollata città, Iveonte e Francide continuavano ad essere assaliti da questo sciame di riflessioni, le quali insistevano a restare in loro pressanti e a frullargli nella mente. Ma poi Astoride li distolse da esse, dicendo:

«Amici, avete almeno una idea in quale posto dobbiamo dirigerci, ora che ci troviamo all'esterno della reggia del re Cotuldo? Chissà perché mai, a quanto pare, l'ingordo re vuole tenerci per sempre lontani dalla sua città! Secondo me, egli ha previsto che la nostra presenza in Dorinda potrebbe arrecargli un mare di grattacapi, per cui ha cercato di evitarli con il nostro allontanamento! Siete pure voi d'accordo con me?»

«Con molte probabilità, Astoride,» Iveonte rispose all'amico «la tua idea è esattamente quella che egli si è fatta di noi tre, dopo che si è reso conto che rappresentiamo per lui degli ossi duri da rosicchiare. Per cui gli risultiamo antipatici come pochi. Diffida di noi forestieri in modo permaloso, dopo che lo abbiamo messo al corrente della nostra scaramuccia avuta con i banditi che ci hanno assaliti. Ma vi assicuro che l'uomo diffidente non ha mai la coscienza pulita. Allora sarà nostro dovere sondare quella del re Cotuldo in maniera approfondita, al fine di venire a conoscenza del tipo di sudiciume che gliela sporca. La cui esistenza può solamente maltrattare i Dorindani!»

«Sono convinto, amici miei» aggiunse Francide «che ci ritroveremo a nuotare in una poltiglia così fetida, da farci morire soffocati, se prima non abbiamo preso le dovute precauzioni contro l'asfissia! Il vecchio incontrato all'abbeveratoio senza meno era una persona veritiera, per cui le sue parole erano figlie della verità. Non dubito che mille altre persone in città sarebbero disposte ad attestare le sue stesse notizie, se fossero sicure di non esporsi ad alcuna ritorsione del tiranno. Cambiando argomento, vi confesso che, se non sarà fatta ringoiare al più presto al braccio destro del re Cotuldo la sua sbruffonata, finirò per morire di crepacuore! Per questo spero proprio che ciò avvenga prima possibile, altrimenti fino a quel momento sarò costretto a vivere con la mancanza assoluta della pace interiore! Quindi, che venga presto quel giorno e ritorni nel mio animo ad esserci la precedente calma!»

«Non preoccuparti, Francide,» lo rassicurò Iveonte «perché ci sarà senza dubbio il giorno che lo rincontreremo! Allora cesserai di avvertire il nodo alla gola e ritornerai ad assaporare la serenità. Invece io, se lo vuoi sapere, sono tormentato da un assillo ben più grave del tuo. Esso ha incominciato a martellare tremendamente la mia coscienza, fin da quando abbiamo lasciato la reggia. Ma spero proprio di sbagliarmi!»

«Ci dici, Iveonte, che cosa non ti fa essere più tranquillo?» gli domandò Francide «Se lo vuoi sapere, adesso ci hai messi in apprensione non meno di te! Perciò, amico mio, sbrìgati a riferirci quanto ti tormenta in questo momento, senza indugiare oltre!»

«Mi è venuto il sospetto che gli uomini, i quali ci hanno assaliti stamani, non fossero dei predoni e che quindi non meritassero la morte per mano nostra! Inorridisco, al pensiero che abbiamo potuto subire erroneamente un'aggressione da parte di un gruppo di ribelli. Può darsi che essi, ingannati dalle nostre splendide armi, ci abbiano scambiati per sbirri del re Cotuldo! Ciò mi porta a comprendere anche la convinta incredulità manifestata dal monarca, quando gli abbiamo riferito l'aggressione da noi subita dal gruppo di predoni. In uno stesso luogo, non può esserci posto per due ladri o per due bande di ladri. Per serietà professionale e per reciproco vantaggio, un ladro non sconfina mai nel territorio dove agisce un altro ladro. Specialmente poi quando sa che è il monarca in persona a detenere in quel luogo il monopolio del latrocinio! Di conseguenza, si fa strada dentro di me la convinzione che i nostri assalitori di questa mattina non erano dei comuni predoni senza scrupoli in cerca di rapina, ma soltanto alcuni dei ribelli dorindani che si oppongono al monarca Cotuldo! Mi avete compreso adesso, cari amici?»

