104°-COATTO ALLONTANAMENTO DI ASTORIDE DALLA SUA CITTÀ

Quando riaprii gli occhi, non feci fatica a rendermi conto che stava spuntando il nuovo giorno. Infatti, ad oriente, si intravedeva il primo chiarore dell'alba. Inoltre, mi accorsi che non mi trovavo più nella reggia; invece ero in aperta campagna, dove mi stavo appena svegliando dal sonno. Avendo poi studiato meglio la situazione, mi avvidi che mi avevano coricato sopra una coperta di lana. Essa era stata distesa sul manto erboso, allo scopo di preservare il mio corpo dall'umidità della notte. Visto che ero lontano da Terdiba, mi venne spontaneo farmi le domande che ora vi riporto. Perché ero stato condotto in quel luogo a mia insaputa? Mio zio mi aveva forse tenuto nascosta qualche altra sua intenzione malvagia, per cui si era proposto di attuarla il giorno dopo? Magari aveva stabilito di minare anche la mia sopravvivenza, nonostante gli avessi dato ad intendere che ignoravo il suo abominevole tradimento! Comunque, restavo ancora all'oscuro di quel probabile evento; però quanto prima ne sarei venuto a conoscenza. Mille idee paurose, quindi, mi brulicavano nella mente, non essendo in grado di immaginare almeno qualcosa sulla mia esistenza appartenente al futuro.

Credevo di essere solo in quel luogo; invece poco dopo avvertii una voce che mi gridava con modi piuttosto burberi, come se io fossi un ragazzaccio di strada: “Svégliati, monellaccio, e vieni subito presso di noi. Sappi che è giunta l'ora di lasciare da parte il sonno e di raggiungerci, poiché tra breve riprenderemo il nostro cammino!”

Nel sentirmi affibbiare quell'epiteto da un abietto soldato, venni a conoscenza di una triste verità. Mi convinsi che nessuna rosea speranza mi si profilava davanti, avendo compreso che nella persona di mio zio non c'era neppure una briciola di buona azione. Egli, finalmente, si manifestava la persona che era veramente, cioè un uomo che nutriva in sé ogni specie di infamia e di iniquità. Ma cosa potevo fare io contro di lui, oltre che rassegnarmi al mio maligno destino? Così, fin da quel primo mattino, compresi quale sarebbe stato il mio futuro prossimo e remoto, siccome lo prevedevo privo di sbocchi positivi. Essendomi poi voltato a guardare verso quella parte, da dove mi era provenuta l'aspra voce di colui che si era rivolto a me, a venti metri di distanza, scorsi cinque soldati di mio zio. Essi erano accoccolati intorno a della brace divenuta ormai scarsa; anzi, si tenevano abbastanza ravvicinati ed erano intenti ad un parlottio animato. Come mi rendevo conto, quattro del gruppo esponevano le loro vedute; invece il quinto, mostrandosi contrario, si opponeva ad esse con un diniego. Ma in realtà, i cinque soldati su quale argomento stavano discutendo? A mio parere, quel piccolo crocchio andava assumendo sempre di più le parvenze di un fomite di misfatti disumani e di discordie. Probabilmente mio zio, che non aveva messo da parte una mia eventuale vendetta futura, aveva deciso di assegnare anche alla mia persona la pena capitale. In quel modo, egli si sarebbe assicurato un avvenire tranquillo, scevro di timori e di qualunque ossessione. Né io potevo liberarmi dalle grinfie di quegli sgherri senza scrupoli, i quali, nel rivolgersi a me, già avevano incominciato a mostrarmi il massimo disprezzo e il loro malumore, senza alcun rispetto!

