105°-LA PRIGIONIA DI ASTORIDE NEL CASTELLO MALEDETTO

Naturalmente, il mio risveglio non fu uno di quelli che possono definirsi benaccetti da una qualsiasi persona. Invece, fin dall'inizio, esso si manifestò tutt'altro. Per questo non lo auguro a nessuno, specialmente se si tratta di un bambino, come lo ero io a quel tempo! Al risvegliarmi, i miei occhi non si aprirono alla vita; bensì ad una sua imitazione, la quale non aveva nulla a che vedere con quella che poteva considerarsi una normale esistenza. Fin dal primo istante, una cella buia ed angusta, dove si respirava un'aria greve e malsana, si diede ad opprimermi fino all'ossessione. Essa mi confinava senza riguardo in una realtà, la quale poteva solto rappresentare la negazione di un modo di vivere, che era considerato universalmente umano e civile. In un primo momento, cercai di non pensare a quanto mi circondava e mi stava capitando. Facevo di tutto per ignorarlo e cancellarlo dalla mia coscienza con grandi sforzi della mente, i quali erano da considerarsi quasi sovrumani. Alla fine, però, non riuscendo a sobbarcarmi quel peso che si rivelava superiore alle mie gracili forze, crollai psicologicamente. Allora mi alzai e mi precipitai alla porta, dandomi a picchiarla con calci e pugni, quasi volessi vederla scardinarsi davanti ai miei occhi. Intanto che mi sfogavo in quella maniera, gridavo a gran voce:

«Apritemi! Fatemi uscire, per favore! Qui dentro mi sento soffocare e venir meno! Ammesso che dall'altra parte mi stiate ad ascoltare, abbiate pietà di me e ridatemi la libertà che avevo prima! Io non ho fatto niente di male per meritare un simile atroce castigo!»

All'inizio, evitando di darmi retta, chi poteva ascoltarmi non mi rispose. Ma poi, alle mie insistenti grida, da fuori mi giunse la voce grave del mio carceriere, il quale si diede a parlarmi così:

«Finalmente ti sei svegliato, ragazzo, dopo che hai dormito per due giorni consecutivi! Comunque, ti do il mio benvenuto all'inferno! Che tu possa godertelo comodamente e più a lungo possibile, se non desideri crepare prima! Infatti, non c'è altra alternativa per te, se vuoi continuare a restare in vita! Ti sono stato abbastanza chiaro?»

In verità, non sapevo qual senso attribuire alle ultime frasi del mio invisibile interlocutore. Ero alquanto confuso e non mi riusciva di interpretarle né come un augurio né tanto meno come una imprecazione. Secondo quanto egli mi aveva fatto presente, per me venir fuori da quella cella significava andare incontro alla morte, poiché sarei diventato pasto di Cotiuk, il capo di quella popolazione che non conoscevo. Invece il restarvi equivaleva a torturarmi l'animo in ogni attimo della mia futura esistenza. A ogni modo, con il termine "inferno", il carceriere aveva connotato icasticamente il malvagio ambiente in cui ero stato rinchiuso in maniera barbara. Egli mi riportò in modo brusco a quella mia nuova realtà, che in precedenza avevo voluto disconoscere e rifiutare. Ero arrivato perfino a convincermi che si trattava di un'allucinazione bella e buona. La quale, se non avevo torto, mi proveniva dal precario stato della mia mente, siccome essa non si era ancora totalmente ristabilita. Adesso, però, non mi ingannavo più e vivevo dentro di me anche il più piccolo dettaglio della mia esistenza, la quale mi era piombata addosso con il suo crudo e squallido realismo. Dopo che l'infame Cotiuk mi aveva mandato in malora, l'ambiente infernale sarebbe risultato più sopportabile, se confrontato con l'impossibile vita a cui ero stato destinato per colpa della nequizia di mio zio! Segregato in una stretta ed insalubre cella, la quale era dominata di giorno dalla penombra e di notte dal buio pesto, ero costretto a gestire fra quattro luride pareti ammuffite la mia vasta esistenza spaziale e temporale. L'aria vi giungeva attraverso un taglio a forma di semiluna, che era stato praticato nella parte inferiore dell'uscio, con il diametro a diretto contatto con il letto di malta magra che formava il pavimento del mio ambiente.