«Considerando come sono andate le cose, Iveonte,» approvò Astoride «le tue osservazioni possono anche essere giuste. Ma adesso è consigliabile tralasciare quest'argomento e rimandare i rimorsi a dopo, se proprio essi dovranno esserci in noi. Al contrario, ora conviene metterci alla ricerca di qualche taverna che ci consenta di rifocillarci, considerato che ho una fame da non vederci più!»

Il suggerimento di Astoride trovò il favore, anche da parte dei suoi amici. Allora, avendo anch’essi stabilito di seguirlo con grande impegno, tutti e tre posero fine ad ogni altra riflessione e si diedero alla ricerca di una bettola. Mentre la cercavano, speravano di trovarla lungo la strada che stavano percorrendo in quel momento. A quell'ora del giorno, le spaziose vie della città di Dorinda si presentavano gremite di una grande moltitudine di gente. Essa, avanzando a fatica in entrambi i sensi di marcia, era in cerca di qualche cosa che non riusciva ancora a trovare, poiché non la scorgeva su nessuna delle bancarelle che incontrava sul proprio cammino. Invece erano ben visibili e a portata di mano artigiani vasai, mercanti di stoffa e di seta, rigattieri e venditori di oggetti a volte stravaganti. Tali persone, con la loro merce e con le loro cianfrusaglie, ingombravano più dei due terzi degli acciottolati delle strade principali e si mostravano intenzionate a vendere i loro prodotti a qualunque costo. Perciò, gridando a squarciagola, esse facevano di tutto per destare l’attenzione dei numerosi passanti, che transitavano stipati attraverso le vie cittadine e vi creavano una gran confusione. Sembrava quasi che essi arrancassero in quel loro spostarsi lento, disturbato e affannoso.

Iveonte, Francide e Astoride, procedendo fra quel pigia pigia creato dalla fiumana di gente, non si lambiccavano più il cervello per un motivo o per un altro; ma manifestavano i sintomi di una fame da lupo. La qual cosa faceva loro chiedere con una certa frequenza dove poter trovare una taverna nella quale fare rimpinzare i loro stomachi vuoti, mangiando e bevendo nella quantità necessaria. Invece essi avvistavano ovunque soltanto astuti prestigiatori, acrobati provetti, immobili santoni, abili giocolieri, barbagianni innocui, trafficanti ammaliziati, mercanti imbroglioni, disonesti incettatori, accattoni ostinati. Mentre da nessun uscio appariva il paffuto e rubicondo volto di un cuoco, il quale si desse a gridare: "Qui solo potete trovare l'appagatore del vostro appetito!" A causa di ciò, per i tre amici la giornata iniziava a diventare uggiosa, oltre che deprimente. E tale essa sarebbe continuata ad essere, se non gli si fosse presentata al più presto una bettola fornita di tante ottime cibarie!

Strada facendo, infine i tre giovani vennero ad imbattersi in due individui a cavallo, che avevano il capo imbacuccato. Essi, stando fermi dinanzi a loro come se volessero sbarrargli la strada, li osservavano fissamente e non si decidevano a dichiarare la ragione del loro strano atteggiamento. Gli sconosciuti erano di media altezza, però l'uno era smilzo e l'altro era abbastanza robusto e tarchiato. Ad essere precisi, i due cavalieri, che portavano armi leggere, con la loro presenza non manifestavano alcuna intenzione di bloccarli. Volendosi invece approfondirli psicologicamente, in entrambi si notava una certa timidezza, nonché una marcata insicurezza nel risolversi ad esprimersi nei loro confronti.

