119°-IVEONTE E I SUOI DUE AMICI SI CONGEDANO DAI FAMILIARI DI TIO

Udita direttamente dalla bocca della moglie Luta la storia del loro Babbomeo, Iveonte e Francide si commossero tantissimo. Inoltre, lo ricordarono ancora una volta con profondo affetto e con intensa tenerezza. Soprattutto essi si mostrarono fieri ed orgogliosi di apprendere che il loro magnanimo Babbomeo, prima che si fosse dedicato a loro due, aveva condotto una vita significativamente esemplare. Egli si era dimostrato un maestro di eccezionale valore e di altissimi meriti, delle quali sue doti entrambi si erano giovati, mettendole a profitto. Nello stesso tempo, Iveonte rassicurò la sua sconsolata consorte e i suoi bravissimi figli che il loro Tio non era mai stato un assassino. L'uccisione del suo persecutore non era stata una sua azione premeditata e volontaria; bensì si era trattato di un tragico errore macchinato dal destino. Lo dimostrava il fatto che egli, volendo ridare in qualche modo la vita a chi era stato il suo irriducibile avversario, non aveva esitato a dare il suo nome allo sventurato ragazzo che, a dispetto di ogni giustizia, era stato abbandonato nella foresta. Dopo tali rassicurazioni, il giovane domandò alla vedova di Tio:

«Luta, possiamo sapere in che modo si è svolta la vostra vita, in tutto questo lunghissimo tempo che siete rimasti senza l’aiuto del capofamiglia? Di sicuro essa non sarà trascorsa per voi a gonfie vele, siccome avrete dovuto fare un sacco di sacrifici per sopravvivere. Non è forse vero che è stato come ho appena detto? Noi possiamo immaginarceli benissimo, adesso che consideriamo meglio le cose!»

«Avvenne, Iveonte, proprio come hai supposto, non potendo la nostra vita svolgersi altrimenti. Perciò, desiderando appagare questo vostro desiderio, passo a sintetizzarvi i fatti salienti della nostra travagliata storia di tanti anni trascorsi in grosse difficoltà.»

Seguì così il racconto della commossa donna, dal quale i quattro ospiti avrebbero appreso i numerosi sacrifici, che la famiglia di Tio aveva dovuto affrontare per lunghi anni, allo scopo di superare tante avversità di ogni genere. Le quali, senza alcuna commiserazione, erano piovute su di essa in continuazione e con acre accanimento.

"L'uccisione involontaria del cugino del re, da parte di mio marito, non solo ci portò via il nostro amabilissimo congiunto; ma anche ci circondò di diffidenza e di disprezzo, da parte dell'intero popolo dorindano. Esso dimenticò, dall'oggi al domani, quanto il nostro impareggiabile familiare aveva fatto per tutti gli Edelcadi. Ci abbandonò perfino la clemenza del re di Dorinda, il quale non volle mai più sentir parlare né di noi né della nostra miseria. Lucebio fu l'unica persona che continuò a dimostrarci la sua amicizia e la sua generosità. Ma eravamo convinti che il vivo interessamento, che il nostro protettore rivolgeva a noi in ogni momento, non garbava per niente al re Cloronte. Costui, però, pur non osando imporgli la sospensione di ogni suo aiuto umanitario nei nostri confronti, seguitava ad osteggiare larvatamente l'atteggiamento del suo amico consigliere. Ma Lucebio, benché fosse evidente l'ostilità del suo sovrano all'interessamento che egli ci rivolgeva in ogni senso, ugualmente si mostrava ben disposto verso di noi, che eravamo moglie e figli del suo grandissimo amico Tio.