Di lì a poco, mi accingevo a raggiungere il quintetto, quando vidi i suoi componenti alzarsi e sciogliere la cricca. Allora, allo scopo di sellarli, tre di loro andarono a recuperare i loro cavalli, i quali pascolavano poco distante in un prato rugiadoso. I rimanenti due, invece, badarono a farmi rifocillare con una frugale refezione, cioè con pane di segale e con carne affumicata. Nella mia mente, per il momento, non balenava alcuna idea di sottrarmi alla loro sorveglianza e di scappare via. Anche perché, se ne avessi avuto qualcuna, i miei custodi di certo non mi avrebbero consentito di allontanarmi da loro. Difatti venivo guardato continuamente a vista da almeno quattro di loro, al fine di evitare appunto una fuga improvvisa da parte mia. Quando poi i tre soldati ritornarono con i cavalli, montammo subito in sella e ci mettemmo in cammino in direzione del bosco. Questo, però, distava ancora parecchie miglia da noi e si prevedeva che vi saremmo pervenuti nell'arco della giornata. Io cavalcavo insieme con l'uomo più anziano, il quale era l'unico ad essere gentile nei miei confronti, poiché non mi manifestava alcun disprezzo. In verità, non mi esprimeva neppure qualche forma di affetto oppure di cordialità, allo scopo di tirarmi su il morale. Si trattava del soldato che poco prima avevo visto opporsi energicamente agli altri quattro suoi commilitoni, mentre discutevano concitatamente intorno ai residui di brace. Egli era anche il più autorevole dei cinque soldati, che mi tenevano praticamente prigioniero.

Verso il tramonto, avendo raggiunto il bosco, ci preparammo ad inoltrarci in esso. Ma prima di farlo, scorgemmo il cielo che già cominciava ad abbuiarsi, essendo venuto a spegnersi intorno a noi qualsiasi chiarore. Perciò la notte sopraggiunse nella maniera in cui avevamo previsto. Ossia, oltre alle sue tenebre, si andarono costituendo nel cielo estesi ammassi di rannuvolamenti, i quali si diedero a privarci dello stupendo scenario celeste. Allora vennero meno lo scintillio delle stabili stelle e l’alone della randagia luna. La volta del firmamento, invece, fu vista trasformarsi in un garbuglio di lividi bagliori intermittenti, che si facevano accompagnare da un rotolio di cupi rimbombi. Inoltre, non mancava una baruffa di rozze figure nerastre, le quali erano composte dalle fuggenti nuvole che solcavano il cielo. Esse, nella loro deformità naturale, apparivano dei mostri alati, che erano impegnati in una zuffa efferata intenzionata a durare a lungo. Per questo ritenemmo quelle spettrali coreografie celesti indizi di un imminente nubifragio, che avrebbe scatenato in ogni angolo del bosco uno scompiglio non di poco conto ed avrebbe arrecato a tutti i vegetali un catastrofico sconvolgimento. Prevedendo un fatto del genere, i miei cinque accompagnatori si affannavano nel folto della vegetazione, volendo cercarvi un sicuro riparo per noi e per le bestie per non essere soggiogati dal terribile ciclone in arrivo. Secondo i loro calcoli, esso si sarebbe presentato con una velocità inverosimile e si sarebbe espresso con una furia impressionante.

Erano trascorsi appena pochi minuti, quando le loro previsioni risultarono azzeccate. La temuta bufera di pioggia, dopo essere giunta con una puntualità cronometrica, si apprestò a mettere in subbuglio ogni albero e ogni sterpo di quella intricata boscaglia. A quel punto, perfino i versi degli intimoriti predatori notturni avevano smesso di farsi udire in ogni suo angolo, essendosi rifugiati nei loro nidi oppure nelle loro tane. Così, poco più tardi, una striscia di fuoco incendiò lividamente il tetro cielo, nonché squarciò in profondità le nuvole che vi si rincorrevano, illuminandone la fantastica ridda e l'orrida confusione. L'aria oramai era diventata tutta buia, quando una serie di segmenti abbaglianti sfolgorarono ripetutamente da un capo all'altro della zona boschiva. Invece, qualche istante dopo, facendo seguito ai guizzi luminosi, si udì un tuono possente e cavernoso. Esso prima esplose assordante e poi andò via via spostandosi di nube in nube. Intanto dei fitti scrosci di pioggia iniziarono a bagnare la totalità dei vegetali, inzuppando interamente il terreno. Da parte sua, un vento furibondo ed impetuoso, unendosi a quel soqquadro infernale, nonché lanciando a destra e a manca le sue poderose sferzate, si dava a squarciare l'aria con il suo pazzesco urlio. Agendo in quel modo, obbligava le parti appendicolari degli alberi a ballare la loro sarabanda più indemoniata. Adesso era evidente che quella notte, considerata nella sua reale dimensione, si era trasformata in uno spaventoso e macabro inferno, il quale racchiudeva in sé il caos più apocalittico e selvaggio. Contribuivano a formarlo anche i rami degli alberi, che si dibattevano senza tregua, facendo udire il loro vocio chiassoso. Perciò anche essi si attivavano, volendo fare assalire da uno scompigliante terrore ogni essere vivente che risultasse stabile abitatore del bosco.