«Chi sono quegli uomini allampanati, i quali sembrano che ci vogliano fronteggiare?» Francide bisbigliò divertito ai suoi due compagni «Come spauracchi, però, essi sanno recitare benissimo la loro parte, proprio come se fossero dei veri attori! Ditemi che ho ragione, amici miei, se non volete farmi fare una solenne figuraccia!»

Dopo che ebbe espresso ai compagni le sue considerazioni sui due individui che li fissavano, Francide non aveva ancora ricevuto da loro la risposta, allorché si vide uno dei due sconosciuti dirigersi proprio verso di loro. Quando si fu avvicinato quanto bastava, esattamente a due metri di distanza, egli fece arrestare la sua bestia. Soltanto a quel punto, il giovane a cavallo si diede a parlargli in questo modo:

«Premettendo che io e il mio amico ci dichiariamo indegni di farvi pure da servitori, vi preghiamo di seguirci nel nostro campo senza fare domande. Se ciò vi può rassicurare, coraggiosi e forti cavalieri, sappiate che è un illustre vegliardo ad invitarvi presso la sua dimora! Egli vi sta aspettando con cuore trepido nel nostro rifugio nascosto, il quale si trova distante da Dorinda poche miglia. Sappiate che per noi sarebbe un onore e un piacere, se voi accettaste l'invito del nostro saggio capo!»

A parere dei tre amici, quel fatto appariva veramente incredibile! Una coppia di persone, le quali fino allora erano state del tutto inesistenti per loro ed erano venute fuori da chissà dove, li invitavano con una certa sottomissione a seguirli. Inoltre, essi attribuivano il loro invito al desiderio di un uomo avanzato negli anni. Ma poi tale persona anziana chi era e da dove era sbucata all'improvviso, mentre si davano da fare per trovare una trattoria in cui potersi sfamare? Iveonte e Francide avevano già conosciuto un uomo di quell'età, ossia l'estinto Babbomeo, il quale adesso stava a cuore anche ad Astoride, per averne sentito parlare tanto bene dai suoi amici. Invece quest’altro, che era apparso dal nulla ed era venuto ad intromettersi nella loro vita privata, da dove era venuto fuori? Se poi si trattava del loro Babbomeo resuscitato grazie ad un miracolo, la cosa era ben diversa! Ma occorreva prima appurare con i fatti un avvenimento del genere, per crederci sul serio! Allora la conclusione di Iveonte fu la seguente:

«A ogni modo, amici miei, siccome essi hanno fatto menzione di un vegliardo, è nostro dovere seguire i suoi messaggeri. Così facendo, avremo l'occasione di incontrarlo e di ubbidirgli, servendolo come egli comanda. Ma anche se fossimo sicuri che ci attende un tranello, noi cercheremmo forse di evitarlo? Certo che no! È dovere degli uomini forti andare in cerca dei pericoli pubblici ed eliminarli, affinché cessino di essere di nocumento alle persone deboli ed indifese. Per essere considerati degli eroi celebrati, non basta essere coraggiosi, ossia utili solo a sé stessi. Al contrario, bisogna mostrarsi dei temerari, nonché mettersi sulle tracce dei pericoli pubblici esistenti, affrontarli ed annientarli. Unicamente comportandosi in questa maniera, gli inetti a combatterli non correranno più il pericolo di incontrarli sulla loro strada ed eviteranno di diventarne le vittime tribolate, quando essi meno se lo aspettano!»

«Giustissimo!» esclamò Francide, ritenendo sensate le parole dell'amico «Ormai ci siamo resi conto che nel mondo di delinquenza ce ne sta a iosa. Una parte è originata dall'inciviltà e la maggior parte invece dalla cattiveria. Per la quale ragione, ci adopereremo per spazzarla via ovunque essa si trovi. Costi quel che costi! Solo così permetteremo alla sicurezza e alla serenità di seguitare a regnare in ogni parte della regione!»