Come ebbi modo di rendermi conto più tardi, quella specie di gattaiola doveva permettere al mio carceriere di introdurvi il cibo e l'acqua che mi erano destinati ogni giorno. Anch'io avrei dovuto farne uso, allo scopo di restituirgli il cranio umano, da me usato come recipiente per bere, e il pezzo di asse rettangolare, che adoperavo come un vero vassoio. Anche se provo vergogna a parlarvene, cari amici miei, devo farvi presente che ben presto feci una rivoltante scoperta. I medesimi oggetti, dei quali vi ho parlato prima, dovevano pure servirmi per lo smaltimento delle sostanze di rifiuto che provenivano dalle mie funzioni fisiologiche. Dopo sarebbe stata premura del carceriere disfarsi sia del materiale liquido che di quello solido da me escreti, riportando al precedente stato di pulizia entrambi i contenitori. In quella maniera, essi sarebbero stati riutilizzati per contenere il mio pasto del giorno successivo. In riferimento alle più elementari norme di nettezza e di igiene, perciò, lascio a voi immaginare il fatto increscioso che ne poteva derivare! A tale riguardo, spero di non avervi provocato il voltastomaco! In principio, per i motivi che si conoscono, quella procedura mi sembrò poco ortodossa, oltre che disgustosa al massimo. In seguito, invece, mi convinse che essa tornava esclusivamente a mio vantaggio. Infatti, valutata meglio la situazione, dovetti ammettere che tale prassi, anche se per certi aspetti era da stimarsi sconveniente e vomitevole, almeno mi permetteva di avere una cella sempre relativamente pulita. Per cui mi si dava la possibilità di non convivere con i miei escrementi e con il loro puzzo nauseabondo, evitandomi ulteriori disagi che potevano provenirmi dalla convivenza con essi.

Ritornando agli altri due aspetti del mio inferno, naturalmente mi riferisco a quello psicologico e a quello esistenziale, il mio impatto con la nuova realtà fu uno dei più tremendi. Esso bistrattò e lacerò il mio stato psichico, sventrandolo in ogni modo possibile. La mia coscienza, da parte sua, chissà quante volte desiderò di non essere conscia di ciò che mi stava capitando, pur di non essere costretta a subire la brutalizzazione più perfida ed inumana. Soprattutto essa non voleva sentirsi violentata in modo innaturale da quella insostenibile situazione nella sua esistenza di persona libera. Ci mancò poco che quelle inammissibili storture esistenziali, ossessionandomi fino al parossismo, non mi gettassero in pasto ad un processo di cruda follia irreversibile, facendomi estraniare da tutto. Per fortuna, la natura umana non è così debole, come appare oppure come la si vuol fare intendere. Credetemi, amici, anche nei momenti più critici e nelle circostanze più assurde, essa, lottando con la forza della disperazione, alla fine riesce a resistere, a destreggiarsi, a difendersi e a sopravvivere alle vicende più incredibili ed inconcepibili! Solamente rare volte la vediamo soccombere sotto l'incalzare delle avverse vicissitudini della vita e si lascia sommergere da esse. Quest'ultima eventualità, però, non riuscì ad avere il sopravvento su di me perché, giorno dopo giorno, trovai il modo di superare quella mia fase iniziale neghittosa e tremendamente critica.

In verità, più che la rassegnazione, fu il fortissimo desiderio della vendetta a darmi la forza di lottare e di seguitare a restare in vita. L'idea di vendicarmi mi infondeva pure una testarda brama di andare avanti e di vivere, per cui l'alimentavo in me, fino a farmene una ragione di vita! Difatti la voglia di portare a compimento il mio atto vendicativo a ogni costo mi incoraggiò e mi sostenne nelle avversità più dure. Inoltre, essa mi ridiede quella speranza, che pareva si fosse ormai spenta in me per sempre insieme con il desiderio di vivere. Il quale anche sembrava che fosse ormai morto per sempre nella mia anima. Allora tale idea fissa e tale voglia, con il loro imperativo categorico, mi imposero il dovere di tenermi aggrappato tenacemente alla vita, senza lasciarmela sfuggire. Altrimenti, se fossi venuto meno all'esistenza, il giuramento fatto a mio padre si sarebbe disperso sotto la furia del vento; anzi, si sarebbe trasformato in un'autentica abbaiata alla luna. Ma un fatto del genere per nulla al mondo veniva desiderato da me!

Dopo un certo periodo trascorso nell'abulia e nell'inerzia più assolute, nonché caratterizzato dalla più totale trascuratezza di me stesso, decisi infine di reagire e di riprendermi, di uscire cioè dalla mia voglia di fare soltanto niente. In ciò, mi diedero una mano i saggi insegnamenti del mio maestro Apento, i quali iniziarono a far breccia nel mio animo. Buon per me, egli era riuscito ad inculcarmeli egregiamente con la sua encomiabile opera educativa. Adesso passo a mettervi al corrente di ciò che l'eccezionale vegliardo mi aveva insegnato. Secondo lui, un uomo non deve mai arrendersi ed abbattersi, di fronte alle avversità e alle disavventure che spesso la vita gli riserva. Invece deve sempre reagire ad esse con dignità, con spirito di intraprendenza e con coraggio indomabile, doti che contraddistinguono la sola natura umana. Inoltre, nel caso che sia costretto a vivere a lungo in assoluto isolamento e con a disposizione uno spazio alquanto limitato, egli non deve soprassedere, restandosene a lungo completamente senza dedicarsi a qualcosa. Al contrario, deve tenere esercitati di continuo sia il fisico che lo spirito.