Al visibilio di quegli elementi della natura in totale convulsione, i cavalli a buon ragione si imbizzarrirono in modo inusuale e alla fine persero ogni freno. Allora, dopo essersi liberati dei loro conducenti, si lanciarono terrorizzati in quel tramenio di vegetali, che seguitavano ad avvinghiarsi senza contegno tra di loro e a lottarsi senza tregua. A parere dei soldati, se si fossero lasciati sfuggire le bestie in quella circostanza, la loro fuga avrebbe significato una gran brutta faccenda per tutti. Per questo i quattro più giovani, incuranti delle enormi difficoltà e dei seri rischi a cui sarebbero andati incontro, si diedero ad inseguirli con accanimento. Invece il più anziano, ossia quello che mi si mostrava meno scontroso degli altri, rimase con me a resistere alle laceranti raffiche della violenta tempesta. Essa, poiché non accennava a scemare neppure un poco, seguitava ad esprimere la sua rabbia, come non lo aveva mai fatto.

Era già da un pezzo che lottavamo per sorreggerci alla meglio, poiché il veemente ciclone faceva di tutto per sollevarci di peso da terra, allorché un albero si abbatté al suolo. Esso però investì in pieno il soldato che era rimasto con me. Al colpo, lo sentii emettere un manifesto urlo di spasimo. Da parte mia, affrontando non pochi disagi, alla fine riuscii a condurmi presso di lui con l'intento di soccorrerlo come potevo. Ma lo trovai che già agonizzava atrocemente, siccome il massiccio tronco dell'albero gli gravava pesantemente sull'addome, quasi a schiacciarlo. Allora tentai di levarglielo di dosso, mettendoci tutta la mia buona volontà e l'intera forza che era in mio possesso. Mentre mi arrabattavo nella mia impresa filantropica, a un certo punto, scorsi lo sventurato soldato battere i denti e pronunciare a fatica le seguenti parole: "Ragazzo, svignatela subito, se non vuoi che i miei camerati ti uccidano!" Così, qualche istante dopo, essendo esaurito il tempo che il destino gli aveva messo a disposizione, lo vidi spirare di colpo.

A quel punto, smisi di interessarmi della sua salute e scappai via, senza attendere un attimo di più, poiché, dopo la rivelazione che mi aveva fatta il soldato moribondo, non me la sentii più di restare ancora in quel luogo. Al contrario, mi diedi a fuggire senza perdere tempo, avendo intenzione di allontanarmi il più possibile da esso. Per come si erano messe le cose, mi dispiaceva soltanto di non aver potuto appurare la verità sulle reali ragioni che avevano indotto mio zio a farmi intraprendere in modo precipitoso quel viaggio misterioso. In quel modo, egli non mi aveva permesso neppure di assistere ai funerali del mio carissimo babbo! Ma era logico che i suoi cinque soldati non mi stavano mica facendo fare quel tragitto tanto lungo per una gita di piacere oppure con lo scopo di consegnarmi alla morte. Secondo me, se avessero ricevuto da mio zio solo l'ordine di ammazzarmi, avrebbero potuto benissimo spacciarmi prima, risparmiandosi tanto cammino e i numerosi affanni! Allora perché i soldati, ai quali ero stato consegnato, avevano intrapreso il loro ignoto viaggio? In quale posto esattamente essi avevano avuto l'ordine di condurmi? Insomma, potevo conoscere i reali propositi del perfido mio zio Romundo? Invece, per come si erano messe le cose, non mi era più possibile conoscerli.

In seguito, erano trascorse due ore di fuga nel cuore della notte e in balìa di quel turbine imperversante, allorché mi resi conto che mi stavano venendo meno le forze. Così, poco più tardi, acciaccato dagli strapazzi fisici che avevano reso i miei muscoli distrofici, mi afflosciai per terra semimorto. Intanto che ansimavo forte, alla fine si impadronì della mia persona una specie di deliquio. Perciò esso mi strappò sia al reale me stesso sia alla boscaglia, la quale seguitava ad essere la preda preferita della più convulsa delle baraonde.