Anche Astoride condivise le nobili vedute dell'amico sulla delinquenza e sulla necessità di farne piazza pulita in ogni luogo dove essa era attecchita indisturbata. Allora Iveonte, trovando d'accordo i compagni su ciò che aveva espresso, si rivolse ai due ambasciatori e disse loro:

«Cavalieri sconosciuti, poiché ci avete fatto presente che è stato un savio vegliardo a mandarvi da noi per invitarci presso il suo alloggio, accettiamo volentieri il suo gentile invito. Perciò siamo pronti a seguirvi nel vostro campo, essendo desiderosi di fare la conoscenza del vostro capo. Se voi andate avanti, noi vi staremo dietro.»

Ascoltate le parole del loro interlocutore, i due latori del messaggio del loro capo subito voltarono i loro cavalli verso la direzione di provenienza e si ridiedero ad avanzare tra la folla per farsi seguire dai giovani che avevano invitati al loro campo.


Più tardi gli sconosciuti potevano essere scorti, mentre si affaticavano a farsi strada in mezzo a quel viavai di persone, il quale fluiva ininterrotto in entrambi i sensi. Invece i tre giovani, spostandosi nell'incessante marea umana, per non perderli d'occhio, dovettero fare accelerare l’andatura alle loro bestie. Quando poi si furono messi in condizione di averli bene in vista, essi si tennero di continuo alla medesima distanza da loro. Mentre andavano avanti nel modo suindicato, a un tratto, un baccano indiavolato venne a crearsi tra la folla. Allora esso impedì il libero transito ai due cavalieri, che si erano presentati senza esibire le loro generalità identificative. Così li obbligò a svoltare a sinistra e ad immettersi in una strada secondaria, sempre seguiti da Iveonte e dai suoi due amici. Percorsi poi qualche centinaio di metri, il quintetto a cavallo scantonò ancora; però adesso la svolta era avvenuta a destra. Anche nella nuova stradina, comunque, il tragitto procedette per altri cinquanta metri, cioè fino a quando una ulteriore questa volta a destra non li riportò su un'altra via. La quale adesso non era sufficientemente ampia; ma si presentava con un manto stradale da definirsi mediocre. La viuzza appena intrapresa, in compenso, era dritta, per cui si poteva avvistarne l'intero percorso e rendersi conto, già da quella distanza, che essa confluiva in una piccola piazza piuttosto illuminata, per la presenza in essa della luce solare. La nuova stretta via di poca importanza, però, non terminava nello spiazzo che si intravedeva da lontano. Seguitando ad essere rettilinea, essa proseguiva oltre la piazzetta e raggiungeva, nel suo tratto terminale, le mura della città, in prossimità delle porte.

Appunto quel largo circolare appena citato era in procinto di diventare teatro di un grave fatto di sangue, dopo il quale ci sarebbe stato anche un grande conflitto. A tale riguardo, nelle parti prossime ad esso, cinquanta cavalleggeri del re Cotuldo stavano appostati da tempo con occulti propositi. Dal canto loro, i residenti del luogo non osavano peggiorare la loro già precaria situazione, cercando di rendersi conto del perché della presenza nel loro quartiere di tante soldatesche del despota. Ad ogni modo, ciascun abitante del posto molto presto avrebbe avuto la risposta alla sua domanda, siccome lo avrebbe appreso con l'arrivo nella piazzetta dei due uomini di Lucebio. I quali, come si era convenuto tra loro, venivano seguiti a poca distanza da Iveonte e dai suoi amici. Difatti, non appena i due uomini ribelli pervennero al centro dello spiazzo, cinquanta cavalieri del monarca di Dorinda sbucarono da altri due vicoletti laterali che vi si immettevano. Dopo, mediante alcune mosse tattiche, si diedero ad accerchiarli. Avvenuto in breve il loro accerchiamento da parte dei gendarmi, costoro, dopo avere impugnato le loro spade, resero impossibile ai malcapitati ogni tentativo di fuga. Allora il loro comandante si affrettò a gridare ad entrambi:

«Arrendetevi, braccati ribelli, se volete evitare che vi si passi all'istante per le armi! Come voi due potete constatare, ormai per voi non c'è più alcuna via di scampo. Per questo, nel caso che tentaste di sfuggirci in qualche modo, peggiorereste soltanto la vostra situazione. Quindi, vi consiglio una resa senza alcuna reazione!»