Allora il re di Dorinda, prevedendo che la sua imposizione avrebbe fatto un buco nell'acqua, se avesse ordinato all'amico di smettere di aiutarci, decise di ricorrere alla diplomazia. Dopo un paio di mesi dalla scomparsa di mio marito, il monarca, con il chiaro pretesto di allontanare da noi il nostro munifico benefattore e privarci anche di quel prezioso cespite, volle affidare a Lucebio uno strano incarico, il quale avrebbe dovuto condurlo presso le altre città dell'Edelcadia. Nella sua ufficialità, l'obiettivo del suo viaggio presso le varie corti edelcadiche sarebbe stato quello di rendere più saldo e duraturo l'ideale unitario dei vari popoli edelcadici. Invece, per il solo re Cloronte, esso avrebbe dovuto tenere il nostro filantropo lontano dalla nostra famiglia. Perciò, dopo la partenza del nostro generoso amico, iniziarono ad esserci per noi i momenti più disperati e terribili, vedendoci stretti dalla morsa della fame.

A quel punto, prima che l'inedia venisse a travolgerci totalmente, decidemmo di emigrare in un'altra città edelcadica. Un mese dopo, così, ci trasferimmo in queste parti remote, dove trovammo tanta comprensione ed un valido aiuto da parte del caritatevole Irlone, che in passato era stato alle dipendenze di mio padre, lavorando come stalliere presso la sua carovana. Avendolo incontrato per caso in Terdiba, la città dove avevamo traslocato da poco, gli raccontai quanto ci era accaduto e gli esposi anche le nostre difficoltà finanziarie del momento. Senza pensarci due volte, egli si mise a nostra disposizione e ci consigliò di andare a vivere presso la sua posteria. Secondo l'ex dipendente di mio padre, in quel luogo, dandoci a svolgere un'attività qualsiasi, anche se non ci saremmo arricchiti, molto sicuramente avremmo trovato da vivere in modo onesto e dignitoso. Allora, cogliendo a volo quell'occasione propizia, decisi di seguire il suo consiglio e non me ne sono mai pentita.

In seguito, quando i miei figli divennero maggiorenni, decidemmo di condurre una vita indipendente dal nostro nuovo benefattore. Perciò, dopo esserci costruita una casa tutta nostra, la quale è questa in cui abitiamo, un bel giorno ci separammo da Irlone. Da quel momento in poi, siamo andati avanti con la pastorizia, attività che non ci fu difficile portare avanti, dalla quale siamo riusciti così a procacciarci il nostro sostentamento quotidiano."

Dopo che la donna ebbe terminato il suo racconto, con il quale aveva ripercorso sommariamente le loro tante peripezie affrontate in passato, Iveonte le domandò:

«Adesso, gentile Luta, io e i miei amici vorremmo sapere da te sotto la giurisdizione di quale città sono questi territori, che ospitano la vostra accogliente dimora. Da un mio primo orientamento, sono portato a credere che essi appartengano a Terdiba, essendo tale città non molto lontana da questo luogo. Oppure mi sbaglio, per aver calcolato la distanza in maniera approssimativa? Sta a te, quindi, chiarirci cortesemente se c'è stato nella mia rapida approssimazione qualche errore di calcolo!»

«Invece hai calcolato giusto, Iveonte! Un giorno, però, era il re di Dorinda ad esercitare la sovranità su di essi. Invece, dopo le disgrazie della Città Invitta e del loro re Cloronte, le cose sono cambiate. Al tempo attuale, però, non sono in grado di fornirvi dettagli precisi sugli avvenimenti che sconvolsero la serenità di Dorinda e portarono allo spodestamento del suo stesso sovrano. In seguito, nessun motivo specifico mi ha mai spinta ad interessarmi di loro e ad approfondirli maggiormente. La grande distanza che ci separa dalla nostra città di adozione, non consentendoci di ritornarvi, ci ha tenuti all'oscuro dei fatti che nel frattempo vi sono accaduti. Come pure essa ci fa ignorare tutti quelli che vi si vanno svolgendo al tempo d’oggi.»