Quando rinvenni, mi accorsi all'istante che in me qualcosa non funzionava perfettamente. Infatti, avvertivo una certa anomalia organica, la quale mi paralizzava gli arti e mi privava anche della vista. Sebbene potessi pensare ed ascoltare regolarmente, ero impossibilitato a camminare e a fare uso degli occhi. Eppure avevo la sensazione che mi stessi muovendo, poiché percepivo qualcosa molto somigliante ad un avanzare di passi. Inoltre, riuscivo ad avvertire che il mio corpo subiva dei lievi sballottamenti. A tale riguardo, mi andavo chiedendo dove fossi; anzi, ignoravo perfino se fossi ancora vivo. Comunque, ero in grado di sentire e di pensare, la qual cosa mi incoraggiava a considerarmi ancora un essere vivente; però restavo pure immobile, con lo sguardo fisso totalmente nel nulla, come se fossi morto. A quanto pareva, poteva esserci anche l'amara probabilità che io fossi deceduto. Ma poi constatai che il mio io interno si presentava assolutamente vivo; mentre quello esterno appariva estinto almeno in parte, se non proprio del tutto. Intanto pensavo tra me: "Chissà cosa ne sarà stato del mio corpo, siccome ho smesso di avvertirlo! Tutto è davvero strano!" In merito alla mia persona, quindi, mi pareva che coinvolgesse due me distinti e separati. I quali, restando collocati l'uno all'interno e l'altro all'esterno di essa, nel medesimo tempo mi apparivano identici e abbastanza diversi.

Data la situazione, dovevo uscire a qualsiasi costo da quel riposto meandro della mia esistenza, poiché essa in quel momento si mostrava ingarbugliatamente promiscua di vita e di morte. Soltanto così mi sarei ricondotto alla mia realtà. Ma ci volle un bel po' di tempo, prima che un raggio di luce venisse a rischiarare la mia mente offuscata e ondivaga. Solamente allora la memoria incominciò a funzionarmi quasi in modo normale, riportandomi ai primi gradini della coscienza. Per questo adesso mi ricordavo parzialmente di me. La tempesta che fine aveva fatto? Perché mai non avvertivo più alcun suo indizio? I soldati di mio padre dove erano finiti? Insomma, potevo sapere dove mi trovavo per esattezza? Come constatavo, il mio io interiore andava acquistando una maggiore energia vitale; mentre quello esteriore, che era il più compromesso, non faceva alcun passo in avanti nel recupero di sé medesimo. Per tale ragione, esso seguitava a restarsene rattrappito e quasi paralizzato; inoltre, lasciava il corpo, che lo rappresentava, immobile e privo di ogni traccia di vita vissuta.

In seguito, avendo recuperato in parte la funzionalità del mio io pensante, ripresi pure ad avere la parziale gestione della mia esistenza. Allora non mancarono le mie prime osservazioni sul mio essere, le quali furono le seguenti: Perché mi sembrava di muovermi e di avanzare tra spazi circoscritti? Come mai avevo la sensazione che il mio corpo continuasse a ballonzolare? Soltanto alla fine mi resi conto che venivo trasportato sopra una barella. Invece più tardi, un vocio confuso e tre colpi di gong mi spinsero a stare in ascolto. Ero convinto che la nuova circostanza presto mi avrebbe svelato il mistero, il quale da qualche giorno si era messo ad assillarmi in modo esagerato. Così prima ci fu un profondo silenzio; poco dopo si udì una voce che diceva:

«Grande capo Cotiuk, i nostri bellicosi guerrieri, durante la loro consueta perlustrazione nel bosco vicino, vi hanno trovato questo ragazzo privo di sensi. Allora cosa vuoi che ne facciamo? Se ci impartisci l'ordine in merito a lui, subito lo eseguiremo, come siamo abituati a fare ogni volta, dopo che c'è stato un tuo comando!»

Il capo, dal canto suo, non si degnò di rispondergli in nessuna maniera; invece rimase completamente silenzioso. Poco dopo, dal momento che gli si doveva leggere sul volto una chiara espressione di rabbia, la stessa voce che aveva parlato per prima cercò di capirci qualcosa. Perciò, rivolgendosi di nuovo a lui, si diede a dirgli:

«Se non sbaglio, mio illustre capo, sei molto adirato. Mi dici quale fatto ti fa essere di così pessimo umore oppure chi ti ha fatto arrabbiare nel modo che stai dimostrando? A ogni modo, sono certo che da me non hai potuto subire alcun torto, essendo grande il mio rispetto per te!»