Ogni particolare di quell'evento inatteso era stato seguito e studiato con cura dai tre audaci giovani. I quali, anziché lasciarsi coinvolgere con un loro intervento, preferirono tenersi ancora in disparte, almeno fino a quando le cose non si fossero chiarite in modo inequivocabile. Sostando poi in prossimità della piazzetta, essi, ad evitare una loro falsa manovra, cercavano di ponderare meglio lo strano caso. Ma, a giudicarlo dalle apparenze, fino a quel momento esso continuava a mostrarsi abbastanza confuso e non gli permetteva di assumere alcuna posizione.

«Adesso cosa facciamo, amici? Lasciamo che li arrestino?» Francide chiese ad Iveonte e ad Astoride «Io suggerirei di intervenire in loro soccorso, prima che le cose si aggravino di più per loro due. Non possiamo assolutamente farli uccidere, siccome essi dovranno chiarirci alcune cose a noi ignote! Ciò non sembra anche a voi?»

«Io la penso proprio come te, Francide!» acconsentì Astoride «Perciò consiglierei di fare quanto hai suggerito senza perdere altro tempo, se sapessi con sicurezza che quell'accerchiamento non è una messa in scena, con l'obiettivo di farci uscire allo scoperto. Magari con essa si intende intrappolare proprio noi tre, da parte dei numerosi cavalleggeri del re Cotuldo, dopo l'atteggiamento che abbiamo assunto a corte!»

«Allora, amici,» tese a concludere Iveonte «prima di agire, ci conviene attendere ancora e studiare con la massima attenzione quanto avverrà tra poco nella piazzetta! Ci occorrono ulteriori loro mosse di significato eloquente, se vogliamo scoprire qualche indizio, il quale ci possa permettere di giungere ad una valutazione dei fatti oculata. Per questo motivo, soltanto dopo che tutto ci sarà chiaro con fatti concreti, sapremo come agire e cosa fare, gestendo alla meglio il nostro intervento!»

Nella conclusione di Iveonte, era stato implicito il suo invito ai compagni ad una obiettiva riflessione su ciò che stava accadendo sotto i loro occhi. Invece, proprio in quel momento, si comprese che non c'era più niente da riflettere e da valutare. Il motivo? Un episodio molto significativo offrì ai tre giovani l'incontestabile prova che quei due disgraziati si trovavano davvero in cattive acque e che non c'era alcuna intesa tra loro due e i soldati del re Cotuldo. Poiché i due ribelli intrappolati avevano simulato un atto di resa, un paio di gendarmi andarono a prelevarli. Dopo averli raggiunti, essi ordinarono ai due disgraziati di scendere dalle loro bestie, allo scopo di legare ad entrambi le mani dietro la schiena e portarseli via. Ma mentre tutti e quattro smontavano insieme dai rispettivi cavalli, i due uomini di Lucebio, precedendo in quell'azione coloro che dovevano arrestarli, brandirono i loro affilati pugnali. Poi, prima che i due cavalleggeri avessero staccato il secondo piede dalla staffa sinistra dei loro quadrupedi, essi, servendosi di tali armi, aggredirono i soldati alle spalle e li sgozzarono, quasi fossero dei maiali. Quell’episodio di sangue, il quale si era rivelato fulmineo e non previsto, infuse molto sdegno nel resto dei gendarmi. Allora essi decisero all'istante di vendicare i loro commilitoni, inveendo contro i ribelli che li avevano uccisi a tradimento. Dai loro volti sdegnati, adesso lasciavano intendere che miravano a farne uno scempio. A quei due fatti cruenti, che non davano adito ad equivoci, Iveonte, fece notare a Francide e ad Astoride:

«Ora ci è tutto chiaro come la luce del sole, amici! Perciò bisogna trarre fuori i due malavventurati dalla carica indiavolata dei gendarmi del re Cotuldo. Se essi saranno ammazzati, non verremo più a conoscenza di alcune cose preziose. Quindi, se vogliamo conoscerle, occorre adoperarci perché essi non periscano nell’imminente scontro!»