Data una risposta più o meno esauriente ad ogni domanda che le aveva rivolta Iveonte, la donna ne volle fare un paio pure lei. Ma esse furono indirizzate ad un ospite in particolare, non potendo essere diversamente. Perciò ella, con un certo interesse, chiese a colui che fino a qualche giorno prima aveva fatto parte della più famigerata delle bande, la quale era stata quella di Kuercos:

«Vuoi dirmi, Murzo, quali furono le ragioni che ti spinsero ad entrare a far parte della banda di quel crudele criminale e perché in seguito hai tanto desiderato uscirne? Se con le mie due domande non ti chiedo troppo e non ti metto in difficoltà, mi farebbe molto piacere apprendere le cose che ti ho domandato!»

Per l’interpellato Murzo, non era semplice dare una risposta con poche frasi, visto che essa richiedeva il racconto di una storia lunga e penosa. Allora egli, pur di farla apparire il meno possibile noiosa e detestabile ai suoi ascoltatori, cercò di presentarla in forma molto succinta. Così, esprimendosi con una voce pacata e con un animo assai depresso, il poveretto diede il via alla sua triste narrazione.

"In realtà, non ci fu nessun motivo particolare che mi spinse ad entrare nella banda di Kuercos, poiché ero già un poco di buono anch’io, prima che essa prendesse l'aire. Per la precisione, fu il mio malsano focolare domestico a darmi la prima impronta del delinquente. Mio padre, incallito ladro di professione, mi aveva sempre costretto a partecipare alle sue rapine, fin da quando avevo sette anni. Mi obbligava a seguirlo, nonostante mia madre facesse di tutto per vietarglielo con aspri e combattuti litigi diurni e notturni. Perciò già all'età di quindici anni, potevo considerarmi un ladro più abile ed astuto del mio genitore. Nel frattempo mia madre si era ammalata di tubercolosi e, anno dopo anno, il suo stato di salute si andò aggravando sempre di più. Infine, dopo cinque anni di terribile sofferenza, ella diede l'addio al mondo.

Prima di dare l'ultimo respiro, però, l'infelice donna mi aveva chiamato al suo capezzale e mi aveva raccomandato di non proseguire per quella strada, alla quale mi aveva avviato mio padre. Secondo lei, essa avrebbe fatto di me un rifiuto della società e un candidato al patibolo. Ella mi aveva anche consigliato di apprendere un mestiere, che mi consentisse di condurre una vita dignitosa, ossia onesta e laboriosa. Invece io, sebbene la mamma mi avesse fatto una gran pena mentre spirava, dopo la sua morte seguitai a rubare, poiché ricavavo da quella vita ladronesca dei facili guadagni. Inoltre, essi non mi complicavano la vita e mi davano, in pari tempo, la possibilità di sostentarmi alla meglio. Seguirono poi altri due anni di intensa attività di ladreria, durante i quali il volto di mia madre morente mi restò sempre impresso nella mente, per cui più volte fui tentato di mutare vita. Ma quegli incipienti sintomi di ravvedimento non riuscirono mai a trovare all'esterno di me un terreno così fertile, da consentire loro un facile attecchimento. Il motivo? Mio padre si era mostrato sempre molto desto a reprimermeli nella coscienza, via via che essi vi facevano capolino. Egli non voleva che lo abbandonassi, per non restare solo nello svolgere la sua disonesta attività.

Un giorno, a tre anni dalla morte della mamma, il mio genitore volle attuare un furto in Dorinda, ossia nella casa di un notabile della città. Allora, essendo stati scoperti dai custodi del palazzo dove stavamo rubando, mentre mio padre fu trafitto a morte da una freccia, io fui acciuffato e consegnato alle guardie di Cloronte. Così venni subito processato e condannato a cinque anni di galera. Quella condanna, per la verità, non risultò essere la mia disgrazia peggiore, considerato che una sventura ben più grave stava per piombarmi addosso. Essa mi sarebbe provenuta dal mio incontro nel carcere di Dorinda con il terribile Kuercos, di cui in breve tempo divenni l'amico fidato. Il Kuocchese mi convinse ad assecondare il suo disegno di creare una grande banda, la quale si sarebbe dovuta dare ad assaltare le carovane dei ricchi mercanti, allo scopo di ricavarne degli ottimi guadagni. Ma occorreva prima pensare a come evadere dalla prigione, sulla quale veniva effettuata una rigorosa vigilanza che non permetteva la fuga. Allora, nonostante le difficoltà, noi ci mettemmo subito all'opera e facemmo i primi tentativi di evasione insieme con altri reclusi. Ma essi furono sempre frustrati dalle vigili guardie, che prestavano servizio in quelle carceri. Perciò i nostri tentativi di evasione ci valsero solo a farci aumentare il numero degli anni della nostra detenzione. Avendo poi tentato la fuga per l’ennesima volta, finalmente riuscimmo ad evadere dal carcere. In verità, la nostra evasione non fu dovuta alla nostra bravura; bensì al fatto che la guarnigione, che vi era distaccata, era stata ritirata per intero dalla prigione. Essa, infatti, avrebbe dovuto far fronte al tradimento che era stato attuato dagli altri sovrani dell'Edelcadia ai danni della città di Dorinda.