Alle sue domande insistenti, le quali lo invitavano a chiarirsi, il suo capo infine decise di rompere il silenzio e di accontentarlo. Allora la sua risposta fu la seguente:

«Come vedo, dimentichi presto ogni cosa, mio consigliere! Ma puoi essere certo che, se mi scorgi nel modo che hai notato, non ce l'ho affatto con te; invece sono adirato perché sulla terra non dovrebbe esserci posto per luridi fedifraghi! In questo modo si vivrebbe meglio, senza attenderci né torti né contrarietà da parte di nessuno!»

«Non riesco ancora a comprenderti, potente Cotiuk. Vuoi palesarmi a chi esattamente ti sei voluto riferire con le tue parole sdegnose? Vorrei proprio saperlo, per favore!»

«Veskut, hai già scordato lo scellerato Romundo di Terdiba?»

«Come potrei dimenticarlo, Cotiuk? Anzi, lo rammento benissimo! Non puoi che riferirti al fratello del re Elezomene! Un mese fa, egli è venuto a chiederti il favore che noi due conosciamo. Eppure quel giorno, quando si presentò a noi, ci parve una persona per bene che non ci avrebbe mai delusi! Mi chiarisci quale offesa ti ha arrecato?»

«Come sai, Veskut, il favore che gli ho fatto non è stato da poco! Ad opera mia, il farabutto ora si ritrova a regnare su Terdiba, al posto del defunto germano. Il traditore, volendo usurpare il trono al fratello, venne a chiedermi di aiutarlo nella sua congiura ai danni dello stesso. In quella circostanza, l'usurpatore mi promise che, in segno di riconoscenza, mi avrebbe fatto condurre il nipote Astoride, perché ne divorassi le carni. Da parte mia, ho tenuto fede alla mia parola, intercedendo per la sua riuscita presso il nostro divino Siroctu, l'immortale spirito che tutto può ed è il nostro protettore. Il fratricida, invece, non ha onorato la sua promessa e non mi ha mandato quanto mi doveva! Ecco perché, senza perdere altro tempo, ora prego il nostro dio in questo modo: "O Spirito Immortale e Alito della Vita, che mal si goda l'odierno re Romundo il suo regno e morte gli venga al più presto! Anzi, desidero che sia il figlio stesso dell'ucciso ad eliminarlo, vendicando il padre fatto assassinare da suo zio! Quindi, ti prego di esaudire il mio desiderio!"»

Avvenuta la preghiera di Cotiuk, fu udita una voce stentorea, che si esprimeva con queste parole: "Mio fanatico devoto, con le tue parole hai formulato un destino che forse non ti garberà per niente; ma oramai esso è diventato indeprecabile. Tu verrai appagato nel desiderio da te espresso; ma... E poi sei stato tu a chiedermelo: non ti pare? Ti anticipo che presto tu e il tuo popolo dovrete rinunciare alla vostra esistenza!"

Quel 'ma' del dio, il quale aveva fatto presagire che ci sarebbero stati eventi molto spiacevoli per lui e per il suo popolo, indispose alquanto Cotiuk. Perciò egli, volendo sfogarsi in qualche maniera, con evidente stizza ordinò che mi chiudessero nella cella più buia e malconcia che ci fosse nel castello. Inoltre, diede disposizione che mi ci facessero restare fino al giorno in cui egli non avesse deliberato di procurarsi dalle mie carni un pasto sostanzioso e prelibato. Invece sono trascorsi tantissimi anni, più o meno una ventina, e non l'ho mai visto avverarsi. Anzi, grazie al vostro provvidenziale intervento, amici miei, una simile eventualità si è inserita in una data che non avrà mai più una sua collocazione nel tempo futuro. Al contrario, mio zio Romundo dovrà fare i conti con i propositi di vendetta che formulai un giorno, i quali non si sono mai sopiti in me! Per fortuna, avevo fatto giusto in tempo a conoscere la verità sull'arcano viaggio che mio zio mi aveva fatto intraprendere, poiché poco più tardi mi sorprese di nuovo la cecità della mente. Infatti, un nuovo improvviso svenimento, aggredendomi inavvertitamente, mi ricacciò in una esistenza del tutto priva di coscienza.