Fu così che Iveonte e i suoi amici, con l'intento di far fronte al precipitoso accorrere dei loro cavalli, si scagliarono contro i gendarmi con la veemenza di un tifone e con una prodezza inverosimile. Dopo, una volta venuti alle prese con quei furiosi cavalleggeri, essi provocarono l'accensione di una zuffa infernale. Essa fu considerata un vero finimondo da coloro che assistevano a distanza: così enorme era risultato lo schianto, a cui aveva dato origine l'aspro cozzo! Allora l'improvvisa e soda irruzione dei tre prodigiosi giovani in un attimo produsse un forte sbandamento tra i gendarmi del re Cotuldo. Di esso decisero di approfittare i due intrappolati, i quali saltarono rapidamente sui propri cavalli e si unirono ai loro liberatori nell'ardua lotta, la quale si era appena scatenata. In quel miscuglio di nitriti impazziti, di sbandate rovinose, di stizze feroci e di assalti irruenti, gli abitanti del luogo scorgevano Iveonte, Francide ed Astoride, mentre erano intenti attivamente a mietere un gran numero di vittime nella truppa reale. Da parte sua, il popolino, curiosando attraverso le imposte delle loro misere stamberghe, restava strabiliato nel vederli combattere così impavidi ed imbattibili, come se fossero tre divinità adirate. Soprattutto esso si andava chiedendo chi fossero mai quei tre giovani, i quali, distinguendosi per atti di fulgido eroismo, si stavano dimostrando delle persone degne di un’apoteosi.

Quando poi i gendarmi erano prossimi alla fine, per esserne stati uccisi moltissimi, ecco venir fuori dai loro tuguri l'intera plebaglia del quartiere. Anch'essa aveva stabilito di prendere parte a quell'aspra lotta, desiderosa di vendicarsi delle angherie, che era costretta a patire per colpa del tiranno. Allora, preso atto di quanto stava accadendo a opera dei suoi concittadini, il ribelle Solcio gridò agli altri:

«Amici, visto che anch'essi hanno diritto alla loro parte di vendetta contro il tiranno, ci conviene lasciare il resto di questi porci gendarmi, affinché oggi essi assaggino pure la loro rabbia! Nel frattempo noi lasciamo questo luogo di lotta e conduciamoci subito al nostro campo, dove c'è chi ci sta aspettando con ansia!»

Dopo che ebbero smesso di lottare contro i pochi soldati del despota che erano rimasti, volendosi permettere anche ad altri Dorindani di vendicarsi, i tre eroici giovani, insieme con i due sconosciuti accompagnatori, abbandonarono la piazzetta e si diressero verso le porte della città. Usciti che furono da Dorinda, i cinque cavalieri si lanciarono a tutta corsa alla volta del rifugio dei ribelli, il quale era distante dalla città alcune miglia. Comunque, se i due uomini di Lucebio erano ansiosi di raggiungere il loro campo, Iveonte, Francide ed Astoride non vedevano l’ora di incontrarsi con l'enigmatico personaggio, che aveva voluto occuparsi di loro. Egli, senza neppure conoscerli e per un fatto incredibile, aveva mandato due dei suoi uomini a cercarli in Dorinda e ad invitarli presso di lui. Ma chi lo aveva informato del loro arrivo, se si erano presentati in città per la prima volta proprio quella mattina? Anche di questo particolare essi intendevano essere messi al corrente dal loro ospite.