All’esterno del carcere, la banda, dopo essere stata formata in breve tempo, poté entrare in azione, cominciando a dare i frutti previsti. Ma ben presto mi accorsi che il nostro gruppo non era una banda di normali predoni, che si mostravano paghi soltanto degli ottimi bottini. Invece risultava un'accozzaglia di criminali, siccome la maggioranza dei suoi componenti amava martoriare le loro vittime con feroce sadismo. Nelle nostre scorrerie, a dire il vero, nessuno veniva risparmiato dalle loro iniquità atroci, poiché ci andavano di mezzo anche i bambini, i vecchi e le donne. Quanto a queste ultime, per rispetto di te, Luta, non oso riferirvi a quali sevizie andavano incontro, prima di essere ammazzate!

Allora quegli orrendi ed inumani crimini mi spinsero a progettare il modo di trarmi fuori da quella banda spietata. Invece il senso della paura mi faceva visita ad ogni mio proposito di tal genere, inchiodandomi sulle spine ed inibendo in me ogni reazione a quelle brutalità. Perciò esso non mi faceva mai risolvere con volontà tenace e con ferma determinazione. Io temevo Kuercos e tutti i suoi uomini nevrastenici, poiché ero convinto che, se avessi tentato di mollarli, essi mi avrebbero inseguito fino in capo al mondo ed ovunque mi fossi nascosto. Così, una volta che mi avessero scovato, i predoni mi avrebbero punito con la morte più dolorosa possibile.

Dentro di me, tuttavia, continuavo a sperare il momento propizio che mi avrebbe offerto la bella opportunità di scaricare definitivamente Kuercos e la sua banda. Ieri notte mi è parso quello giusto per reagire e l'ho fatto senza pensarci due volte, vincendo ogni senso di paura. La mia positiva reazione, in realtà, era soltanto alla fase iniziale e non so quale epilogo drammatico avrebbe avuto. A ogni modo, il provvidenziale intervento di questi eroici giovani, che ha sottratto a morte certa pure i tuoi figlioli, mi ha permesso di condurla a termine con successo."

Terminato il suo racconto, Murzo si rivolse alla donna e ai suoi due figli, dicendo:

«Adesso, familiari del grande Tio, se non avete nulla in contrario, vorrei che il vostro focolare domestico diventasse anche il mio. Non immaginate come desidero consumare gli anni che mi restano ancora da vivere in mezzo alla semplicità e alla serenità della vostra meravigliosa famigliola. Vi assicuro che, se me lo permetterete, non vi pentirete di avermi accolto in mezzo a voi, dal momento che dopo farò l'impossibile, pur di esservi utile come meritate!»

Luta e i suoi figli esaudirono, unanimemente e senza esitazione, il desiderio del pentito predone, che un tempo aveva militato nella spietata banda del feroce Kuercos. Risorto dall'abiezione della sua vita spregevole, egli si era finalmente redento dalla schiavitù del male, con lo scopo preciso di dedicarsi ad opere di bene. Oramai egli aveva a sua completa disposizione l'intero tesoro accumulato in tanti anni dalla banda di Kuercos, perché egli soltanto sapeva dove esso si trovava! Perciò non gli mancavano i fondi da stanziare per i suoi fini prettamente umanitari. Servendosi delle sue ingenti ricchezze, egli aveva intenzione di realizzare tutte quelle opere filantropiche che, giorno dopo giorno, si fossero dimostrate le più caritatevoli e le più nobili delle altre.