Per non impazzire ed evitare di farsi inceppare la regolare funzionalità delle cellule cerebrali, il recluso deve tenere incessantemente allenata la mente, pensando il più possibile e facendo progetti a medio e a lungo termine. Inoltre, deve cercare di intendersela con le proprie speranze e con le proprie illusioni, come se fossero sue sorelle inseparabili. Se poi non vuole che gli si paralizzi il corpo oppure gli si atrofizzi una sua parte, quando ne ha la possibilità, egli non deve dimenticare di fare attività fisica durante buona parte della giornata. Esercitandole in tutti i loro possibili movimenti, egli conserverà le membra in una forma eccellente. Soltanto in questa maniera, una persona relegata riesce a mantenere l'integrità psicofisica e di quella intellettiva, delle quali finisce per giovarsi anche il suo spirito. Per cui esso si mostra all'altezza della situazione in ogni circostanza della vita, cioè sia quando è caratterizzata dal roseo ottimismo sia quando è dominata dal tetro pessimismo. A quest'ultimo, poi, egli non deve mai arrendersi, potendo esso danneggiarlo pericolosamente, senza permettergli mai più di recuperare la serenità. Così, abbeverandomi al prezioso magistero del mio indimenticabile precettore, misi in pratica i buoni consigli che in quel momento mi derivavano da esso. La qual cosa rese più rapida la mia assuefazione alla realtà infernale della prigione. Questa tendeva unicamente a spegnermi le varie energie vitali e, di conseguenza, a sopraffarmi lo spirito.

Durante il giorno, quando non pensavo, facevo applicazione dei tanti esercizi ginnici a corpo libero, quelli che il mio esperto istruttore mi aveva insegnato. Invece, quando tenevo impegnata la mente, rivolgevo i miei pensieri alla mia città, alla mia famiglia e ai miei amici. Perciò provavo una gioia immensa nell'immaginarmi di essere tra le braccia della mamma, avvertendo in quella maniera come reali le sue effusioni di calore e di affetto, quelle che mi provenivano da lei ogni volta che ne necessitavo. Anche i bellissimi momenti, che avevo trascorso con la mia sorellina Dildia e con il mio indimenticabile amico Tionteo, mi recavano un insperato sollievo. Rivivevo i magnifici giochi fatti insieme con loro, anche se a volte non erano mancati dei litigi o degli screzi fra di noi, i quali inevitabilmente c'erano spesso. In quei momenti, perciò, ero preso da un incontenibile piacere e dalla voglia di rifarli.

Così, in quell'altalena di alti e bassi, trascorsero i miei primi anni di reclusione. Ormai, essendo stato abbandonato dall'età della fanciullezza, ero entrato in quella dell'adolescenza. Da quel momento, vidi il mio fisico espandersi sempre di più, oltre che acquistare una costituzione sempre più atletica. Con l'età della giovinezza, invece, la mia corporatura divenne così muscolosa e gigantesca, che incominciò a preoccupare perfino il mio carceriere. Allora egli, non volendo correre dei rischi, decise di farmi incatenare. Come potete immaginare, amici miei, le catene costituirono subito un grande problema per me, non riuscendo all’inizio a sopportarle facilmente. Perciò dovetti fare un altro enorme sforzo, prima di cominciare a considerarle come se fossero parti integranti del mio corpo e a provarne il meno fastidio possibile durante il giorno, mentre mi muovevo nell'ambito della mia cella.

Dopo un anno di ulteriori disagi che mi derivavano dalle pesanti catene, le quali, a dire il vero, mi consentivano di spostarmi senza alcuna difficoltà dentro la mia cella, ecco che siete arrivati voi a liberarmi, miei impagabili amici. Per questo lo devo a voi, se oggi mi ritrovo ad assaporare di nuovo il gusto della libertà che avevo tanto sospirata, per essermi mancata per lungo tempo! Ed è anche per vostro merito, se da oggi mi è consentito sperare in una vita migliore, più rosea e senza nubi fosche all’orizzonte, intenzionate ad annunciarmi altri imminenti fenomeni temporaleschi. Anzi, sono convinto che, grazie a voi due, non mi si presenteranno mai più altre occasioni per ulteriori e più drammatiche sventure! Altrimenti, esse davvero mi trascinerebbero l’animo in un abbattimento avvilente, capace di provocare ancora la flagellazione della mia esistenza, facendoci andare di mezzo in modo intollerabile anche la mia psiche e il mio spirito.