124°-IVEONTE E I SUOI AMICI PRESSO IL RE COTULDO

Dopo aver ottenuto udienza dal sovrano di Dorinda, per averla richiesta, Iveonte e i suoi amici furono accompagnati da una guardia reale fino alla sala del trono. Prima di trovarsi presso il seggio regale, però, avanzando lentamente, essi si diedero ad ammirare con immenso stupore una parte del fasto di corte. Così si resero conto che ampi e lunghi corridoi, diramandosi tra un grande fulgore, erano diretti ai diversi alloggi della reggia. Le pareti, ornate con fregi d'oro e d'argento, risultavano ai loro occhi sbalorditi artisticamente dipinte con sublimi affreschi. I quali rappresentavano a volte un dramma intensamente patetico, altre volte uno squarcio di sensuale passione. I tre amici notavano anche che la policromia dei mosaici pavimentali, la quale veniva espressa dall'unione di numerosi tasselli di pietra, riproduceva forme geometriche molto apprezzabili. Inoltre, metteva in mostra una vistosa bellezza e un raro valore artistico, siccome erano state delle mani assai esperte a realizzarvi i vari disegni floreali, geometrici e decorativi. Infine neppure sfuggì a loro tre che le smaglianti colonne di marmo, che erano cosparse di venature cromatiche dai contorni sfumati, mostravano dei capitelli di fine avorio. Essi si presentavano così pregiatamente intarsiati ed artisticamente modellati, da apparire abbastanza splendidi ai loro occhi straniti. Insomma, considerata nella sua interezza, la reggia si presentava soffusa di luce raggiante, il cui bagliore la invadeva e la involgeva in una nube di sogni ameni e beati. I quali distraevano gli animi di coloro che vi vivevano da ogni ambascia e da ogni preoccupazione. A conclusione della messa in evidenza dei tantissimi pregi della reggia, i tre amici ebbero anche modo di notare che ogni canto dei vari ambienti del palazzo reale si presentava custodito da due guardie che indossavano livree vistosamente sfarzose, nonché reggevano lunghe alabarde scintillanti. Esse, restando immobili nel loro atteggiamento statuario, manifestavano degli sguardi assenti e davano l'impressione di perdersi nel vuoto.

Una volta che si furono ritrovati alla presenza del re Cotuldo, Iveonte, Francide e Astoride indugiarono un bel po’, prima di esprimersi nei dovuti modi. Ovviamente, ci riferiamo a quelli che la circostanza richiedeva in quel momento particolare. In verità, non si conoscono le ragioni di quel loro sconveniente atteggiamento, che a loro risultava assolutamente normale. Perciò non pensavano che esso non li stesse facendo agire con tempestività sia nel presentarsi al regnante di Dorinda sia nel riverirlo nella maniera più confacente ad un sovrano. Con molte probabilità, l'apprezzabile ritardo da parte dei tre amici era da attribuirsi alla loro avvenuta immersione nel fasto regale, il quale era apparso alla loro vista lussuoso e sorprendente. In special modo, li aveva storditi quanto era risaltato nella fantastica sala del trono. Esso adesso, continuando a stupirli, infine finì per legare le loro lingue e distrarli da ogni etichetta di corte. Volendo invece stare dietro alle illazioni di qualcuno, tutti e tre non si accorgevano nemmeno di stare già molto vicini al re Cotuldo.

A proposito del sovrano di Dorinda, intanto che i tre giovani si lasciavano avvincere dalle leggiadre bellezze dell’ampia sala e non si decidevano a rivolgergli la parola, standosene seduto sul suo trono d'avorio, si mostrava pettoruto, superbo e con una faccia annoiata. Egli di sicuro si sarebbe già spazientito da tempo, se non ci fossero stati a fargli compagnia una fanciulla molto graziosa, che era sua sorella, e una figura mastodontica che indossava una uniforme piuttosto elegante. A proposito del corpacciuto uomo, bisognava considerarlo, oltre che il braccio destro del sovrano, il suo fidatissimo consigliere.

«Da quando in qua, mio re,» egli si stava esprimendo al suo sovrano «ti sei messo a ricevere nella reggia degli scimuniti del genere? Essi, oltretutto, si mostrano anche irriverenti verso la tua illustrissima maestà! Forse non ti sai fare più rispettare da chi non si cura delle buone maniere! Comunque, se lasci fare a me, vedrai come, con un solo colpo di spada, nello stesso istante reciderò la testa a tutti e tre!»