Naturalmente, i familiari di Tio, il quale era l'ex Babbomeo, avrebbero voluto che anche Iveonte e i suoi due amici restassero con loro. I tre giovani, però, declinarono il loro invito, siccome intendevano condurre tutt'altro genere di vita e non quella di semplici pastori oppure di laboriosi contadini. Comunque, i tre amici gradirono la loro squisita ospitalità, fino a quando Luta, con le sue fruttuose lezioni di equitazione, non li ebbe resi tutti e tre dei veri professionisti nell'arte del cavalcare. Inoltre, essi vi vollero restare soprattutto per insegnare, a loro volta, un ottimo uso delle armi ai figli di lei, intanto che la madre li addestrava eccellentemente nell'equitazione.

Nel congedarsi dall'egregia e virtuosa donna e dai suoi straordinari figli, Iveonte, Francide ed Astoride avrebbero voluto donare agli splendidi familiari di Babbomeo le loro pecore. In verità, proposero loro perfino di accettare i cavalli che un tempo erano appartenuti ai componenti della famigerata banda. Ma Murzo si oppose energicamente ai tre giovani e, dopo aver decuplicato l'effettivo valore di ciascuna bestia, pagò loro con monete sonanti sia la mandria di cavalli che il gregge di pecore. Inoltre, volendo ringraziarli di ciò che avevano fatto per lui, volle regalare a ciascuno di loro delle splendide armi e delle ottime armature. Le une e le altre furono acquistate presso la posteria del vecchio Irlone, essendo essa fornita dei più svariati articoli occorrenti alle persone e alla loro casa. L'ex predone era consapevole che qualsiasi città avrebbe comportato un tenore di vita molto dispendioso. Perciò i tre giovani, praticando in seguito l'ambiente cittadino, avrebbero avuto bisogno di molto denaro per far fronte alle varie esigenze, che di sicuro sarebbero sorte in loro. La qual cosa lo spinse ad essere abbastanza magnanimo nei loro confronti, poiché gli sarebbe dispiaciuto tantissimo, se un giorno fosse venuto a sapere che la loro esistenza si svolgeva in un gramo trantran quotidiano.

Il distacco dei tre giovani dai familiari del loro defunto maestro avvenne in forma sentitamente rattristante. Gli uni e gli altri si profusero in sentimenti calorosi e in emozioni intrise di profonda pateticità. Sembrava che essi avessero sempre fatto parte di un'unica famiglia, per cui adesso la separazione veniva avvertita da loro come qualcosa di inatteso e di inaccettabile. Insomma, era come vedersi privare di un tesoro inestimabile, essendo esso costituito dalle sole ricchezze del cuore, dell'animo e della mente. Le quali non potevano avere alcun prezzo, siccome esse avevano il dolce sapore dell’affetto verace. In misura contenuta, anche Murzo si sentiva trascinare sentimentalmente in quella loro manifestazione della simpatia più consona ad un evento del genere. Perciò anch'egli fruiva della sua quota di emozioni travolgenti, provandone un godimento indescrivibile. All'improvviso, gli era parso di rinascere a nuova vita, la quale non più si presentava lordata da misfatti di ogni sorta, come assassini, stupri, violenze e prepotenze. Invece adesso essa, venendo a svolgersi in un sano focolare domestico, si ritrovava a vivere la generosità e l'amore del prossimo. Oramai la sua esistenza si era riscattata dall'abominio della depravazione, con l'intento di attuarsi in una diversa dimensione di vita. La quale finalmente era caratterizzata da nobili opere di bene, poiché soltanto esse risultavano le uniche cose al mondo che contavano nella vita, poiché onoravano la specchiata condotta di un uomo generoso.