«Non mostrarti irritabile come al solito, Croscione. Devi sapere che, se li lascio vivere ancora, essi lo devono al fatto che sono forestieri. Inoltre, scopriamo prima se questi giovani hanno del denaro con loro e dove lo tengono conservato. Ammesso che ne abbiano! Perciò, soltanto dopo che saremo venuti in possesso di tali informazioni, decideremo il da farsi nei loro confronti. Ma fino a quando esse non verranno alla luce, cerca di scaldarti il meno possibile e di portare pazienza! Così facendo, mi darai pure meno fastidio e non dovrò sopportare pure te!»

«Adesso che ho compreso le tue vere intenzioni, mio scaltro sovrano, ti chiedo umilmente venia! Devo senz'altro ammettere che non ti smentisci mai, poiché, prima di prendere una qualsiasi decisione, ogni volta valuti sempre in anticipo tutto quanto c’è da fare. Come constato, soltanto ora mi sono convinto che assai presto vedrò incrementare anche il mio gruzzolo, al pari di quello tuo! Magari fossi bravo come te, nel pensare le tante cose che fanno parte dell'esistenza umana e prevedere, ogni volta senza errori, quelle che in seguito ci risulteranno utili!»

«Ben lo credo anch'io!» intervenne a dire la ragazza «So benissimo di quali nefandezze siete capaci entrambi! Ma bada a te, Cotuldo! Il tuo comportamento illecito starà facendo rivoltare nel suo sarcofago il defunto nostro padre, il quale ti starà pure maledicendo dall'aldilà. In riferimento a lui, voglio raccontarti il sogno da me fatto, dopo che tu e i tuoi degni re alleati vi impadroniste a tradimento della città di Dorinda.»

«Sorella, chi ti dice che io voglia ascoltarlo? Anzi, se farai a meno di riferirmelo, come appunto desidero, davvero eviterai di tediarmi a morte! Perciò, se vuoi farmi un grande favore, pensa a tutt'altro e non al tuo maledetto sogno! Mi hai compreso nel modo giusto?»

«Al contrario, fratello, te lo racconto ugualmente! Nel cupo silenzio della notte, mi parve di scorgere un ragazzo, il quale reggeva un giavellotto tra le mani. Egli, all'improvviso, sollevò l'arma e la scagliò dritto davanti a sé. Seguendola con gli occhi, la vidi conficcarsi nella schiena del nostro caro vecchio. Il poveretto non urlò e non si dolse per niente; anzi, nel ricevere il colpo, egli sorrise con dolcezza. Subito dopo il mortale incidente che lo aveva coinvolto, un'ombra, che reggeva un pugnale, gli si avvicinò e lo aggredì con disumana ferocia. Mentre veniva pugnalato a morte, il nostro genitore si diede a gridare: "Cotuldo, figlio mio ingrato, perché mi arrechi tale torto e mi uccidi per davvero?"»

Dopo avere ascoltato il significativo sogno della congiunta, il re Cotuldo non ci mise molto ad intendere l'antifona. Allora, essendone stato urtato parecchio, si diede ad assalire la sorella alquanto adirato:

«Lerinda, se lo vuoi sapere, da parte mia ti dico che del tuo sogno non mi importa un fico secco! Ti sembra questo il momento di venire a parlarmi di sogni, i quali oltretutto non hanno mai voluto significare niente? Tutti ne sono a conoscenza che è come dico io, compresi gli animali e le pietre! Invece tu ti ostini a non comprenderlo.»

Un attimo dopo, si rivolse al suo borioso braccio destro per averne conferma, convinto che da lui non poteva aspettarsi una risposta che risultasse contraria a ciò che aveva affermato. Perciò gli domandò:

«Non è forse vero, Croscione, che ho ragione, quando asserisco che non bisogna mai andare appresso ai sogni? Cerca di convincere la mia cara sorellina che è come dico io! Così in seguito ella la smetterà per sempre di credere alle sue stupide visioni oniriche!»

«Certo che è come tu ci hai tenuto a precisare, mio illustre sovrano! Devo ammettere che, come sempre, trovo le tue parole sostanzialmente molto sagge! Per questo la principessa Lerinda sbaglia in modo grossolano nel non darti retta e nel dare credito ai suoi insipidi sogni!»

«Invece quella volta» insistette la fanciulla «il sogno volle manifestarmi tutt'altra verità, quella di cui solamente adesso mi vado rendendo conto! Grazie ad esso, mi sono convinta che nostro padre non fu fatto uccidere dal re Cloronte, poiché la sua morte di sicuro fu dovuta ad un incidente. Tu soltanto, al contrario, lo avresti ucciso veramente con i tuoi atti esecrandi. Ma sappi, fratello, che i misfatti da noi commessi, prima o poi, verremo a pagarli tutti, dal primo all'ultimo: stanne certo!»

Avendo alzato un po' troppo il tono di voce, l'avvenente sorella del sovrano fece tornare in sé i tre giovani, i quali adesso erano poco distanti dal trono. Essi allora si meravigliarono parecchio, nel prendere coscienza del luogo in cui si trovavano. Per questo, volendo giustificare la loro distrazione, Iveonte si rivolse con riguardo al re Cotuldo ed iniziò ad esprimersi a lui con le parole, che ritenne più appropriate.

«Scusaci, o sovrano di Dorinda,» iniziò a dirgli «se, avvicinandoci al tuo trono, non ti abbiamo ossequiato in tempo e nei modi che ti si convenivano! È stato lo splendore della tua reggia a frastornarci e a distrarci, facendoci perfino dimenticare l'udienza che ci avevi concessa. Inoltre, abbagliando sia la nostra vista che la nostra mente, esso ha fatto sì che indugiassimo a riverire la tua magnanima maestà. Ma adesso che siamo ritornati finalmente alla nostra realtà, ci sentiamo in obbligo di chiederti scusa e di rimediare all'istante, rendendoti i dovuti onori e magnificandoti come la tua illustre persona si merita!»

«Non avendo motivo di dubitare di voi, forestieri, vi credo sulla parola!» gli rispose il re Cotuldo, annuendo col capo «Ma volete essere così gentili, da informarmi da quale città dell'Edelcadia voi tre provenite, declinandomi nel contempo le vostre generalità? Soprattutto vorrei sapere, con molta sincerità da parte vostra, quale buon vento vi ha spinti nella mia Dorinda, dove vi auguro di cuore una serena permanenza!»

«Se vuoi conoscere la verità,» gli rispose Iveonte «i miei amici ed io siamo sempre vissuti nella foresta, praticandovi la professione del pastore. In seguito, non venendo attratti più dall’umile pastorizia, abbiamo deciso di indirizzarci verso una occupazione più gratificante, la quale fosse più consona alle nostre aspettative. Così, dopo aver venduto tutte le nostre pecore ed aver comperato con parte del ricavato le armi che indossiamo, eccoci nella prima città che abbiamo incontrato sul nostro percorso! Perciò, se ce lo consentirai, saremo lieti di sistemarci stabilmente nella stupenda Dorinda e di diventare suoi cittadini modelli. Adesso passo anche alle nostre presentazioni, come ci hai richiesto. Il mio nome è Iveonte; mentre quelli dei miei due amici, nel loro ordine, sono rispettivamente Francide e Astoride. Essi, come puoi vedere, si trovano entrambi sul mio lato destro.»

«La vostra è stata un'ottima decisione e me ne compiaccio, ex sedicenti pastori.» approvò il sovrano con una certa ipocrisia «Spero pure che il vostro soggiorno in Dorinda vi apporti felicità e benessere! Ma è importante apprendere, da parte vostra, che nella mia città è in vigore una legge, secondo la quale ogni regnicolo è obbligato a versare al suo re un tributo quotidiano, in denaro oppure in natura. Infatti, è previsto che esso sia equivalente al triplo di quanto spende per il suo cavallo o per il suo cammello o per il suo dromedario. Invece il tributo deve essere il doppio di quanto si fa interesse per il suo asino o per il suo mulo. Se ponderate questa mia legge con la dovuta attenzione, vi rendete subito conto che non è poi troppo ciò che pretendo dai miei sudditi, i quali, come ho notato, sono lieti di versarmi il contributo previsto dalla mia saggia legge! Ma come non potrebbe essere così?»

«Non è mica male la legge con cui egli tartassa i Dorindani!» Francide sussurrò all'orecchio di Astoride, scherzandoci sopra «Se la prendiamo in considerazione con obiettività, essa risulta da vero padre di famiglia! Non lo credi pure tu, amico mio?»

«Altroché, Francide!» acconsentì Astoride «Andando avanti così, i Dorindani si ritroveranno ben presto tutti pelle ed ossa. Non potrà essere altrimenti, grazie a tale legge del loro sovrano!»

Continuando a parlare sullo stesso argomento, al fine di giustificarsi, il re Cotuldo poco dopo aggiunse:

«I sapienti dicono che l'uomo è superiore ad un animale un numero incommensurabile di volte. Figuriamoci poi un re! Ma io, poiché amo i miei sudditi come se fossero tutti miei figli, fingo di fare l'ignorante. Così mi accontento di stimare un uomo superiore agli animali domestici citati nelle proporzioni che già vi ho fatto presenti. Non sembra anche a voi che io sia un re più che giusto? Aggiungo che, se trovo qualche cittadino riottoso, il quale osa sfidarmi ed opporsi alla mia saggia legge, non esito a dare ascolto ai nostri giusti sapienti. E il peggio sarà suo!»

Non garbandogli il ragionamento del re Cotuldo, che trovava iniquo e sfacciatamente dispotico, Iveonte decise di contestarlo. Egli intendeva provargli che non amava affatto i suoi sudditi, se operava su di loro simili tartassamenti. Ma l'affascinante volto della sorella del tiranno gli spense l'intero fervore competitivo. Oltre al fatto che esso gli apparve velato da una innocente erubescenza, il giovane vi scorse in primo luogo uno sguardo profondo e penetrante. Per il quale motivo, dopo esserne stato colpito, adesso egli ne veniva investito, come se si trattasse di una magia elettrizzante. Allora, essendo stato frenato dallo sguardo incantevole della ragazza, che accolse come una visione fantastica, Iveonte ipso facto fece sbollire dentro di sé quello sdegno che inizialmente si era impadronito di lui. Perciò si limitò a domandare al germano di lei:

«In cambio di un simile tributo, sovrano di Dorinda, posso sapere quale beneficio i tuoi sudditi ricevono da te? Dopo che ne saremo venuti a conoscenza, i miei amici ed io potremo esprimere meglio un giudizio in merito. Anzi, ci renderemo conto effettivamente se esso è equo, come affermi, oppure è da valutarsi abbastanza esoso.»

«A tutti quanti i miei sudditi, forestiero, viene concessa l'assoluta garanzia di ordine e di sicurezza. Essi, se si mettono a posto con la mia legge, rinunciando ad essere degli scaltri evasori, possono dormire sonni tranquilli. Altrimenti i medesimi si ritroveranno a marcire in una lurida cella delle mie carceri! Adesso ti è stata spiegata ogni cosa!»

«Vuoi chiarirci, illustre sovrano, se li proteggi anche dai ladri? Oppure a loro soltanto è consentita un'ampia libertà d'azione nel tuo regno? Ci preme apprenderlo, se non ti dispiace!»

«Non potrebbe essere altrimenti, forestiero! Questa garanzia è data ai miei sudditi prima di ogni altro beneficio, considerato che essa tutela i miei interessi. In caso contrario, i vari contribuenti come farebbero a corrispondermi quello che mi è dovuto? Infatti, se venissero derubati del loro denaro dai ladri e dai predoni, in conseguenza di ciò essi non potrebbero più versarmi quanto mi si deve. Invece, proteggendoli da tali categorie di farabutti, curo pure i miei interessi personali. Ne dovete convenire che il mio ragionamento fila, se siete un po’ pratici e logici!»

«I fatti, però, re di Dorinda, smentiscono quanto hai affermato, riguardo ai ladri e ai rapinatori. Essi, con prove alla mano, ci hanno dimostrato il contrario! Come è possibile che nel tuo regno si verifichino ruberie di questo genere? Riesci a spiegarcelo tu in qualche modo, dal momento che non siamo affatto in grado di farlo da noi?»

«A quali fatti alludi, giovane forestiero?! Cerca di essere più chiaro, se non vuoi che io perda la pazienza e passi così a trattarvi come meritate! Nel mio regno non possono esistere e non sono mai esistiti né i ladri né i rapinatori! Il qui presente mio Croscione ne è testimone!»

«Stamani, o sovrano,» Iveonte gli dichiarò «quando eravamo quasi alle porte della tua città, siamo stati assaliti da più di una trentina di predoni. Ma dalla scaramuccia che ne è originata, siamo usciti illesi, come puoi vedere. Essi, invece, non vedranno più né il sole di giorno né la luna di notte. Per questo troviamo strano il fatto che nel tuo regno, nonostante tu sia massimamente intento a sopprimere la razza dei ladri e dei predatori, lo stesso ce ne sia un numero assai considerevole! Quindi, come giustifichi questa evidente incoerenza esistente fra le tue parole e i fatti da me menzionati? Vorrei proprio saperlo.»

«Tu menti, forestiero, come anche hai detto il falso sulle altre cose! Io mi domando quale pastore si sognerebbe mai di far crescere il proprio gregge in una foresta, in mezzo a tante bestie feroci! Non credo neppure che la vostra attività sia stata in passato la pastorizia, poiché dei veri pastori non si esprimerebbero con un linguaggio forbito come quello evidenziato da te! A mio parere, ci deve essere sotto qualcos'altro. Perciò, fin da questo momento, sappiate che pure i bugiardi e gli imbroglioni non hanno vita facile nel mio regno. Soprattutto se essi hanno l'insolente pretesa di sbugiardare addirittura il loro sovrano, quando costui invece è portato ad affermare sempre e nient'altro che la verità!»

«Allora» insistette Iveonte «manda sul luogo dei tuoi soldati, perché constatino di persona che le mie affermazioni sono veritiere e non false, come vorresti insinuare! Se sei d'accordo con me, suggerisco che siano i fatti a dimostrarci da che parte sta la verità. In questo modo non ci saranno più dubbi in merito! Oppure il controllo non ti garba?»

«Invece, forestiero, rigetto il tuo suggerimento, non vedendone la necessità. Il motivo? Vi comunico che nella mia città non c'è posto per i gradassi e i mentitori del vostro stampo. Dunque, per il vostro bene, vi esorto a lasciarla sollecitamente, se non volete passare dei brutti guai, i quali non tarderebbero a presentarsi a voi in ogni parte della città!»

«Finalmente lo hai capito, mio sovrano, che non possiamo ospitare simili spacconi e mentitori nella nostra Dorinda!» acconsentì spavaldamente Croscione, il consigliere del re Cotuldo «A dirla con il saggio proverbio, allo scopo di evitare un male, è meglio intervenire con ritardo contro di esso piuttosto che mai! Non è forse vero?»

Accolto poi soddisfatto l'assenso del suo re e mostrandosene compiaciuto, egli si rivolse subito dopo ai tre giovani, esplodendo nel seguente severo ammonimento:

«Quanto a voi, forestieri scocciatori, sperate soltanto che non vi incontri mai più sulla mia strada! Ma se ciò dovesse verificarsi per vostra sfortuna, vi prometto che costringerei voi a rinunciare per sempre alla luce del sole! Vi state chiedendo come? Naturalmente, spedendovi dritto nel buio tetro di una tomba! Rammentatevelo!»

«Chiunque tu sia, veramente saresti capace di farci tale torto, senza che ci fosse una seria ragione?» intervenne a dirgli Iveonte, simulando una gran fifa «A tale riguardo, sosteniamo che sarebbe ingiusto da parte tua, poiché sarebbe un grave sopruso ai danni di persone innocenti!».

Dopo l'intervento di Iveonte, il quale gli aveva dato l'impressione che avesse temuto le sue parole, Croscione, ridendosela a squarciagola, ci tenne a fare presente al suo re:

«Ah, ah! Li vedi, mio magnifico sovrano? La mia severa minaccia già li sta facendo tremare come topi davanti ad un gatto affamato. Secondo me, c'è mancato poco che non se la siano anche fatta addosso! Oppure una roba del genere c’è già stata, a nostra insaputa?»

Alle parole di scherno del gradasso Croscione, che egli e i suoi amici non avevano affatto gradito, Iveonte, assalendolo con impeto furioso, gli esclamò con grande fermezza:

«Allora venga molto presto quel giorno, poiché già lo sto aspettando con impazienza, quasi esso fosse il più bello della mia vita! Così constaterai che la verità sarà ben diversa dalle tue misere ed assurde pretese, le quali vorrebbero apparire come delle minacce! Ad ogni modo, non ti voglio anticipare altro, poiché lo scoprirai da te a tempo debito!»

Pronunciate tali parole, Iveonte e i suoi amici lasciarono insalutati ospiti la sala del trono e si allontanarono pure dalla reggia. Da parte sua, Croscione, dopo l'esclamazione di Iveonte, aveva già deliberato di questionare con i tre forestieri, con un immancabile tafferuglio. Ma fu privato di ogni suo furore dal tempestivo intervento della giovane principessa Lerinda. Ella, prendendo le difese del giovane, gli rinfacciò:

«Vacci piano, suscettibile Croscione! Non ti fa onore per niente scendere in lizza proprio qui nella reggia. Inoltre, a mio avviso, il forestiero, che ho trovato alquanto ardito ed avveduto, non può essere accusato di niente. Come tu, dunque, lo trovi tanto in colpa? Si vede che è la verità a darti fastidio, come lo dà anche a mio fratello Cotuldo!»

«A mio parere, gentile principessa, la sua affermazione, secondo la quale essi sono stati assaliti da più di trenta ladri e che ne sono anche usciti imbattuti, può essere unicamente una pura menzogna! Tale sua denuncia, perciò, essendo un’autentica invenzione, lo rende già colpevole. Devi sapere che il forte degli smargiassi, come i tre forestieri che sono appena andati via, è sapere inventare le cose di sana pianta. Hai mai sentito parlare di fatti di ruberie sui nostri territori? Ti posso assicurare: mai! Dunque, come spieghi la presenza simultanea nelle vicinanze di Dorinda di tantissimi ladri?»

«Sono convinta» spiegò allora l'avvincente fanciulla «che quel giovane non ci ha detto alcuna bugia. Saranno stati i ribelli di mio fratello ad assalire lui e i suoi amici. Ingannati dalle splendide armi da loro indossate, essi li avranno scambiati con vostri soldati. Si è trattato sicuramente di loro, per la semplice ragione che in un regno, dove già il re è un ladro e il suo aiutante è un superladro, non può esserci posto per altri ladri! Chi è stato già derubato una volta, non può subire un secondo furto da parte di altri, non restandogli più niente da farsi portar via! Non siete d'accordo pure voi?»

«Sì che se ne intende la mia sorellina!» esclamò allora il re Cotuldo, tra fragranti risate «Quei tre giovani, però, non mi convincono ed andranno tenuti in continuazione sott'occhio! Ti incaricherai tu personalmente, Croscione, perché la loro permanenza in Dorinda non duri molto. Inoltre, li farai pentire, se oseranno trasgredire il mio ordine appena dato! Sono persuaso che non verrai meno al compito che ti ho affidato!»

Allora il suo braccio destro, dopo aver rassicurato il proprio sovrano che la sua volontà non sarebbe stata disattesa, non si astenne dall'imitarlo. Anzi, ricalcò la sua medesima espressione di sardonico compiacimento, nel rispondere a quanto era stato affermato dalla principessa Lerinda. Ma dopo che la sua risata si fu esaurita, il sovrano pose termine al loro raduno nella sala del trono. Se lui e il suo consigliere ritornarono a sbrigare le loro attività, che erano di natura differente, la ragazza si ritrovò con un animo alquanto disorientato, per il fatto che non riusciva ad essere né serena né malinconica. Per un fatto incredibile, ella si era sentita attratta in modo misterioso dal giovane forestiero, il quale si era messo a discorrere con il fratello e con il suo braccio destro, che era Croscione. Adesso pensava a lui, come se si fosse trattato di una persona che all'improvviso le era diventata familiare. Perciò, non riuscendo a darsi una spiegazione in merito, la principessa fremeva di venirne a capo ad ogni costo, sicura che da quella conoscenza le sarebbe derivata una verità piacevole e gratificante. Ma era poi vero quanto la principessa Lerinda sospettava oppure la sua mente si sbagliava, per esserci ella costretta all'errore da qualcosa a cui non si poteva ancora dare un nome oppure un significato? Alla fine, però, ella cercò di soprassedere a quelle sue strane impressioni e sensazioni sorte in lei, per cui decise di ritornarsene presso la sua nutrice Telda. La compagnia della quale, probabilmente, l'avrebbe distratta da quel pensiero, il quale in lei era cominciato a diventare un chiodo fisso.